La Stampa, 17 marzo 2022
Sul nuovo libro di Guia Soncini "L’economia del sé"
«Parlano a tutte le ore, da tutti i canali, su qualsiasi argomento. Parlano spigliati e balbettanti, aggressivi e blandi, spudorati e capziosi, didattici e gioviali. Parlano con le gambe accavallate, le mani a farfalla, le labbra tremanti, la pipa in bocca, le palpebre calate, le ginocchia unite, le dita torte. Ma come e perché parlino ha poca importanza: c’è sempre qualche eccellente motivazione».
Quando Fruttero&Lucentini scrissero La prevalenza del cretino era il 1985, i social network non esistevano, di talk show ce n’erano pochissimi, eppure questa frase - come altre - sembra «scritta domani». Cosa viene prima? La rete, Instagram, Tik Tok, Facebook, o i nostri esibizionismi? È davvero tutta colpa dell’estrema riproducibilità di quello che facciamo, pensiamo, vediamo, quest’ossessione di dire al mondo di noi, della nostra vita, dei nostri figli e dei nostri pensieri, o è questo che siamo sempre stati? Svelati da chi, come Ettore Scola, era capace di mostrare i mostri che ci portiamo dentro. In una delle scene più belle de La Terrazza - un altro dei capolavori citati da Guia Soncini in L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi, in uscita oggi per Marsilio - Vittorio Gassman si produce in un’invettiva. Questa: «E soprattutto non se ne può più del dolente erudito, il quale - si capisce - eh, ce le ha solo lui le idee giuste, eh, però, poverino, eh, lui, egli è afflitto, è impedito da mille meccanismi ostili, perché altrimenti, eh, altrimenti figuriamoci, chissà come metterebbe tutte le cose a posto, egli, lui, questo inesorabile, e - fatemelo dire perché sennò schiatto - questo implacabile stronzo».
Alzi la mano chi per un attimo non si è sentito su Twitter. Dove un popolo di allenatori, intervistatori, generali, virologi, presidenti del Consiglio, spiega che potesse pensarci lui, allora sì la guerra finirebbe, e la pandemia non ne parliamo, e come gliele avrebbe cantate lui a quel politico, o al Papa, pure al Papa, nessuno mai. Siamo tutti Iacovoni, il Sergio Castellitto di Caterina va in città in uno dei capolavori di Paolo Virzì, quando spiega intervenendo al Maurizio Costanzo Show che le case editrici neanche leggono il suo libro e il sistema è marcio e se non fai parte della conventicola non sei nessuno (e poi non vuole mollare il microfono). Siamo tutti Manuel Fantoni, anche. Solo che per le foto coi famosi non ci è servito un ristorante a Trastevere: bastano le code per avere un selfie, qualche decina di euro per una dedica vip a pagamento su una piattaforma, e sai quante bionde da impressionare lì fuori. Siamo noi che forse saremmo migliori, se quel meraviglioso cialtrone di Bruno Cortona, il protagonista de Il sorpasso, lo avesse interpretato Alberto Sordi: «Sordi in piedi in cima al dirupo nel quale ha fatto finire la macchina facendo morire il povero Jean-Louis Trintignant, mite studente di legge, Alberto Sordi l’avresti odiato - scrive Soncini - non avresti sopportato fosse sopravvissuto, avresti chiesto indietro i soldi del biglietto. A Gassman perdoni tutto, perché fa di Bruno Cortona quel che era lui: il più gran seduttore di tutti i tempi, il più magnifico bugiardo, il più aggraziato cafone. Gassman in cabriolet sull’Aurelia è un buona-la-prima da postare su Instagram, è una fotogenia naturale come non se ne vedranno più fino all’avvento di Barack Obama, è l’illusione che a essere noi stessi - indebitati, sfaccendati, ritardatari, bugiardi - possiamo essere irresistibili. Con Alberto Sordi non sarebbe mai successo». Del resto, Gassman è anche colui che consegna a Enzo Biagi la più bella definizione di narcisismo: «Mi accorgo innanzi tutto di me, non posso farci nulla». E quindi magari è davvero colpa sua, di quello e di altri film del cinema italiano meglio scritto di sempre, se la prevalenza del narciso si è presa tutto fino a invadere ogni spazio: dalla vita privata all’arte, dallo spettacolo alla politica. L’esercizio è retorico, perché il fenomeno va ben oltre l’Italia: è talmente ovunque, che perfino alcune immagini di propaganda di guerra, alcuni video, sembrano creati pensando a quanto saranno instagrammabili, quindi forti, quindi - soprattutto - virali.
