Corriere della Sera, 17 marzo 2022
Isabella Ragonese ha imparato a usare il manganello
Ha dovuto imparare a usare il manganello, Isabella Ragonese. Per interpretare Sonia, agente penitenziario protagonista della nuova serie di Sky Il Re (da domani su Sky Atlantic e in streaming su Now), l’attrice ha dovuto calarsi in un mondo che fino a questo momento aveva frequentato poco, quello della violenza. Della cattiveria, anche. «Eppure è quello che forse ho più amato – spiega lei —. Era una grande occasione: troppo spesso nel raccontare i personaggi femminili si cade nella retorica, nel santino. Invece no, non siamo tutte perfette e necessariamente migliori degli uomini, esistono le sfumature».
Il suo è un personaggio che si muove in un mondo prepotentemente maschile.
«Per questo lei si trova sempre a dover ribadire non solo la sua identità ma anche la sua autorevolezza, perfino con la violenza. È quello che la rende così dura, cupa. Mi interessava lavorare sulle sue dinamiche, è la prima volta che interpreto un personaggio così “notturno”, combattuto. Pieno di tormenti e turbamenti anche di fronte alle scelte che deve prendere».
Tutte in bilico tra bene e male, dove bene e male però sono più che mai confusi.
«La serie si basa sulla riscrittura di questi due concetti. Nel microcosmo del carcere diretto da Bruno (Luca Zingaretti, ndr.) quello che fuori sembra male dentro diventa bene. Anche questo aspetto mi ha messo alla prova e di certo una figura come quella di Sonia mi mancava. È come una pentola a pressione, che si sente costantemente monitorata, giudicata e che poi dà sfogo alla rabbia. Cercare di comprendere le sue motivazioni è una delle cose che mi fa ri-innamorare del mio mestiere».
Un mestiere in cui, tornando al maschilismo, troppo spesso i ruoli femminili sono secondari. A lei è mai capitato di sentire di dover faticare di più per imporsi?
«Credo sia una cosa abbastanza comune a tutte, a prescindere dall’ambito in cui si lavora. Devi dimostrare il triplo se sei donna, oppure dissimulare di fronte allo stupore di chi ti dice cose tipo: “Ah ma quindi sai anche tu questa cosa? Dunque leggi? Ti informi?”. I cambiamenti sono lentissimi ma, per fortuna, posso dire di avvertirli».
Possono passare anche dallo spettacolo questi cambiamenti?
«In piccola parte sì, proprio scegliendo ruoli non bidimensionali. In generale però continua a esserci un problema di rappresentanza, in ogni sfera: siamo tantissime ma pochissimo rappresentate e questo si avverte. Sento poi molti che si lavano la coscienza con frasi tipo: “Eh, ma voi siete troppo più avanti rispetto a noi...”. Credo sia un modo per restare fermi alla retorica. Un po’ come quando mi chiedono come sia lavorare con una regista donna. Non mi hanno mai chiesto come è lavorare con un regista uomo».
«Il Re» affronta poi la dimensione del carcere.
«Io sono anche nata in prossimità di un carcere, per questo mi è capitato spesso di pensare a quella dimensione, a quel microcosmo in cui ci sono delle regole proprie. La continuità di luogo nella serie poi, rimanda molto al teatro, che è da dove arrivo. Così come la ritualità della vita lì dentro: ogni giorno è come fosse una replica».
Shakesperiano è anche il rapporto del suo personaggio con quello di Zingaretti, una sorta di padre che però viene messo in discussione.
«Di certo hanno un rapporto molto stretto. Per lei è un padre perché incarna chi decide come vanno le cose, ma se da una parte vuole dimostrargli di essere brava e capace, dall’altra si pone dei temi, lo mette in discussione, quasi come a voler cambiare l’ordine costituito. Ed è l’unica a farlo. Detto questo, nonostante l’ambiente oppressivo, i miei ricordi sul set sono tutti davvero felici. Eravamo un gruppo grande e unito: faceva impressione ridere fino a un minuto prima e poi ritrovarsi nel dramma, dopo il ciak».
Con Zingaretti avevate già lavorato in «Montalbano».
«Uno scenario completamente diverso, in effetti. Però, anche se lui arrossisce quando glielo dico, è sempre bello passare del tempo con lui, è una persona che arricchisce».
Come è stato interpretare scene in cui picchia pesantemente?
«Beh, venivo dal film Yara dove ero già stata messa alla prova con il pugilato. Certo, qui ho proprio imparato a menare. Lavorare con tutto il corpo è stato bellissimo, le scene erano molto coreografiche. Però, certo, vedere che con un colpo atterravo omoni grandi e grossi faceva un certo effetto. Posso dire che ho imparato a difendermi».