ItaliaOggi, 19 marzo 2022
Storie segrete del fumetto
C’è un momento, negli anni settanta, in cui il fumetto ripudia le forme tradizionali, la trama lineare, la classica geometria delle tavole, per convertirsi all’avant-garde, alle esplosioni di colori, all’anarchia del racconto, alla psichedelia delle forme. Tempo di sperimentazioni: politica estremista, stati alterati di coscienza, controculture pop, sex revolution. In musica: Sgt. Pepper, The Doors, Magical Mistery Tour. Nel fumetto: fin dal 1963 le tavole allucinogene del Doctor Strange di Steve Dikto (oggi un blockbuster cinematografico); poi Jean Giraud, in arte Moebius, e le tavole essenziali e conturbanti dei suoi «garage ermetici»; quindi la rivista francese Metal Hurlant e la sua succursale americana, Heavy Metal; da noi Andrea Pazienza, Cannibale, Alter-Alter. Presto sarebbero esplose, debordando da una pagina all’altra, con effetti grafici deliranti e incontri di lotta sadomaso da far arrossire l’intero catalogo dell’Olympia Press, anche le tavole dei fumetti di supereroi, specie Mûrvel, sempre più caotici e scontati, oggi al limite della leggibilità. Così i fumetti à la mode. Negli ultimi anni persino Hugo Pratt slitta dall’avventura alla teosofia (Mù, la città perduta, Rosa Alchemica, Le Elvetiche).
Tutti partecipano al festino, ed è una specie di Woodstock dei fumetti, autori e personaggi. Tutti raggianti, tutti fumati, niente inibizioni. Tutti, ma non Sam Pezzo, il detective bolognese di Vittorio Giardino. Baffoni, trench, una pistola a tamburo, Sam Pezzo incarna l’amore per il noir che, insieme all’incantamento da avant-garde, caratterizza l’epoca. Intorno a lui, una Bologna espressionista, notturna senza essere cupa e persino, volendo, un po’ «grassa», popolata d’immigrati, di studenti del DAMS, di punk, di teppisti, di silenziosi alcolisti da osteria e di ragazze snelle e tristi, che portano scritto in viso, dietro gli occhi bistrati, la propensione a mettersi nei guai, uscirne, e poi rifinirci dentro.
Una galleria di fenomeni urbani, tra donne cannone e uomini ragno, ciascuno dei quali, una volta o l’altra, s’imbatte in Sam Pezzo o affida il proprio «caso» (ce n’è sempre uno) a Sam Pezzo. Questi – per poche migliaia di lire, all’epoca ci sono ancora le lire, niente Bancomat, niente ApplePay, praticamente la preistoria – esplora le catacombe e le periferie di Bologna la Dotta rimediando brutti incontri (dark ladies, «malamente», tossici) come Sam Spade a San Francisco e Mike Hammer a New York. Oltre che «Dotta», Bologna è all’epoca anche «Rossa»: una dépendance sapor lasagna del socialismo reale, la sola repubblica sovietica al mondo in cui il lato oscuro, o meglio noir, convive con un «volto umano», altrove solo millantato. Qui Sam Pezzo, giovane, idealista e baffuto, opera negli ultimi anni settanta, un’ultima volta (una storia intitolata Shit City, se non ricordo male) all’inizio del decennio successivo, quindi scompare quando Giardino passa ad altro.
Passa alle spy stories, e arretra dai seventies agli anni trenta, protagonista un agente segreto francese, Max Fridman, pelo rosso, barbuto, sempre elegante, la pipa, l’aria dell’intellettuale. Budapest, Parigi, Barcellona, Istanbul. Siamo a pochi passi dalla guerra, Hitler freme per una rivincita, Stalin si guarda intorno spaventato e sospettoso, su Trotsky (rifugiato in Messico) pende una sentenza di morte, l’Inghilterra s’illude di poter salvare l’Impero a chiacchiere, le democrazie sono un’altra volta a rischio, come una guerra prima, e la Spagna è passata ai franchisti. Ma poteva andarle peggio: diventare una repubblica sovietica, che a differenza dell’Emilia Rossa, difficilmente avrebbe potuto permettersi un volto umano.
È andata peggio a Jonas Fink, ebreo di Praga sotto i comunisti, il personaggio di cui Giardino racconta (Jonas Fink. Una vita sospesa, Rizzoli-Lizaes 1917) l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta, dal 1950 al 1990. Per una sorta d’evoluzione inevitabile, l’Europa d’Eric Ambler e Graham Greene, esplorata da Giardino nelle storie di Max Fridman, cresce a catastrofe totalitaria nel racconto della vita di Jonas Fink, che non è una storia di spie ma peggio: la storia di persone qualunque, ciascuna delle quali è un potenziale nemico del popolo, nel mondo amministrato da agenti segreti, polizia politica, intellighenzia codarda e pasdaràn marxisti-leninisti. E mai, tra parentesi, s’è vista una Praga più sfortunata e più bella che in queste tavole di Vittorio Giardino.
Veniamo infine a Tratti in salvo, il suo nuovo libro, dove sono raccolte le opere occasionali – come appunti di viaggio, o come etichette di hotel incollate alla valigia – d’una lunga e brillante carriera al servizio della narrativa per immagini e dell’illustrazione. Sono brevi storie scritte e disegnate in giovinezza, o maturi divertissement che hanno per protagonisti Diabolik, Federico Fellini, Martin Mystère, Corto Maltese, lo stesso Giardino. Sono bellissime (ingenue, o fatali, e comunque straordinarie e burrose) immagini di pin-up, a dimostrazione che Milo Manara non è il solo fumettista che eccelle nel nudo e nelle storie erotiche (vedasi per esempio Vittorio Giardino, Little Ego, Rizzoli-Lizard 2006, come pure le storie, che ricordiamo qui senza avarizia, raccolte in Viaggi, sogni e segreti, Rizzoli-Lizard 2020).
Ci sono réclame di vini (belle bevitrici, bistrot, cesti d’uva, Max Fridman che si porta alle labbra con aria pensierosa un bicchiere di Denis Mercier Dôle 1990). C’è il cadavere d’una donna in una cantina: bottiglie, barattoli, provole, zamponi, prosciutti, mortadelle, il sangue che imbratta una forma di parmigiano. Ci sono evviva a Guareschi, Ionesco, Collodi. Non mancano gli omaggi musicali (al jazz, e alla scrittura «rosso vino» di Francesco Guccini) e cinematografici (Il grande sonno, Tarzan, Totò, Blow-Up, Sophia Loren, Casablanca, Il terzo uomo, Groucho Marx, Brigitte Bardot).
Ci sono infine due illustrazioni dedicate a C’era una volta in America di Sergio Leone. Una delle due è l’immagine d’un tizio di spalle, Borsalino in testa, che spara da una finestra al set del film più sotto, Leone che guarda in alto, verso il killer. Questi dice: «BANG!». È una scena che inventai, con me stesso protagonista, per il libro che scrissi sul film (C’era una volta in America, Rizzoli 1984, poi Milieu 2015) e l’immagine illustra un servizio sul libro uscito sulla rivista Pilot. Ero io il killer e, mentre scrivo, ho l’originale cum dedica qui davanti a me. Quanto tempo. Un’altra era geologica, in cielo pterodattili, velociraptor dietro ogni cespuglio. E come pioveva.