il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2022
Biografia di Rosa Luxemburg raccontata da Hannah Arendt
Anticipiamo stralci della biografia “Rosa Luxemburg” di Hannah Arendt (1966), da oggi in libreria con Mimesis e la curatela di Rosalia Peluso.
Ogni movimento della Nuova Sinistra, quando è giunto il momento di trasformarsi in Vecchia Sinistra – di solito quando i suoi membri hanno raggiunto i quarant’anni – ha seppellito prontamente il primo entusiasmo per Rosa Luxemburg insieme ai sogni di gioventù; e dato che di solito non ci si è preoccupati di leggere, e tanto meno di capire, quanto lei aveva da dire, si è trovato facile liquidarla con tutto il filisteismo condiscendente del loro status appena acquisito.
Il “luxemburghismo”, invenzione postuma degli scribacchini del partito per motivi polemici, non ha mai ottenuto nemmeno l’onore di essere denunciato come “tradimento”; è stato trattato come una malattia innocua e infantile.
Nulla di ciò che Rosa Luxemburg ha scritto o detto è sopravvissuto, a eccezione della sua critica, sorprendentemente accurata, della politica bolscevica durante le prime fasi della Rivoluzione russa: questo solo perché coloro secondo i quali “dio aveva fallito” potevano usarla come un’arma conveniente, sebbene del tutto inadeguata, contro Stalin. (“C’è qualcosa di indecente nell’uso del nome e degli scritti di Rosa come una specie di missile da guerra fredda” ha sottolineato il recensore del libro di Peter Nettl, che firmò una prima biografia sulla Luxemburg, ndr). I suoi nuovi ammiratori non avevano più cose in comune con lei dei suoi detrattori. Il suo senso, altamente sviluppato, per le differenze teoriche, il suo infallibile giudizio sulle persone, le sue personali propensioni e idiosincrasie, le avrebbero impedito di confondere Lenin e Stalin in qualsiasi circostanza, a prescindere dal fatto che non è mai stata una “credente”, non ha mai usato la politica come un sostituto della religione ed è stata attenta, come nota Nettl, a non attaccare la religione anche quando si è opposta alla Chiesa. In breve, la circostanza che “la rivoluzione fosse vicina e reale, per lei come per Lenin” non costituì mai un suo articolo di fede, a differenza del marxismo. Lenin era per essenza un uomo d’azione e sarebbe entrato in politica in ogni caso, mentre lei, che, nella sua semiseria autovalutazione, si considerava nata “per badare alle oche”, avrebbe potuto benissimo immergersi nello studio della botanica o della zoologia, della storia, dell’economia o della matematica, se le contingenze del mondo non avessero offeso il suo senso di giustizia e libertà.
Ciò comporta naturalmente riconoscere che lei non sia stata una marxista ortodossa, talmente poco ortodossa da far dubitare che sia stata un’autentica marxista. Nettl afferma giustamente che per lei Marx non era altro se non “il miglior interprete della realtà con cui tutti loro avevano a che fare”, ed è rivelatore della sua mancanza di coinvolgimento personale il fatto che abbia potuto scrivere: “Provo ora orrore per il tanto decantato primo volume del Capitale di Marx a causa dei suoi elaborati ornamenti rococò à la Hegel”. Ciò che veramente contava per lei, perfino più della rivoluzione stessa, era la realtà, in tutti i suoi aspetti meravigliosi e terribili. La sua non-ortodossia era innocente, non polemica; “raccomandava volentieri agli amici di leggere Marx per la freschezza del suo stile e l’ardimento dei suoi pensieri, e perché non dava nulla per scontato. Gli errori che aveva commesso nell’analisi politica erano evidenti e inevitabili; per questo non si preoccupò mai di scrivere una critica di ampio respiro”.
Tutto ciò risulta meglio espresso nell’Accumulazione del capitale, che solo Franz Mehring ha avuto la spregiudicatezza di definire un “risultato veramente magnifico, affascinante, impareggiabile dalla morte di Marx in poi”. La tesi centrale di questa “curiosa opera di genio” è abbastanza semplice. Dal momento che il capitalismo non mostrava alcun segno di cedimento “sotto il peso delle sue contraddizioni economiche”, lei cominciò a cercare una causa esterna per spiegarne la continua esistenza e crescita. La trovò nella cosiddetta “teoria del terzo fattore”, cioè nel fatto che il processo di crescita non era semplicemente la conseguenza di leggi innate che governano la produzione capitalistica, ma della continua esistenza di settori pre-capitalistici in Paesi che il “capitalismo” aveva catturato e portato nella sua sfera di influenza… Lenin si accorse subito che questa analisi, indipendentemente dai suoi pregi o difetti, era essenzialmente non marxista.
C’è un altro aspetto della personalità di Rosa che Nettl evidenzia, ma di cui non sembra cogliere tutte le implicazioni: il suo essere “coscientemente donna”. Questo dato poneva da sé diversi limiti a qualsiasi sua ambizione. Significativa, ad esempio, la sua idiosincrasia per il movimento di emancipazione femminile, che attraeva irresistibilmente tutte le altre donne della sua generazione e di stesse convinzioni politiche; all’uguaglianza reclamata dalle suffragette, sarebbe stata tentata di rispondere: Vive la petite différence. Era una outsider, non soltanto perché era e rimase un’ebrea polacca in un Paese che non le piaceva e in un partito che presto avrebbe disprezzato, ma anche perché era una donna… Rosa Luxemburg non è vissuta abbastanza a lungo per vedere quanto avesse ragione e per osservare il terribile, e terribilmente rapido, decadimento morale dei partiti comunisti, prodotti diretti della Rivoluzione russa, in tutto il mondo.