La Stampa, 17 marzo 2022
Il funerale del soldato, a Leopoli
Si chiamava Eduard Niezhyniec, aveva 32 anni, era un soldato. «Edik era il mio migliore amico, avevamo fatto insieme l’accademia nazionale Hetman Petro Sahaidachnyi. Lui era diventato ufficiale, io no. Così ero finito sotto il suo comando. Ne ero orgoglioso. Ogni volta che c’era una difficoltà, Edik ti diceva che le cose si sarebbero aggiustate. Sapeva come fare. Ti dava molta fiducia. Perdo la persona migliore del mondo, penso a sua moglie Julia e alla figlia Milana di 5 anni».
Davanti alla chiesa dei santi Peter e Paul Garrison, nel centro di Leopoli, il primo ad arrivare è un ragazzo con un mazzo di fiori gialli. Si chiama Tomash, anche lui è un soldato. Ma è in congedo perché è stato ferito il 24 febbraio vicino a Volnovakha. Ha una mano fasciata, e nell’altra quei fiori per Eduard Niezhyniec: «Eravamo tutti e due nella base di Yavoriv sabato notte, quando i russi hanno sparato i missili. Ma è una base molto grande. Io mi trovavo a 15 chilometri di distanza, sono corso là e lui era già morto. La cosa assurda adesso è questa. Era Edik quello che ci aiutava a superare i tempi difficili. Edik era davvero buono».
Mentre Tomash cammina avanti e indietro con le lacrime negli occhi, dal fronte orientale arriva un altro vecchio amico. È il paracadutista Kyrylo Zagoruiski. «Ho saputo quello che è successo dalla moglie Julia. Mi ha telefonato domenica e ha detto così: «Edik se n’è andato». Le ho chiesto: «Ti hanno fatto vedere il corpo? Lo hai identificato? Hai parlato con qualcuno che era lì, sei proprio sicura che sia lui?». Mi ha risposto che non poteva raggiungerlo per due giorni, perché loro sono di Kherson. È impossibile fare quella strada senza la scorta dell’esercito. Le ho detto di aspettare. Di non fare il funerale senza prima vedere il corpo, per nessuna ragione. È la stessa cosa che ripeto sempre a mia moglie: «Se ti dicono che sono morto, non seppellirmi fino a quando non hai visto la mia faccia con gli occhi chiusi dentro a una bara. Siamo soldati, alle volte sbagliano».
Il corpo dell’ufficiale Eduard Niezhyniec è stato riconosciuto dalla moglie Julia Niezhyniec tre giorni dopo il bombardamento. Ora è dentro una bara di legno lucido marrone con le maniglie dorate. La sorreggono quattro soldati semplici di 18 e 19 anni. Il prete Volodymyr Adachuk canta sotto le navate altissime, recita l’Ave Maria e poi dice: «Ringrazio i genitori di Eduard Niezhyniec per aver cresciuto un eroe».
Ogni mattina alle 11 in questa chiesa si celebra il funerale di un militare dell’esercito ucraino. Quello seppellito lunedì si chiamava Oleg Yaschchyshyn, era un colonnello. Ultimogenito di una famiglia che aveva già perso un altro militare, un altro figlio, in un combattimento. Anche Oleg Yaschchyshyn è morto sotto gli stessi missili sparati sulla base di Yavoriv, il «Centro internazionale per il peacekeeping e la sicurezza» così si chiama, a 25 chilometri dal confine d’Europa. Sono trentacinque le vittime del bombardamento. Il lato sinistro della chiesa è tappezzato di foto di soldati morti. Sono morti di adesso, e sono morti del 2014. Sono tutti i morti che in questi anni nessuno ha voluto vedere.
Adesso è il giorno Eduard Niezhyniec. L’amico paracadutista racconta di quando si erano conosciuti: «Per Edik era un periodo economicamente difficile. Era già un ufficiale, ma di notte andava a lavorare come capo della sicurezza in un supermercato per mantenere la sua famiglia. Sono stato io ad aiutarlo a trovare quell’impiego. Lavorava sempre. Vivevamo insieme nel mio appartamento in affitto. Siamo diventati amici nel giro di un giorno. Gli ho raccontato tutto di me, di quando da piccolo con la mia famiglia ci siamo trasferiti dall’estremo oriente a Kahrkiv. Subito uno zio mi aveva fatto questa domanda: "Cosa differenzia un russo da un ucraino?". All’epoca parlavo ancora russo, e quindi in russo avevo risposto che non lo sapevo. Non ho mai dimenticato la replica di mio zio: "La cosa più importante per un ucraino è essere libero, per un russo avere un buono zar". Ero un ragazzino, allora. Adesso capisco bene quello che intendeva. Quando sono cresciuto, ho iniziato a guardare film sui paracadutisti, volevo andare anche io nel cielo. Sono diventato un paracadutista ucraino. Ho fatto 702 lanci. Di questo, e di tante altre storie, parlavamo io e il mio amico Edik».
La chiesa è mezza vuota. Ma sulla stessa sedia, ogni giorno, c’è la signora Luba Lutchhyn, un’insegnante di musica in pensione. Piange per ogni soldato che non ha mai conosciuto. «Ho vissuto a lungo negli Stati Uniti, ho il passaporto americano, potrei andarmene dall’Ucraina ma non lo farei mai. Questo è il momento di stare accanto ai nostri ragazzi. Io recito ogni giorno la stessa preghiera. Dico così: "Ti prego Europa, chiudi questo cielo alle bombe. Chiudi il cielo alla morte. Stanno ammazzando i nostri soldati, i nostri figli, i nostri bambini"».
Sollevano la bara. La portano verso l’uscita. È preceduta dal picchetto con la bandiera dell’Ucraina. Fuori è una mattina fredda e grigia. Sul selciato ci sono quattro telecamere accese. Il piccolo corteo funebre avanza e si vede in quel momento che anche un altro soldato è ferito, zoppica e porta un macchinario al collo per tenere immobilizzato il braccio destro. Si chiama Roman, ha 27 anni. Si è salvato per pura fortuna. Cioè per essersi trovato un po’ più lontano nel bombardamento. «Dio non voglia che qualcuno di voi affronti il dolore che sto attraversando in questo momento. Eduard era un uomo con la "U" maiuscola. Mi ha supportato in ogni situazione, giorno e notte. Cosa voglio dire al mondo adesso? È semplicemente necessario chiudere il cielo sopra l’Ucraina. Noi militari stiamo morendo, ma è il nostro lavoro. Però stanno morendo anche i civili, le donne, gli anziani, i bambini». Un giornalista gli domanda quale sia il suo stato d’animo, e lui risponde: «Noi soldati non abbiamo il diritto di mostrare la nostra debolezza. Può essere difficile per noi, ma sarà impossibile per i civili accorgersene».
Il corpo del soldato Eduard Niezhyniec viene caricato su un furgone alle 11,40. Era già stato a combattere nel Donbass, è morto a 25 chilometri dall’Unione Europea. L’amico Thomas lascia sulla bara quel mazzo di fiori gialli, e qualcuno chiude il portellone. Adesso vanno a seppellirlo al cimitero di Leopoli, lontano da casa. Lontano da tutti.