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 2022  marzo 19 Sabato calendario

Orsi&Tori


Se Vladimir Putin non avesse attaccato l’Ucraina, a tenere banco in Italia fra poche settimane sarebbe stata un’altra guerra, beninteso di diversa natura ma comunque importante: la guerra per la conquista delle Generali, nella quale Putin è Franco Caltagirone e Volodymyr Zelensky è Philippe Donnet, con al suo fianco il consiglio d’amministrazione in carica. Martedì 3 sono stati rivelati i due schieramenti, con Donnet che ha fatto brillare contemporaneamente alcune mine potenti come il record storico degli utili del gigante di Trieste: 2,8 miliardi di utili netti, pari al 63,3% in più rispetto a quello del 2020 e oltre 3 miliardi liquidi in cassa. Ma per osservare l’evoluzione di questo scontro ci sarà tempo fino all’assemblea del 29 aprile. È meglio concentrarsi pertanto sull’evoluzione negativa che il sistema economico mondiale sta subendo a causa della guerra guerreggiata e delle reazioni di larga parte del mondo

con l’arma puramente economica delle sanzioni alla Russia.
Per capire meglio la portata del cambiamento, non si può sottacere che cosa ha rivelato in un suo scritto diretto il professor John Joseph Mearsheimer, membro della facoltà di scienze politiche dell’università di Chicago, definito, nella classificazione degli studiosi di politica e strategie internazionali il realista più influente della sua generazione. La sua tesi è che la responsabilità di quanto sta accadendo è di fatto non solo di Vladimir Putin ma degli organismi internazionali e in primo luogo la Nato e anche l’attempato presidente Joe Biden.
Scrive il professore di Chicago: «Già nell’aprile del 2008 al vertice Nato a Bucarest il presidente George W. Bush spinse l’alleanza ad annunciare: Ucraina e Georgia diventeranno membri…». I leader russi risposero che questa era una grave minaccia esistenziale per il loro paese. E Putin avvertì: «Se l’Ucraina entra nella Nato lo farà senza la Crimea e le regioni orientali. E semplicemente cadrà a pezzi». Scrive ancora il professore realista: «L’America ha ignorato la linea rossa di Mosca e ha spinto in avanti per rendere l’Ucraina un baluardo occidentale al confine con la Russia. Quella strategia includeva altri due elementi: avvicinare l’Ucraina alla Ue e renderla una democrazia filoamericana».

L’effetto è stato l’esplosione delle ostilità nel febbraio 2014: gli Usa sostennero una rivolta che costrinse alla fuga il presidente dell’Ucraina filorusso, Victor Yanukovych e la Russia si prese la Crimea fomentando la guerra civile nel Donbass.
A fine 2021 l’Ucraina stava diventando nei fatti un membro della Nato. A innescare il processo era stato tre anni prima la decisione del presidente Donald Trump di vendere a Kiev armi definite difensive, che invece Mosca ha subito considerato offensive anche perché venivano usate nel Donbass contro la comunità russa. Ma anche altri paesi della Nato hanno venduto armi all’Ucraina e non solo: hanno anche addestrato i militari con la loro partecipazione a esercitazioni aeree e navali. Nell’estate scorsa l’Ucraina ha partecipato con gli Usa a una grande esercitazione navale nel Mar Nero con le flotte di 32 paesi. Un’esercitazione (battezzata Sea Breeze) che ha quasi spinto la Russia a sparare contro il cacciatorpediniere britannico «che era entrato», ricorda il prof. Mearsheimer, «deliberatamente nelle acque considerate territoriali dalla Russia».

