Sette, 18 marzo 2022
Biografia di Amadeus raccontata da lui stesso
Amadeus, mi racconti come era la tua stanza da bambino?
«La condividevo con mio fratello Gilberto. Io sono del ‘62 e lui del ‘66. Ricordo che c’erano due camere vicine, una però mia madre la teneva sempre vuota per gli ospiti. Ma la verità è che non veniva mai nessuno. E io non capivo perché mio fratello non potesse dormire nella stanza vuota. Non l’ho mai capito. In camera nostra c’erano due letti collocati testa contro testa, un comodino in mezzo, una piccola scrivania. E poster, musicali, ovunque».
Di chi?
«Sono cresciuto con la musica internazionale: Police, Pink Floyd, Eagles, Yes, Deep Purple, Led Zeppelin. Quel mondo fantastico mi faceva sognare: immaginavo di possedere una grande Jeep e di guidare sulle highways ascoltando la musica degli America o dei California. Nella camera c’erano uno stereo, un giradischi vecchio, e una marea di 45 giri. Qualsiasi soldo avessi in tasca lo spendevo in 45 giri. Mia madre impazziva, per questo. Li ascoltavo anche venti, trenta volte al giorno. Mamma si arrabbiava: “Studia! Stai sempre a sentire la musica, studia!”».
Ti ricordi come è iniziata questa passione?
«I miei sono siciliani e quando andavamo a in vacanza a Isola delle Femmine, a Sferracavallo, la cosa fondamentale per me era portare il mangiadischi. Mia madre e i miei nonni avevano sempre teglie intere di pasta al forno, ma a me non importava. Volevo solo e spingere io i 45 giri nel mangiadischi. Poi, a diciassette anni, un mio amico che abitava al di piano di sotto, Gianni, un giorno mi disse: “Mi accompagni, che c’è un provino in una radio?”. Si chiamava Blu Radio Star, ora non esiste più. Ricordo che eravamo in una stanza grande, venti ragazzi tutti seduti, e io accompagnavo Gianni. Tutti entravano, facevano un provino di lettura al microfono e una piccola simulazione di un brano da annunciare. Ascoltarono tutti e venti, il mio amico fu l’ultimo. Io mi alzai per andarmene, ma mi fermò il direttore Mimmo Sgambati che mi disse: “Tu non lo fai il provino?”. Io risposi “No, sono qui solo per accompagnare il mio amico”. Lui insistette: “Però hai il vocione, voglio sentirti.”. Feci questo provino e andai via. Dopo dieci giorni lui mi chiamò e mi disse “L’unico che ho preso dei venti, sei tu”. L’amico non mi parlò più, chiaramente. Però io da lì ho cominciato. Sliding doors. Casualmente».
Altrimenti cosa avresti fatto nella vita?
«Forse questo, lo stesso. A quattordici, quindici anni andavo dai nonni il sabato e guardavo Canzonissima, poi il giovedì il quiz di Mike Bongiorno, ero attratto da quel mondo magico. Mi piacevano Raffaella Carrà, Corrado, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Enzo Tortora. Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, io dicevo il presentatore televisivo o l’allenatore di calcio».
Un po’ lo stesso mestiere: organizzare squadre, mettere ordine nelle cose, imporre un’atmosfera.
«Forse sì».
Ti ricordi che libri leggevi da bambino?
«Io sono sempre stato poco bravo a scuola. Non ho mai letto molto. Considero di avere imparato molto facendo i quiz. Nel senso che a scuola ero uno bravo ad organizzare le feste il sabato, bravo a tenere su il morale della classe, bravo a fare casino. Ma non ero uno studente modello. Ero quello dell’ultimo banco, capace di fare le imitazioni degli insegnanti e bravissimo in alcune materie, ma scarsissimo in altre. Mi piaceva l’interrogazione di italiano, avevo la parlantina sciolta, me li intortavo, parlavo per ore e quelli mi davano nove, dieci. Se però c’era matematica io mi rifiutavo e scrivevo sul compito: “non so neanche da dove iniziare”. Regolarmente prendevo due, tre».
