Corriere della Sera, 18 marzo 2022
Il film di Putin ha superato l’invasione
Guardo e riguardo le fotografie scattate in Ucraina durante questi infiniti 22 giorni di una guerra che sembrava talmente inconcepibile, che perfino adesso è difficile credere alla realtà di quello che sta accadendo. Ecco le strade di Kharkiv – la spazzatura, le travi, i buchi neri al posto delle finestre, i profili di edifici meravigliosi con le viscere carbonizzate. Ecco la stazione, la folla dei profughi sulla banchina che cerca di trovare posto sul treno in partenza. Ecco una donna con un cane tra le braccia, devono affrettarsi verso un rifugio a Kiev. Mariupol dopo il bombardamento, questo non lo descriverò.
La mia amica ottantenne racconta di un sogno che ha avuto una volta: una landa sconfinata, dove su letti di ferro giacciono persone, persone, persone. Sulla landa risuona un lamento. Io, dice, ho sempre saputo che bisognasse aspettarselo. Che sarebbe arrivato. I sogni sulla catastrofe appaiono spesso alle persone in quello spazio che è ormai complicato chiamare post-sovietico: io penso che molto presto avrà un altro nome o altri nomi. Di solito questa catastrofe ha a che fare con la guerra (molto somigliante alla Seconda guerra mondiale) o con l’arresto, la prigione, il lager. Sogni simili appaiono a coloro che si sono ritrovati in quella guerra, e a coloro che adesso hanno appena vent’anni e le cui notti non dovrebbero trasformarsi in uno spazio per le paure e la disperazione di ottant’anni fa. Io stessa non faccio eccezione. Negli ultimi giorni, nelle ultime notti questi sogni sono diventati realtà. Una realtà ancora più terribile di quanto ci poteva sembrare. In questa realtà, la violenza, l’aggressione, il male parlano la lingua russa. Come ha scritto qualcuno sulla rete, «sogno che ci hanno invaso i nazisti – e questi nazisti siamo noi».
La parola «nazisti» è la più ricorrente nel lessico politico dello Stato russo: sia nei discorsi di Putin sia negli editoriali della propaganda ufficiale, viene utilizzata per indicare la forza nemica che, secondo loro, si è installata in Ucraina: il nemico è talmente forte che per contrastarlo si può e si deve usare l’aggressione armata – con i bombardamenti dei quartieri abitati, con la distruzione del corpo vivo delle città e dei villaggi, del tessuto vivo dei destini degli esseri umani. Questa parola continua a suscitare paura – e nel mondo attuale c’è qualcuno a cui si potrebbe applicare. Ma la propaganda la usa come il marchio nero, che appiccica a chiunque come capita: definisci un nemico «nazista» e questo spiegherà e giustificherà qualsiasi azione intrapresa. (...)
Quanto stiamo sperimentando ora può essere definito come la distruzione dell’immaginabile. Nel corso di molti decenni l’immaginazione occidentale (nel vasto campo dei generi – dai discorsi altisonanti ai film di Hollywood e alle serie televisive) ha utilizzato l’industria della finzione alla stregua di un poligono sperimentale. Ciò di cui si doveva avere paura e bisognava evitare, era popolato da innumerevoli antiutopie, dove gli scenari di un futuro spaventoso erano abbastanza collaudati e verificati nella loro credibilità, e contemporaneamente diventavano abituali e innocui, come i film sugli alieni e gli zombie. «Si tratta solo di un’invenzione!». Il totale tracciamento con mezzi elettronici, la guerra dei forti contro i deboli, le catastrofi ecologiche avvenivano secondo il registro di un esperimento artistico: forza, immaginiamo questa sceneggiatura, tanto è chiaro che nella realtà è impossibile. Ammettere che l’intervento dell’inimmaginabile – ossia ciò che l’immaginazione collettiva esclude in quanto impossibile/inammissibile – possa succedere realmente nella vita quotidiana, in un normale mattino d’inverno, sarebbe una catastrofe che fa piazza pulita di tutte le rappresentazioni della modernità con il suo contratto sociale che si riduce alla necessità di comprensione, di empatia, di buon senso (e di un po’ di scetticismo, quando si tratta di pronostici allarmistici). Ma nel momento attuale è già successo tutto, e noi ci troviamo su un cumulo di macerie.