Ma anche il nuovo presidente Joe Biden ha stretto sempre più i legami con l’Ucraina, firmando «La carta per la partnership strategica fra noi e l’Ucraina». E il documento firmato nel novembre scorso dal segretario di stato americano, Antony Blinken insieme a quello ucraino Dmytro Kuleba, recita «…un impegno per l’attuazione da parte dell’Ucraina delle riforme profonde per la piena integrazione nelle istituzioni europee ed euroatlantiche». Questo documento, sempre secondo il professore dell’università di Chicago, è connesso dichiaramente agli “impegni per rafforzare il partenariato strategico firmato dai presidenti Biden e Zelensky sulla base della dichiarazione del vertice di Bucarest del 2008”.
La conclusione della Russia le ha tratte, scrive il professor Mearsheimer, il ministro degli esteri Sergei Lavrov: «Abbiamo raggiunto il nostro punto di ebollizione». Mosca, infatti, aveva manifestato il suo risentimento iniziando a mobilitare il suo esercito (le famose manovre di addestramento, al confine con l’Ucraina). Nonostante ciò, scrive letteralmente il professore, Biden ha continuato ad avvicinarsi all’Ucraina.

«La Nato è un’alleanza difensiva», hanno scritto proprio dalla Nato a Putin, «e quindi non rappresenta una minaccia per la Russia».
Putin l’ha pensata e la pensa diversamente e, facendosi prendere dall’impazienza, come confidano governanti a lui vicini, è caduto nell’errore di avviare la guerra. Imperdonabile? Certamente, per come si sta sviluppando il conflitto, sapendo l’ex-colonnello del Kgb che anche in caso di vittoria il mondo occidentale e non solo lo avrebbero considerato un killer e che comunque anche il costo della conquista e dell’occupazione sarebbe stato, sarà, è già enorme. Sua, di Putin, questa frase storica, riportata dal prof. realista: «Chi non sente la mancanza dell’Unione sovietica non ha cuore. Ma chi la rivuole indietro, non ha cervello». Vera o non vera, il costo per tutti è e sarà enorme. Per questo il prof. Mearsheimer arriva a scrivere sul settimanale più autorevole del mondo, The Economist, che la sua ricostruzione non può essere smentita perché “molti eminenti esperti americani di politica estera hanno messo in guardia contro l’espansione della Nato fin dall’inizio del nuovo secolo: il segretario americano alla difesa di allora, Robert Gates, al vertice di Bucarest, ha riconosciuto che “cercare di portare la Georgia e l’Ucraina nella Nato era veramente eccessivo”. E in quel vertice, sia Angela Merkel che il presidente francese Nicolas Sarkozy, furono esplicitamente contrari a far entrare l’Ucraina nella Nato, perché era per loro chiaro che la Russia si sarebbe infuriata.

E ora il mondo è di fronte all’orrore delle morti, della distruzione e a uno sconvolgimento economico senza precedenti, che ovviamente può essere considerato niente rispetto agli effetti più drammatici della guerra, le cui immagini sono prevalenti su tutto, invadendoci la vista, il cuore e il cervello perché mai come oggi le immagini possono essere catturate da tutti con gli smartphone e rilanciate su tutti gli smartphone di cittadini in tutto il mondo. Ma siccome la vita non finisce in Ucraina, si è obbligati a capire che cambiamento avrà il mondo. Che mondo sarà quando la guerra finirà, perché prima o poi finirà, specialmente se chi delle due parti ha il potere di decidere recupererà un minimo di saggezza e di pietà.
In primo luogo, il cambiamento del mondo, accelerato dalla guerra, avverrà per gli effetti devastanti anche se non cruenti, di sangue vivo, della crisi economica. Carburanti, cibo, merci. La loro mancanza, con i prezzi alle stelle, l’inflazione sempre più pericolosa, sono, se vogliamo, l’aspetto più visibile perché alla guerra con le armi cruente si è accompagnata la guerra fatta di sanzioni e di contro sanzioni. Il mondo sembrava felice, perché si era organizzato con la globalizzazione, che a parte alcuni sfruttamenti di lavoro a bassissimo costo per la competitività dei prezzi, garantiva una sostanziale libertà di circolazione delle merci: il grano ucraino per sfamare molte parti del mondo, il gas russo per scaldare e far funzionare molti paesi dell’Europa con in primo luogo l’Italia. Come tutte le cose del mondo terreno, anche la globalizzazione ha avuto difetti, in primo luogo lo sfruttamento appunto di lavoro manuale a basso costo. Ma ha fatto girare l’economia per un mondo in cui ci sono alcuni miliardi di abitanti che fanno ancora la fame.