Il primo jukebox della tua vita te lo ricordi?
«In un bar di Sferracavallo, avevo sedici anni. Il disco che mettevo sempre era Ti amo di Umberto Tozzi. Credo d’aver sentito Ti amo e Tu, senza esagerare, almeno centocinquanta volte, nel corso di quella vacanza».
Quanta televisione vedevi tu?
«Per essere un ragazzino di quattordici, quindici anni, tanta».
Che lavoro facevano i tuoi?
«Mio papà era istruttore di equitazione, mia mamma casalinga e hanno girato l’Italia. Dalla Sicilia si sono trasferiti a Ravenna dove sono nato io, poi a La Spezia. Infine a Verona, dove sono cresciuto».
Cosa ti hanno detto i tuoi dopo Sanremo?
«Si sono commossi. Mia madre mi ha scritto un messaggio che mi ha strizzato il cuore. Mi hanno detto: “Non siamo degni di essere i tuoi genitori”. Ho risposto: “Non lo dovete dire neanche per scherzo”. Loro stanno sempre in un angolo, non sono molto presenti, sono timidi. Mio padre poi è un uomo molto severo, molto forte caratterialmente, poco espansivo. Loro hanno fatto una cosa molto importante per me, non mi hanno mai ostacolato. Negli Anni 70 sentire che tuo figlio faceva il dj era come dire che era un drogato. Tante volte glielo hanno chiesto e non si sono mai vergognati. All’epoca per un ragazzo come me era impensabile fare la televisione. Avevo due genitori che non c’entravano niente col mondo dello spettacolo, io non conoscevo nessuno, non ero figlio d’arte. Le mie probabilità non erano una su mille, ma una su un milione. Però ce l’ho fatta».
C’è stato mai un momento in cui hai pensato di aver sbagliato strada?
«No, rispetto al mio lavoro no, mai. Sono sempre stato convinto di aver preso la strada giusta. Quello che sognavo di fare da ragazzo l’ho realizzato e questa la considero la grande fortuna della mia vita».
Tortora, Bongiorno, Corrado, Baudo. A chi ti senti più vicino?
«Per il modo di gestire il palco, Pippo. Io, anche quest’anno, quando ho accolto i cantanti che entravano avevo bisogno di avere un contatto fisico, dopo due anni di distanziamento. Volevo toccare una spalla o abbracciarli. Si è detto che è stato anche il festival degli abbracci, ed è vero, volevo proprio questo. Il rispetto della liturgia nel quiz l’ho appreso da Mike Bongiorno, il non prendere troppo sul serio tutti dall’ironia di Corrado. Enzo Tortora aveva un’eleganza unica, forse irriproducibile. Io cerco sempre di tenermi lontano dalla volgarità».
Pippo si è fatto sentire dopo il festival?
«Con lui ho parlato prima del festival, ci siamo sentiti più volte. Quando fui designato ci incontrammo in un ristorante e lui mi disse: “Ricordati che devi conoscere a memoria le canzoni e devi lavorare con i cantanti, modificare quello che ritieni modificabile e lavorare su ogni brano. Devi essere padrone del brano tanto quanto il cantante che lo interpreta.”. Per tre anni ho fatto proprio così».
Proviamo a fare un gioco. Immaginiamo che tu possa invitare a cena quattro personaggi della storia della televisione.
«Adriano Celentano e Roberto Benigni perché è di un livello culturale alto. Io sono affascinato forse perché sono l’ultimo della classe, sono stregato dai primi della classe. Io dicevo sempre al più bravo di tutti: “Siediti vicino a me, stiamo all’ultimo banco. Tu ti diverti e io imparo”. E quindi mi piace avere persone che mi possano raccontare. Io amo assorbire dagli altri. Poi mi piacerebbe Mollica».
Mollica è a metà tra un cartone animato ed un essere umano.