Questa guerra sbagliata su un territorio straniero, con i suoi crimini e le sue vittime (sono già a milioni, se parliamo non solo dei morti, ma anche di coloro che sono stati feriti, che sono rimasti senza casa, senza i parenti, senza un futuro), viene condotta dall’aggressore secondo i canoni di una creazione artistica, il cinema o un libro, dove gli avvenimenti vengono decisi da colui che li crea. Solo che si tratta di un libro che viene scritto da un pessimo autore – pessimo in entrambi i sensi – perché solo una persona cattiva oltre che uno scrittore da strapazzo può infischiarsene del tutto dei suoi eroi. Gli è indifferente se vivranno o moriranno, per lui non è importante quello che vogliono o di cosa hanno bisogno, e non è assolutamente disposto a riconoscere loro alcuna libertà. L’unica cosa che lo preoccupa sono il diritto d’autore, l’affermazione della sua volontà personale e la possibilità di controllo sul testo e sugli avvenimenti. È esattamente di questo – l’affermazione della sua volontà personale, il tentativo di riscrivere la storia dell’Ucraina e dell’Europa, di cambiare il nostro presente e di predeterminare il futuro – che si sta occupando Vladimir Putin. Egli sta tentando di trascinare l’Ucraina, la Russia, l’Europa, il mondo (e tutti coloro che scorrono incessantemente l’elenco dei notiziari) in questa narrazione orrenda che lui stesso ha scritto. Fa assegnamento sul fatto che in questo libro noi esisteremo, vuole essere il nostro autore, il nostro sceneggiatore, colui che sa come cambiare la nostra vita al meglio. Come ci riesca, lo sappiamo bene.
Possiamo affermare che tale è la vera essenza di una qualsiasi dittatura e la logica di un qualsiasi dittatore: l’affermazione di un solipsismo personale, lo sguardo su un mondo vivo e abitato come fosse una natura morta, su piatti inermi disposti sulla tavola, che non grideranno se verranno rotti. Mi sembra però che qui si tratti di un caso particolare: dietro il movimento dei reparti militari russi c’è il terrore reale dinanzi all’esistenza dell’Altro e la brama sfrenata di schiacciare sotto di sé questo Altro, di trasformarlo, assimilarlo, attribuirselo, fagocitarlo, divorarlo. Una cosa del genere è descritta da Clive S. Lewis nelle Lettere di Berlicche: i demòni si nutrono del dolore dell’umanità e della sua disperazione, e il loro amore per i legami di sangue si riduce al desiderio di mangiarsi il fratello o il nipote. Quando sento i ragionamenti dei politici russi sul popolo fratello ucraino, a cui semplicemente bisognerebbe insegnare a mettere la testa a posto, avverto un inconfondibile odore di zolfo.
La guerra in Ucraina è condotta da Putin con la furia e la determinazione di un uomo che deve regolare i suoi conti personali con questo Paese ed è pronto a tutto pur di vincere – ma non nel modo in cui si vince nel mondo della deterrenza nucleare, dei negoziati, degli accordi e dei compromessi, bensì come se l’unica cosa importante fosse un qualche copione amorevolmente pensato a titolo di risarcimento. Secondo lui l’Ucraina deve essere umiliata, privata di tutti gli attributi di indipendenza e di autonomia, a partire dal parlamento eletto legalmente (la cosiddetta denazificazione), passando attraverso l’esercito (il Paese deve diventare una zona demilitarizzata), fino ad arrivare alle pretese sui territori perduti (la rinuncia della Crimea e del Donbass). Ma non è ancora tutto. Prima ancora di un qualsiasi processo di negoziato, l’Ucraina dovrebbe passare attraverso un castigo rituale – inginocchiarsi pubblicamente e rumorosamente davanti agli schermi— dopo avere dimostrato ai suoi cittadini e a tutti coloro che osservano, che cosa succede a chi non ubbidisce. La ferocia con cui viene condotta questa guerra sembra inspiegabile, se non si avesse in mente questo obiettivo – potremmo chiamarlo di tipo educativo: se l’Europa è la nostra casa, allora Putin vuole dimostrare chi ne è il padrone. Le città rase al suolo e le vite spezzate sono come un manuale illustrato di cui ci si dovrà ricordare per lungo tempo. Ma in questo caso c’è ancora un significato ulteriore, che io ritengo molto importante.