A far partire la globalizzazione fu Bill Clinton, il presidente americano che andò ad abbracciare Boris Eltsin e anche Putin e che operò perché la Cina entrasse nel Wto. Per la crescita della Cina è stata un’opportunità fondamentale. Ma il libero commercio è tipico del mondo libero. Lo è stato fino a quando Trump non ha ripreso in mano l’arma dei dazi. Ci si domanda quindi se quanto è accaduto e sta accedendo, cioè il confronto fra le economie libere e le strutture statali autarchiche, potrà consentire che ci sia ancora la migliore libera circolazione delle merci. È convincimento solido che la Cina non si opporrà, per chiaro interesse, a che il fenomeno continui, ma la sua saldatura con la Russia è nata proprio in occasione delle sanzioni economiche che il presidente Barack Obama impose a Putin dopo l’annessione della Crimea. Quindi, la saldatura fra i due paesi autoritari si farà sempre più forte? E l’altra domanda è: è possibile massimizzare i commerci da parte delle democrazie senza mettere a rischio la loro sicurezza? La guerra mossa dalla Russia dimostra che vanno riprogettate le catene di approvvigionamento, in modo da non essere condizionati dai paesi autocratici. Se non si ritrova un equilibrio, si andrà verso pericolose autarchie; pericolose perché l’autarchia collassa lo sviluppo.

Nei lunghi anni della guerra fredda non è che non ci fossero scambi con la Russia, che esportava energia e grano, e proprio in Italia, con la Fiat a Togliattigrad, ebbe l’opportunità addirittura di andare a produrre nell’Unione sovietica, grazie anche alla presenza nella penisola di un partito comunista legatissimo a Mosca.
La svolta è avvenuta con la caduta del Muro di Berlino. Un periodo nuovo nel quale il libero scambio è cresciuto. Come sono cresciuti in maniera significativa i paesi a democrazia formale o comunque sostanziale. Nel 2000 Clinton, come detto, giudicò l’ingresso della Cina nel Wto come premessa per la crescita dei diritti umani e conseguentemente della democrazia politica.
Negli ultimi 10 anni c’è stata una forte involuzione, con la diminuzione sotto il 50% dei cittadini che vivono in democrazie. Ma fino alla guerra in Ucraina, non era venuta meno un’economia globalizzata, quindi con scambi sostanzialmente liberi. Anche perché circa il 30% delle importazioni dei paesi democratici viene da paesi dove vige l’autocrazia. Per converso il 30% degli investimenti nei paesi dove vige l’autocrazia viene dai paesi democratici. È stato calcolato che prima della guerra e delle sanzioni, ogni giorno i paesi democratici hanno comprato per circa 16 miliardi di dollari dai paesi autocratici.

Il pericolo maggiore per lo sviluppo economico del mondo è che a guerra finita le sanzioni e i divieti di esportare in Russia o nei paesi analoghi per molti settori industriali dei paesi democratici determinino una profonda crisi economica a ovest ed est..
Per tutto ciò è evidente fin d’ora che, non l’autarchia ma l’autosufficienza per i prodotti strategici debba essere immediatamente ricercata dai paesi democratici. Ma il crollo del libero scambio è già stato sperimentato e si è visto che ha colpito sia i paesi democratici, con crolli del pil, sia i paesi autocratici con la crescita della fame.
Sarà fondamentale verificare se la Cina, il più grande mercato del mondo, per salvare la sua autocrazia pensi di ridurre il suo entusiastico scambio commerciale. Probabilmente la crisi in cui la Russia si troverà per le sanzioni faranno prendere alla Cina orientamenti ben diversi. E un sintomo preciso è che di fatto, specialmente durante la presidenza Trump, la Cina è stata il maggior sostenitore del Wto. Mentre lo stesso presidente statunitense Biden, sia pure animato da ideologia assolutamente diversa da quella di Trump, ha più volte vantato, in discorsi interni al paese, che in moltissimi settori tutto è americano. Un segno molto brutto per la ripresa mondiale.