Corriere della Sera, 18 marzo 2022
Biografia di Laura Morante raccontata da lei stessa
A sentir lei, la sua è una vita punteggiata di fallimenti, però divertenti, e anche di qualche rimpianto. Eppure, Laura Morante ha all’attivo un centinaio di film da attrice, un David di Donatello per La Stanza del figlio di Nanni Moretti, due film da regista, un libro di racconti scritto tardivamente dopo i 60 per pudore, avendo lei il cognome della zia Elsa. E ha due ex mariti, più uno in carica e da ognuno un figlio (le due femmine, Eugenia Costantini e Agnese Claisse, sono anche loro attrici). Al momento, è una matriarca nella serie di Gabriele Muccino A casa tutti bene su Sky ed è reduce dalla tournée di I o Sarah, io Tosca, uno spettacolo fortemente voluto, scritto da lei stessa per poter girovagare in pandemia con un cast snello e per l’ossessione che l’era venuta in lockdown di capire chi fosse davvero Sarah Bernhardt, la prima diva, la più eccentrica, la persona più lontana da lei che si possa immaginare: «Era dispotica, caustica, assetata di celebrità. Leggevo le sue biografie e pensavo: la detesto».
E dunque cos’ha spinto un’antidiva come lei a voler raccontare la più esibizionista delle dive?
«La sua autobiografia è così piena di lacune e bugie clamorose che mi chiedevo: perché mente? Perché occulta? Ho letto tanto, incrociato dati e ho creduto di aver trovato filo di Arianna per capire chi era. Mi ci sono affezionata andando alla ricerca delle sue ferite e insicurezze. Non ha mai conosciuto il padre, era figlia di una cortigiana, aveva due sorelle morte giovani. Il suo motto era quand même, “nonostante tutto”, come a dire “in ogni caso, combatto”».
E lei ha avuto il suo «nonostante tutto»?
«Ognuno lo ha, ma il tema a è far tesoro dei fallimenti. Una cosa che dico sempre ai figli è: nessun fallimento, negli anni, è un fatto tragico, invece, le cose che non avete osato fare vi perseguiteranno per sempre. Le sconfitte sono anche divertenti, una vita senza sconfitte è una vita senza interesse».
Mi dica un fallimento divertente e un rimpianto.
«Finite le medie, sognavo il Liceo Classico, ma non osai affrontare l’esame di ammissione di latino. Quella mattina, mia madre mi chiede “dove vai?”. Eravamo tanti figli, otto, non è che i genitori seguissero tutto. Lei, mezz’addormentata, mi fa: declinami rosa rosae. Sbagliai e non ebbi il coraggio di dare l’esame. Invece, da ragazza, volevo fare la ballerina classica, partii per Roma e fui respinta all’accademia. Fu un dolore, ma ormai ero lì, ripiegai sulla danza contemporanea ed entrai nella compagnia dei Danzatori scalzi di Patrizia Cerroni: diventai professionista, mentre con l’accademia sarei diventata al massimo insegnante».
E grazie a Cerroni incontrò Carmelo Bene.
«Erano amici, lui mi chiese in prestito per uno spettacolo, ma quando Patrizia mi reclamò, Carmelo si rifiutò di lasciarmi andare, addirittura, mi chiuse in teatro. I bracci di ferro lo divertivano. Apposta non ci pagava. Diceva che già lavorare con lui era un onore. Io bussavo al suo camerino, sventolavo il libretto dei lavoratori e cantavo “el pueblo unido jamás será vencido”. Gli feci anche una vertenza sindacale, la vinsi e lui mi riprese l’anno dopo».
Il carattere indomito ce l’ha perché con sette fratelli o si soccombe o ci s’impone?
«Non solo era una famiglia con tanti figli, ma non abbiamo mai concluso un pranzo senza che arrivassero tre o quattro persone: in questa confusione, per avere attenzione, bisognava sgomitare e io ero patologicamente timida. Per entrare in un negozio, mi veniva il batticuore. Lasciare casa e Grosseto, da sola, a 17 anni fu una cosa gigantesca, ero chiusa, non avevo amici, forse, me ne sono andata perché sapevo che, se non l’avessi fatto presto, non l’avrei fatto più. Il primo anno fu di solitudine disperata, però, ho resistito nonostante tutto».
Che educazione aveva avuto?
«Papà e mamma erano l’opposto uno dell’altro: lui aveva senso del dovere, appassionato del lavoro di scrittore e giornalista, amante dei libri; lei aveva una scala di valori rovesciata, la lotta per la vita non la interessava, disprezzava la scuola in modo assoluto. Se si accorgeva che non ci eri andata diceva: hai fatto bene».
Come arrivarono il cinema, il debutto con Giuseppe Bertolucci in «Oggetti smarriti» e subito dopo, «La tragedia di un uomo ridicolo» del fratello Bernardo?
«Nelle pause da ballerina, facevo comparsate nei teatrini off per guadagnare. Giuseppe mi vide e volle farmi un provino. Per anni mi considerai una ballerina mezza fallita prestata al cinema. A casa nostra, poi, i personaggi mitici erano scrittori, intellettuali, non gli attori».
Da bambina, disse no al «Decameron» di Pier Paolo Pasolini, come andò?
«Avevo otto o nove anni, avevo conosciuto Pasolini con zia Elsa. Mi telefonò per chiedermi se volevo fare quel film. Risposi: devo chiedere ai miei genitori. E lui: lo sto chiedendo a te. Questa cosa non mi piacque. Decise Elsa. Diceva: è una bambina, si rovinerà».