Questo catalogo di Economia del sé, o dell’attenzione - uno dei concetti più interessanti del libro, e anche questo un certo Michael Goldhaber lo aveva scoperto nel 1997 - parla "di noi di noi": fa il verso agli intellettuali che sponsorizzano libri come prosciutti fingendosi interessati al tema del giorno in tv, più simili a Sophia Loren nella pubblicità in cui esortava: «Accattatavill’», il prosciutto, che a nuovi Umberto Eco (che pure di modernità qualcosa sapeva). Siamo noi che pensiamo a postare il piatto, il tramonto, il viaggio, la Tour Eiffel, perché se non lo facciamo, siamo ancora in grado di credere di esserci stati davvero? Siamo noi che, a differenza dei Beatles, non scriviamo nella notte canzoni stupende perché se non lo fossero - non potendole registrare subito - non le ricorderemmo. Nella notte, piuttosto, ci svegliamo per confidare alle note vocali del telefonino idee geniali arrivate all’improvviso con l’ansia di perderle (idee che il giorno dopo sono da buttare. Almeno così confessa l’autrice). Siamo noi che ci mettiamo in vendita senza neanche aver capito di essere merce, a differenza di chi questa vendita a pezzi di sé e della sua vita l’ha fatta diventare industria, patrimonio, ricchezza talmente piena da non aver praticamente bisogno di comprare più niente. Lo aveva capito presto la Spice Girl Geri Halliwell che davanti all’ennesimo pacco dono negli anni del boom urlò: «Dov’era Estée Lauder quando non potevo permettermela!».
Il problema è che ora, a vendere pezzi di sé perché noi possiamo immedesimarci, quindi capirli, infine votarli, sono anche i politici. Che passano - per dirla con Filippo Ceccarelli - dall’etica del bene comune all’estetica del consenso. Mentre scrivo, il portavoce di Vladimir Putin ha precisato, riguardo alla salute del presidente russo, che per seguire la guerra ha orari disordinati, dorme poco, insomma capitelo fa una vita d’inferno, ci sta che non sembri tanto in sé. Ricorda i video dei primi 5 stelle, o di Matteo Salvini ministro dell’Interno, quando ripetevano ossessivamente che stavano lavorando dalla mattina presto o fino a notte fonda per il bene del Paese, senza sosta. Quasi veniva voglia di dire loro: «Per carità, prima la salute».
E quindi no, l’ostentazione del proprio privato non è più appannaggio solo del centrodestra di berlusconiana memoria almeno da quando Piero Fassino andò a C’è posta per te da Maria De Filippi, seppur con l’aria di chi non avesse idea di dove fosse. Con la differenza che con il Salvini dei tempi d’oro sui social l’identificazione scatta più facilmente: i piatti consumati a cena sono terribili, i primi piani presi male, le camicie stropicciate, i pensierini semplici semplici (l’ultimo in ordine di tempo, «le bombe fanno male sempre»: uguale a una miss Italia in finale). Il politico di sinistra, invece, cerca il distacco, l’autoironia, se si fa vedere in costume pronto a tuffarsi in un laghetto con cigno lo fa prendendosi in giro. E qui Soncini - che rischia di essere querelata da Calenda per averlo definito «di sinistra», ma questa è un’altra storia - ricorda appunto Eco e l’atteggiamento «di chi ami una donna, molto colta, e sappia che non può dirle "Ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: "Come direbbe Liala, ti amo disperatamente"».
Il tutto avviene, non bisogna mai scordarlo, per quel che oggi è considerato valere più del denaro: i like, i cuoricini, i mi piace, le squadre social. Che si possono monetizzare, come insegnano gli Stati Uniti dove editorialisti famosi lasciano il New York Times per aprire un blog e vendere abbonamenti. Qui, però, continuiamo a pensarla come il critico d’arte del New York Magazine che l’affare da centinaia di migliaia di dollari l’ha rifiutato: «Il mio solo lavoro è scrivere, per i lettori. Non voglio una platea preselezionata di paganti cui già piaccio. Voglio arrivare agli estranei; venire amato e odiato dagli estranei; parlare d’arte a chiunque dovunque comunque. Essere dove mi trova gente che non ha idea di chi io sia o non aveva mai pensato all’arte fino a un attimo prima». La bolla, insomma, è sopravvalutata. E può scoppiarci nelle mani. —