«Mollica, sì. Mollica sempre per la storia del racconto, che mi affascina. E poi Mina, che non ho mai incontrato nella mia vita. In una cena così tolgo gli orologi, perché lì il tempo non deve mai passare».
Un festival con i palloncini e uno con le mascherine. Cosa è stato fare spettacolo in mezzo ad una tragedia come la pandemia?
«Sono stati tre festival completamente diversi dall’altro. Il primo era il festival dell’assembramento. Io non ho mai visto tanta gente nella mia vita, eppure ho frequentato locali, discoteche... C’era gente ovunque. Il secondo era il deserto, una situazione drammatica. Ho l’immagine di quando uscivamo dal teatro Ariston, la sera dopo le prove, e Sanremo sembrava una città morta. Con il lockdown si era pensato di non farlo, io mi sono opposto fortemente. Cinque serate di leggerezza, in quella tragedia, non facevano male, né per le persone a casa né per il mondo della discografia, per i lavoratori della musica. Farlo con i palloncini al posto del pubblico è stato terribile. Per fortuna c’era Fiorello, vicino a me. Lui si è caricato sulle spalle molto. Io in fondo presento canzoni, non ho bisogno del rimbalzo delle emozioni del pubblico, mi concentro sulla telecamera e basta. Lui no, lui fa ridere e se davanti non c’è nessuno che ride è micidiale. Ma Fiore è riuscito anche a fare questo. L’ultima edizione è stata una gioia. Avevamo le mascherine ma non ci facevamo caso, c’era il calore del pubblico, l’applauso, l’ovazione, le risate e il divertimento, il calore. Era bellissimo vederli in piedi o ballare».
Ti sei ritagliato uno spazio, come altri grandi presentatori, che è anche un po’ quello della spalla...
«Mi viene naturale, mi diverto, mi piace la comicità. Vivo la televisione come il primo spettatore, se c’è un comico io sono felice di fare da spalla a lui. Non voglio che tutto ruoti intorno a me. Quello che mi piace è far ruotare tutto nella maniera giusta.».
La leggerezza è una parola che spesso è considerata un insulto...
«No, la leggerezza per me deve fare parte dello spettacolo. Io faccio spettacolo, devo portare nelle case delle persone un clima di serenità. Non sono un giornalista, non faccio un approfondimento, non faccio il medico, devo portare una brezza lieve nelle case e mi viene naturale, non la studio. La leggerezza è una cosa bella, poi ognuno, nel quotidiano, ha la propria vita. Io posso essere ansioso, posso avere un carattere diverso da quello che appare. Chi fa questo mestiere è po’ come il clown al circo. Per quanto io sia vero in televisione... Quello è Amadeus. Nella vita sono Amedeo, siamo due cose diverse».
Al circo i clown ti facevano piangere o ridere?
«Ridere, a me facevano ridere e non li volevo mai vedere struccati perché in quel modo mi mettevano un po’ di tristezza. Volevo fare la foto con il clown, non con il clown in “borghese”. Mi facevano ridere in scena, ma capivo che poi il clown ha una sua vita, una sua faccia. Se lo vedi fuori dal contesto, un po’ triste, tutto cambia. E questa cosa non l’accettavo. Volevo che la realtà fosse la finzione».
Un tempo Sanremo era più indietro del Paese, una specie di zona presidiata, murata, dentro la quale le tensioni sociali non arrivavano e, se c’erano, venivano espulse. Il suicidio di Tenco ne è la prova più dolorosa. Nel corso del tempo, con Fabio Fazio e altri, Sanremo invece è diventato specchio del Paese...
