La Stampa, 17 marzo 2022
Archeoplastica. Il museo dei rifiuti spiaggiati
Quando Enzo Suma ha raccolto sulla spiaggia una piccolissima bomba a mano di plastica color verde militare, istintivamente l’ha portata al naso per annusarla: «Negli anni ’80 era una di quelle sorprese che profumava di patatine. E per un bambino è un profumo di felicità». Benvenuti nella terra dei ricordi restituiti dal mare, dove raccogliere i rifiuti non è solo un atto sociale ma diventa un viaggio emozionale nella nostra storia recente. Una storia fatta di soldatini, palloni dei mondiali del ’90, Barbie spogliate, Goldrake e puffi blu, fatta di spray abbronzanti da 270 lire, flaconi di Coccolino, vasetti di Yomo e adesivi colorati in regalo con il formaggino. Una storia fatta di plastica.
Enzo Suma, classe ’81, ha studiato Scienze Ambientali a Venezia, per poi tornare nella sua Ostuni, dove lavora come guida naturalistica. Le figurine panciute del formaggino sono ancora appiccicate nella cucina di sua mamma. Da anni si dedica alle spedizioni per ripulire le spiagge: «Raccoglievo e buttavo, raccoglievo e buttavo. Poi un giorno sono stato catturato da una spuma solare che riportava ancora il prezzo in lire. Ho fatto una ricerca e ho scoperto che era in vendita tra la fine anni ’60 e inizio ’70: possibile che non mi fossi mai reso conto di aver buttato via rifiuti così vecchi?». Che sulle spiagge si ritrovino plastiche così «antiche» cattura tantissimo anche i bambini delle scuole in cui Suma fa educazione ambientale con la sua valigia di reperti: «Quello è più vecchio dei miei genitori!». Eh sì, a volte anche dei loro nonni. Una data di inizio c’è: il 1958, quando il polipropilene isotattico, commercializzato con il marchio Moplen, viene scoperto da Giulio Natta. E la plastica entra nel consumo di massa.
Dai primi «esemplari» raccolti e postati sui social nel 2018, l’attività di Suma si è evoluta in un progetto che ha preso forma un anno fa e si chiama Archeoplastica, museo per ora virtuale (ma che ha già trovato vita fisica in un paio di mostre, come quella in corsa al teatro Margherita di Bari) con un suo sito web e che su Instagram conta oltre 40 mila follower. Il progetto di Enzo è allestire una mostra itinerante da portare in tutta Italia in cui lo stupore di ritrovarsi davanti ai propri ricordi diventi il grimaldello per parlare di ambiente.
I pezzi catalogati a oggi sono oltre 500, schedati dopo un lavoro di ricerca che non sempre dà i frutti sperati. Se si è fortunati c’è una data, come la scadenza a novembre ’83 su un sacchetto di patatine, o sui giocattoli anni ’70 e ’80; altre volte è il prezzo in lire che suggerisce il periodo. Altre volte gli indizi scarseggiano e allora benedetto internet, dove si ritrovano pubblicità d’epoca, e benedetti collezionisti, perché questi oggetti hanno anche un mercato; ma anche benedetti social, da cui partono gli appelli sottoforma di stories: «Qualcuno lo riconosce?»; a volte funziona, il giallo si dipana, come nel caso di un flacone di detersivo dalla curiosa e inedita forma gomitolosa: non si riusciva a identificarlo perché era stato prodotto in Grecia.
Pulire le spiagge è atto meritevole ma non certo il pomeriggio al mare che tutti sognano: al contrario, diventare piccoli Sherlock ha qualcosa di entusiasmante e infatti i contributi arrivano da un po’ tutta Italia. Non che sia facile riconoscere quali oggetti salvare, a Suma ci sono voluti anni: «Bisogna saper guardare. Spesso gli oggetti che sembrano più nuovi sono quelli più vecchi, perché oggi si mettono le etichette, che col tempo si staccano e diventano cibo per pesci o microplastiche; in passato si stampava con la tecnica della tampografia, che è come una specie di tatuaggio, i colori restano più a lungo. Se c’è un codice a barre vuol dire che l’oggetto risale almeno alla metà degli anni 80; se scritte e loghi sui flaconi sono in rilievo è facile che si tratti di oggetti più vecchi; l’esposizione al sole sbiadisce i colori, mentre la permanenza in acqua crea delle concrezioni, un velo sottile di deposito calcareo oppure si formano piccoli crostacei come lepidi o balani». Gli stessi che si formano sulle tartarughe marine che sono state troppo tempo alla deriva, molte delle quali si spiaggiano: Enzo raccoglie anche loro («quest’anno sono state tantissime»), va a recuperarle in quelle giornate fredde di vento e pioggia quando nessuno va a fare una passeggiata sulla spiaggia: e quindi nessuno si accorge di loro, ed è l’assenza umana che le condanna. Enzo, l’uomo che toglie le plastiche al mare, gli restituisce le tartarughe che riesce a salvare: il mare si tenga ciò che è suo e noi quel che è nostro.