Quello che sta avvenendo ora, si svolge già in maniera irreversibile in uno spazio simbolico così come su campi reali e nei rifugi. L’Ucraina è oggi l’arena di una lotta tra il bene e il male, per quanto magniloquente possa suonare: dal suo esito dipende il destino di tutti e di ognuno, e non solo dell’Ucraina e della Russia. Quello del male è un concetto antico: i decenni del dopoguerra ci hanno insegnato a metterci di riflesso al posto dell’avversario, alla ricerca della comprensione, del compromesso, del dialogo. Ma a volte non c’è con chi parlare: al posto dell’interlocutore si erge una fitta tenebra che vuole farsi valere a qualunque costo. Ora si decide in quale mondo vivremo – e, in un certo senso, noi già viviamo e agiamo all’interno della fossa nera di una coscienza altrui, dove ci hanno ficcati a forza. Essa rievoca dal passato concetti arcaici sui «popoli», sul fatto che ne esistano di migliori e di pessimi, che si trovano più in alto o più in basso secondo una graduatoria di una grandiosità difficile da definire, sul fatto che tutti gli ucraini (ebrei, russi, americani, e l’elenco può continuare) sono fatti così (deboli, avidi, servili, ostili) – e queste figure di cartone già passeggiano all’interno dell’immaginazione collettiva, proprio come alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Come si dice in Russia, «i morti afferrano i vivi»: qui si tratta di idee e concetti morti che, come in un film horror, si nutrono di nuovo sangue e sono pronti ad uccidere.
In ogni mente
c’è una battaglia
per l’autonomia
di giudizio
Anche questa
è resistenza
(...) Prima di tutto, uno degli obiettivi dell’«operazione militare» è di riportare indietro le lancette dell’orologio a otto anni fa, ricondurre l’Ucraina a quello stato iniziale che il Cremlino avrebbe voluto mantenere per l’eternità. Già si affrettano a tirare fuori dal baule uno Janukovic leggermente ammuffito, preparandosi a rimetterlo sulla poltrona presidenziale, come se fosse stato sempre così – e Maidan e otto anni di democrazia elettiva ci sono solo sembrati, erano solo un sogno. La guerra del ventunesimo secolo cerca di imitare quella del ventesimo, di tornare ai tempi delle morti all’ingrosso e dei mostruosi esperimenti storici. Oggi si combina con l’ultima moda della dipendenza dalle «immagini» – ma sugli schermi scorre un vecchiume mortifero e abissale. Contrapporsi ad essa significa anche liberarsi dalla dittatura dell’immaginazione altrui, dalla rappresentazione di un mondo che si impone dall’esterno e che, volente o nolente, si impadronisce dei nostri sogni, dei nostri giorni, dei nostri notiziari. Quella in corso in Ucraina è una battaglia per la sopravvivenza; la lotta per l’autonomia del proprio giudizio personale si svolge in ogni casa, in ogni mente. Qui, come anche lì, è necessaria la resistenza.
Ho fatto gli auguri di compleanno a un mio amico, ho scritto – come scrivevo di solito – «urrà». Mi sono bloccata. É una brutta parola.
«È tutto un bruciare e un andare in fumo», mi dicevano quando ero sotto pressione per il lavoro, quando fai mille cose alla volta e non riesci a concludere niente. Ora non è più possibile. Tutto brucia e va in fumo, ma non qui.
Avevo un mio proverbio ottimista, «il soldato non offenderà un bambino»: è quando non bisogna agitarsi, perché tutto andrà bene, si sistemerà. Ora non l’ho più, perché sulle testate vietate in Russia, attraverso VPN si può leggere dei soldati e dei bambini.
Io scrivo questo testo in russo e ogni frase mi riesce con grande difficoltà. La lingua, il suo vivo margine colloquiale, è la cosa che cambia per prima. È come una terra disseminata di vecchie mine che all’improvviso iniziano a esplodere quando attraversi il campo. E si sono tutte risvegliate. La lingua non ha colpa, come non ha colpa la terra. Ma è già molto diversa, tutta piena di buchi e di lacune, e ce ne saranno sempre di più.
(Traduzione di Daniela Liberti)