«Tutto quello che è capitato a Sanremo in questi tre anni è stato pensato e voluto. In primo luogo nella scelta della musica. Sanremo è il festival della canzone italiana. Trovavo incredibile che le canzoni del festival durassero venti giorni, per poi essere sostituite, nelle radio, dai pezzi belli, quelli nuovi. Sembrava che Sanremo fosse fatto per cantanti che dovevano fare un’apparizione per le serate nei locali. No. Sanremo deve rispecchiare la realtà discografica, unire pubblici diversi, ma raccontare la musica del proprio tempo. E poi Sanremo ha il fascio di luce televisivo più importante del nostro Paese. E noi dobbiamo far sì che quella luce vada ad illuminare delle cose che ci possano aiutare a ragionare, a suscitare dubbi e aprire discussioni. Come abbiamo fatto con Rula Jebreal il primo anno, e stavolta con Lorena Cesarini, Roberto Saviano, Drusilla Foer, Sabrina Ferilli. O Mengoni, che ha parlato degli haters sul cellulare. Sanremo non può essere impermeabile, non può diventare un mondo a sé, chiuso».
Viviamo in un tempo frammentato in cui tutti i gusti culturali, cinematografici sono individualizzati. Poi arriva Sanremo e diventa una specie di gigantesca calamita che cattura tutto: giornali, social, discussioni. L’ “evento” è una strada per tutta la televisione?
«Un qualsiasi programma televisivo funziona se diviene un evento. Ma crei l’evento quando lo apri a tutti, quando intercetti i gusti di diverse generazioni, diverse classi sociali, livelli di istruzione. Oggi Sanremo è un programma non solo per i miei genitori, ma anche per il mio figlio più piccolo. Ha tredici anni e nella sua classe tutti hanno parlato di Sanremo. Ma lo è anche per la grande, che ne ha ventiquattro. L’ottanta per cento dei ragazzi ha seguito le serate, qualcosa di incredibile e di importante, per la Rai. Sanremo è andato incontro ai giovani. Non basta dire faccio una trasmissione che può essere vista dai giovani. Devi andargli incontro, entrare con curiosità in quel mondo, nel mondo dei social, della musica, della moda e persino assecondare fenomeni dell’istante come è stato il Fantasanremo. Quello è il loro mondo e tu devi andare verso di loro, non aspettare che loro vengano da te. Tante volte uno ha paura di rendere un programma Pop. Pop è un termine bellissimo: modernità e molteplicità di linguaggi. Ma sempre con l’occhio al pubblico».
Secondo te sarebbe fattibile oggi una nuova Canzonissima?
«Sì. Titoli storici come Canzonissima, bisogna adattarli al giorno d’oggi. Si può fare, ma con cantanti forti. Se arrivano Elisa, Emma, Mahmood allora sì che fai una vera Canzonissima. Canzonissima si può immaginare, sarebbe bellissimo, ma con i numeri uno...».
Nel 2007 hai avuto un momento difficile...
«Dalla mia scelta sbagliata di andare via dalla Rai e di lasciare l’Eredità che, in quel momento, aveva un successo pazzesco».
Perché lo facesti?
«Perché in quel momento Mediaset mi faceva un contratto di tre anni, la Rai di uno solo. L’ho fatto perché andavo a guadagnare più soldi e perché pensavo, in quel momento, di essere invincibile e che il pubblico mi avrebbe seguito anche di là. Quella batosta mi è servita. Perché arrivi un punto in cui pensi che tutto sia possibile. Cioè ti senti forte e dici qual è il problema? Io ho un anno di contratto, in un’altra azienda me ne propongono tre, qui guadagno mille lire di là me ne offrono cinquemila. E vai. Mia moglie mi aveva consigliato di non andarmene dalla Rai. Con quella decisione ho preso una tranvata non indifferente».
Quanto sei stato fermo?
«Dal 2007 ho ripreso a lavorare a fine 2009 grazie a Michele Guardì. Partecipavo a Mezzogiorno in famiglia e basta. Prima di tornare a fare qualcosa con ascolti importanti sono passati cinque o sei anni».
A Sanremo fu censurata nel ‘59 Jula de Palma che cantava Tua . Invece adesso è un festival in cui si esalta la fluidità, c’è Drusilla che è stata una grandissima scelta. Torniamo al tema di prima: in questo caso Sanremo è più avanti del Paese?
