il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2022
La guerra tra chiacchiere da bar, gaffes dell’informazione e brutture linguistiche
Come tutti, oscillo. La guerra non mi è mai sembrata così vicina, e al tempo stesso così surreale. Quando ero giovane e studiavo, mi sono sempre immaginato i dibattiti interventisti/non interventisti come una faccenda alta, magari non colta, ma insomma, di un certo spessore e vigore. Forse non era così, e certo non è così oggi: la maggior parte delle analisi non mi sembra all’altezza del momento e dei rischi. Alla lunga non ascolti più, ed è una fortuna.
Ogni tanto ascolti, a tuo rischio, esponendoti a un hellzapoppin’ quotidiano. Ammirevole la copertina di Di Più che ci dice che Putin “da bambino era un teppista”, decisivo contributo all’analisi geopolitica sull’aggressione, ma vabbè, fa pure un po’ ridere. Metteteci l’uso indiscriminatissimo di bambini, anche in posa (la Lolita di Kiev è a oggi l’esempio più famoso, solidarietà alla ragazzina) e alcune retoriche un po’ risibili, Liala (avercene!) e petto in fuori. Troppo pop per essere vere, troppo caricaturali, al limite dell’autolesionismo semantico, dove il ridicolo sommerge il messaggio. Non accade solo da noi: vedere Macron, l’uomo più incravattato del mondo, indossare una felpa da parà strappa il sorriso: c’è una salvinizzazione del pianeta, non credo potrebbe andare peggio.
Di nostro specifico, pare notarsi un uso disinvolto della Storia, diciamo così teneramente spannometrico, che viene da pensare all’esame all’università: “Ma guardi che io un 18 non posso darglielo, perché non torna il mese prossimo? Ha qualche guaio in famiglia?”. Perdoniamo per pietà l’uso del termine “sovietico” che ormai è usato come sinonimo di russo. Un Putin talmente “sovietico”, tra l’altro, che ha dichiarato una guerra parlando male per mezz’ora di Lenin (cosa che quando lui lavorava nel Kgb l’avrebbe portato dritto in Siberia). Ci dice il Tg1 che “nel 1905 a Odessa il popolo ucraino si ribellò ai bolscevichi”, con tanto di fotogrammi di ĖEjzenštejn. È come Napoleone che vince a Waterloo. Irresistibile, viene in mente il John Belushi di Animal House, genio premonitore, e la sua grandiosa battuta: “Siamo forse stati con le mani in mano quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbour?”.
La neolingua di Orwell vive il suo grande momento, il mezzo miliardo di euro (in aumento) che l’Ue spenderà per armare l’Ucraina viene da un Fondo europeo che si chiama “Fondo per la pace”, European Peace Facility. Così è un po’ troppo, anche come neolingua, e anche come metafora; mi chiedo: costava troppo cambiare la carta intestata?
Non arriva fino a qui la propaganda russa, questo è male, perché sarà ridicola tanto quanto, risibile nei ragionamenti binari, minacciosa e stupida. E anche lei molto esperta di neolingua, dato che proibisce alla stampa di pronunciare e scrivere la parola “guerra”, proprio mentre cominciano a tornare a casa i corpi di ragazzini di leva morti in guerra. Vertigine.
Alla fine, con il combinato disposto di titolazione choc, piccole furbizie ideologiche, aperti schieramenti, brandelli sparsi di porno-war, chiacchiere da bar e paralleli storici campati per aria, la guerra si sfuoca, là in fondo. Un po’ intrattenimento, un po’ indignazione, un po’ abitudine, un po’ bolletta del gas. La guerra vera, quella che ammazza i corpi, svapora, diventa una paura vera e una visione vaga dietro una cortina densa fatta di bugie, paura e qualche compassione. C’è un verso di Gregory Corso che lo dice molto bene: “La pietà si appoggia al suo bombardamento preferito/ e perdona la bomba”. Come al solito, sono meglio i poeti.