il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2022
Il giorno in cui Gandhi fu processato: era accusato di sovversione, a causa di tre articoli pubblicati sul suo settimanale Young India
Un secolo fa, nel marzo del 1922, il Mahatma Gandhi venne arrestato: era accusato di sovversione, a causa di tre articoli pubblicati sul suo settimanale Young India.
Nel primo aveva scritto: “L’impero inglese, sorto sullo sfruttamento sistematico delle razze fisicamente più deboli della terra e su uno spiegamento di forza bruta, non può durare, se esiste un Dio giusto che regge l’universo”. Nel terzo articolo proclamava apertamente: “Vogliamo rovesciare il governo, obbligarlo a sottomettersi alla volontà del popolo”.
Gandhi fu processato il 18 marzo. Di fronte al giudice si dichiarò “contadino e tessitore”, colpevole di aver istigato alla “non-collaborazione” verso il governo britannico e di averne fomentato la disaffezione, perché “il governo dell’India britannica, fondato sulla legge, opera per realizzare lo sfruttamento delle masse. (…) Non ho alcun dubbio che l’Inghilterra dovrà rispondere, se c’è un Dio lassù, di questo crimine contro l’umanità. (…) Io mi sto sforzando di dimostrare ai miei connazionali che la non-cooperazione violenta non fa che moltiplicare il male, e che come il male può sostenersi solo grazie alla violenza, così il rifiuto di sostenere il male richiede una completa astensione dalla violenza”. Perciò egli chiese al giudice il massimo della pena prevista per il delitto, oppure – qualora fosse d’accordo con lui – di dimettersi dalla carica.
Al magistrato non fu difficile dimostrare che gli avvenimenti sanguinosi dei mesi precedenti a Chauri Chaura e Bombay chiamavano in causa la responsabilità dell’imputato. Perciò lo condannò a sei anni di carcere. Tuttavia, aggiungeva di vedere in Gandhi “un uomo di ideali elevati e dalla nobile vita, dichiarandosi spiacente che un uomo siffatto avesse reso impossibile per il governo lasciarlo in libertà”. Fu l’ultimo processo di Gandhi. Dopo il 1922, fu arrestato molte altre volte, ma non seguì mai un processo. Questo fu “il grande processo”.
Gandhi aveva attuato nel novembre del 1921 la sua prima campagna per l’indipendenza, che chiamava, con un termine innovativo, la “forza della verità”, satyagraha, sinonimo della “resistenza nonviolenta”. La campagna era stata indetta sulla base di tre riforme sociali: l’unità tra indù e musulmani, l’abolizione della casta degli “intoccabili”, l’utilizzo delle materie prime locali, con la promozione del khadi, cioè l’invito ad ampio raggio a indossare abiti realizzati con tela di cotone tessuta a mano personalmente da ogni singolo individuo, per boicottare gli abiti inglesi.
Scriveva nel gennaio 1922: “Mi auguro di poter persuadere tutti che la disobbedienza civile è un diritto inalienabile di ogni cittadino. Rinunciare ad esso significa cessare di essere uomini. La disobbedienza civile non conduce mai all’anarchia. (…) Devono essere prese tutte le misure possibili per evitare qualsiasi manifestazione di violenza”. Il 1° febbraio Gandhi indisse la disobbedienza civile, ma solo nel distretto di Bardoli, nella sua provincia. L’esito positivo gli avrebbe dato la possibilità di estenderla all’intera India.
Al viceré fu intimato di ripristinare “le libertà di parola, di associazione e stampa (…) e rilasciare le persone innocenti che erano state incarcerate”, altrimenti sarebbe iniziata la disobbedienza civile. Accettare l’ingiunzione per il viceré era impossibile, poiché sembrava una resa del governo. Il rifiuto diede inizio alle proteste.
Una fu particolarmente drammatica, con 22 morti. Il 5 febbraio, a Chauri Chaura, una manifestazione si svolse ordinatamente, passando davanti alla stazione di polizia. Un gruppo di ritardatari, che raggiungeva il corteo, fu insultato dai poliziotti: ne nacque una rissa, tanto che questi spararono alcuni colpi e, terminate le poche pallottole, si rifugiarono in caserma. Per la rabbia, i manifestanti vi appiccarono fuoco. I pochi poliziotti che uscirono furono trucidati e risospinti nell’incendio, dove morirono. Appena informato dell’accaduto, Gandhi convocò il Congresso, cioè il Partito nazionalista indiano, e annullò la disobbedienza civile: a se stesso impose cinque giorni di digiuno per espiare la violenza dell’eccidio. Quando in tutta l’India fu criticato aspramente per l’annullamento della campagna, rispose: “Dio ha parlato chiaramente attraverso Chauri Chaura”. “Non possiamo accedere al regno della libertà per mezzo di un mero omaggio verbale alla verità e alla non-violenza”.
La condanna avrebbe potuto segnare la fine della lotta che Gandhi aveva sostenuto fino a quel momento per la liberazione dell’India. Ebbe invece un’altra conseguenza: rafforzò il valore della sua persona e la sua fama agli occhi degli indiani.
Vi furono altri risultati. L’arresto significò il suo riconoscimento, da parte del governo britannico, come leader principale del movimento nazionale per l’indipendenza, e il Congresso diventava un’organizzazione dagli ampi confini geografici e sociali. Concretamente, la sorpresa per l’arresto e la pubblica notizia della condanna aumentarono gli iscritti al partito e i fondi per sostenere la causa.