Che rapporto ha avuto con sua zia?
«Sono stata la sua prediletta. Quando avevo undici o dodici anni mi volle a Roma con lei, poi mi rimandò indietro, perché come molti ragazzini ero sonnambula e la notte camminavo e parlavo per casa. Tempo dopo, decise di chiudere con la mia famiglia. Litigava sempre con papà, avevano discussioni di ore su cose ideologiche, gusti letterari. Tipo, a un certo punto, a lei non piaceva Kafka di cui papà era grande ammiratore. Insomma, piano piano, lei escluse quasi tutti i membri della famiglia, tranne mio fratello Daniele».
Lo zio Alberto Moravia invece?
«Da bambina, lo ricordo poco. Ci siamo ritrovati quando era critico cinematografico e io cominciavo a recitare. Gli piaceva parlare coi giovani, era curioso e di accesso più facile rispetto a Elsa. Ci siamo frequentati finché non è morto».
Nel 2018, lei ha pubblicato «Brividi immorali». Perché un libro così tardi?
«Scrivere è una cosa che non ho osato fare per molto tempo. A casa, quasi tutti hanno scritto o pubblicato e il confronto era difficile. Rimandavo, rimandavo. Poi, l’editrice Elisabetta Sgarbi ha insistito per anni. Mi sono sottratta, ma tornava sempre alla carica».
La svolta al cinema qual è stata?
«Essere entrata dall’ingresso principale mi ha evitato la gavetta lunga, ma sono rimasta povera per molto tempo… Facevo uno o due film all’anno, era nata la prima figlia. Quando già avevo fatto Bianca con Nanni Moretti, venne una giornalista a casa. L’appartamento era molto modesto, con una libreria scassata, un divano sbilenco. Mi chiese: scusi, vive così per motivi politici?».
Una volta, ha detto che due terzi dei film li ha fatti per soldi. Esagerava?
«Non molto. Quando lo dissi a John Malkovich, mi rispose: io ne salverò due o tre».
Malkovich è stato uno dei tanti stranieri che l’hanno diretta.
«Avrò girato un centinaio di film, molti mai usciti in Italia. Quello era bellissimo, Dancer Upstairs. Il produttore spagnolo non mi voleva. Malkovich lottò e lottò, poi mi scrisse una lettera: mi spiace, ma non riuscirò ad averti. Un anno dopo, mi chiama e dice: vieni subito a Madrid per un provino, forse convinciamo il produttore. La spuntò, ma fece scrivere nel suo contratto che i tre protagonisti saremmo stai io, Javier Bardem e Juan Diego Botto».
Capitano spesso opposizioni così feroci?
«Ho cominciato col cinema d’autore, chi era attento al botteghino mi detestava. Per Bianca, non ero considerata abbastanza commerciale dal produttore che disse a Nanni: prendi chiunque, ma non lei. Dico sempre alle mie figlie che questo mestiere va fatto seriamente, ma non va preso sul serio, se no, è la rovina».
Fra i tanti registi che l’hanno diretta, inclusi Monicelli, Salvatores, Placido, Avati, Virzì, Luchetti, chi le ha insegnato di più?
«Insegnano di più i cattivi film: recitare bene in un buon film è relativamente facile, viceversa è difficilissimo. Il film con l’atmosfera a me più congeniale è Cuori di Alain Resnais, era come un mondo parallelo da cui non volevo uscire».
Ha fatto tanti film comici, «Ferie d’agosto», «Turné», «L’amore è eterno finché dura», «Bob & Marys»... Ma si pensa sempre a lei come attrice drammatica, perché?
«Non lo so, forse per l’aspetto. Tanti anni fa, Monicelli mi disse: smettila di fare ruoli drammatici, tu sei attrice comica, te lo dico che io che ho scoperto Monica Vitti. Ma non ci ha creduto nessuno. Quando ho scritto ruoli io, li ho scritti umoristici, ma quando altri mi chiamano, devo fare quello che chiedono loro».
Alla protagonista del suo «Ciliegine» attribuì «l’androfobia». La paura di essere delusa dal maschio lei l’ha avuta?
«Non credo. Mi sono sposata due volte, ho un compagno da tanto tempo».
Ha tre figli, l’ultimo adottato, quanto è mamma Laura Morante?
«Parecchio. Avrei anzi voluto avere più figli. Nel primo tema alle elementari scrissi: da grande, voglio fare la ballerina e avere tanti figlioli».
Le figlie avevano remore a intraprendere la sua stessa carriera?
«Eugenia, la più grande, l’ho dovuta spingere. Temevo che lo desiderasse e non osasse, lei negava, ci ho messo anni a farglielo confessare».
Da che cosa intuiva la vocazione?
«A differenza mia, è una vera cinefila, guarda migliaia di film. Sarebbe anche un’ottima regista, ha scritto un corto splendido. Agnese è anche musicista e sono felice che entrambe abbiano più frecce nell’arco: dover essere scelti è gratificante ma può essere vagamente umiliante».
Ferzan Ozpetek inserì fra le bellezze italiane «i colori di Laura Morante». Lei che rapporto ha col tempo che passa?
«Se ogni tanto potessi fermarlo, mi farebbe anche piacere, ma non si può. Allora, penso che un tot di rughe non mi proibiscono di godermi una matriciana né una giornata di sole».