«Sì. Sanremo è stato, per certi periodi, più indietro del Paese, oggi è più avanti. È il Paese che deve fare un passo avanti, in tante cose. Per me è normale che venga Drusilla Foer e dobbiamo smettere di stupirci. Anche in questo i ragazzi sono più avanti. Che ognuno scelga come amare è naturale, nel resto d’Europa sarebbe normale. Ci tengo a dire che, rispetto ai tempi in cui i funzionari censuravano Dalla, molto è cambiato in Rai. L’amministratore delegato Fuortes mi ha detto: “Hai completa libertà e autonomia, nel fare Sanremo. Di quello che decidi informi il direttore di rete, ma io ho totale fiducia in te”. E così è stato, non mi ha mai chiesto: “Chi hai invitato? Chi sono i cantanti? Le donne?” Mi rendeva tranquillo sapere che se pensavo di chiamare Drusilla Foer non dovevo comunicarlo all’azienda. Decidevo in autonomia e responsabilità».
Quando hai ascoltato le canzoni di quest’anno chi immaginavi avrebbe vinto?
«Quando ho sentito Mahmood e Blanco ho pensato che sarebbero arrivati tra i primi tre. Ascolto la musica a volume alto e mi ha colpito la forza di questo brano scritto benissimo, quasi un classico. In generale penso sempre al fatto che poi le canzoni possano o meno essere suonate alla radio. I brani quasi sempre li ascolto in macchina. A volte giro a vuoto per Roma o mi faccio apposta Roma-Milano in macchina, per sentire i pezzi che mi arrivano. Li ascolto veramente cinquanta, cento volte prima di decidere».
Ora sei stato confermato per due anni...
«Sono contento che questo sia avvenuto a marzo. Di solito si cominciava a lavorare a settembre e questo rendeva tutto più difficile. Una conferma per due anni è un premio per il lavoro fatto. La responsabilità del festival per cinque anni è un apprezzamento per quello che Fuortes ha definito un “format”. Espressione che mi ha colpito e che condivido. Il nostro è stato un festival che, partendo dalla musica - tutta la musica - poi si apriva ad altro ed era attraversato dal suo tempo storico. Spero che le prossime edizioni si svolgano senza emergenze terribili, come quelle di questi anni».
Chi sono gli ospiti che sogni?
«Io sono un appassionato della musica italiana. Per questo sarebbe bello avere al festival Mina e Adriano Celentano. E, oltre a loro, mi piacerebbe tornasse Roberto Benigni. Ma se mi chiedi un sogno, un sogno vero, te lo confesso: vedere il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul palco del festival degli italiani».
E Fiorello ci sarà?
«No, lui è stato molto generoso con me. Mi ha accompagnato e mi è stato vicino, da par suo, in questi anni. Non posso chiedergli di più. Ma non si libererà di me. Lo tartasserò per avere consigli. E lui è la persona ideale, in virtù del talento e dell’esperienza, per darmi i più giusti».
Il nostro quotidiano è stravolto. Prima dalla pandemia, ora dalla guerra di invasione di Putin. Come senti questo tempo bastardo?
«È una situazione assurda. Abbiamo vissuto la nostra vita in un mondo di pace e di speranza, almeno qui in Occidente. Siamo stati un impasto di leggerezza e forza, di sogno e di solidità. E ora invece tutto sembra precario, sospeso, fragile. Abbiamo visto riaffiorare una pandemia e le persone morire per un virus. E ora i carri armati della guerra fredda. Il mondo sembra aver messo la marcia indietro. Non pensavo che tutto questo fosse possibile. La pandemia, la guerra... Faccio fatica anche io, che lo sono per carattere e mestiere, ad essere ottimista, in questi giorni. Sembra non esserci limite alla follia, perché la guerra è sempre una follia. E questa, una guerra di aggressione, lo è più di altre. Le bombe sui bambini, le case distrutte, il dramma dei rifugiati. Questa storia rischia di mettere in ginocchio il mondo. Proprio ora, che sembrava potessimo tornare a correre...».