Corriere della Sera, 16 marzo 2022
Jo Nesbø e la guerra russa
La narrativa diffusa da Vladimir Putin, che la Russia si è vista costretta a invadere l’Ucraina per liberare il suo popolo oppresso da «una gang di drogati e neonazisti» è stata ben accolta, quantomeno in Russia. Al contempo, Putin ha messo a tacere qualunque voce che potrebbe azzardarsi a raccontare una storia diversa. La narrativa: è forse questo il vero campo di battaglia? E quale ruolo può ricoprire la finzione quando la verità è già stata sconfitta?
La serie tv
Nel 2015, è andata in onda alla televisione norvegese la prima stagione di Occupied. La serie racconta l’occupazione russa della Norvegia, con la più o meno tacita approvazione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, per riavviare la produzione petrolifera che era stata fermata da un governo norvegese guidato dai Verdi. Mentre elaboravo il concetto della fiction, il mio scopo principale era quello di mettere in luce il dilemma e le scelte morali che la gente normale si vede costretta ad affrontare in una situazione estrema, tracciando un parallelo consapevole con le vicissitudini dei nostri nonni e genitori, quando si ritrovarono ostaggio dell’occupazione tedesca della Norvegia dal 1940 al 1945. Sullo sfondo si profilava un complesso retroscena fatto di manovre ingaggiate tra una piccola nazione, un vicino minaccioso e ingombrante, e le principali potenze mondiali, in un delicato gioco d’equilibrio tra principi politici, considerazioni economiche e questioni di sicurezza. Pensavo che fosse ovvio che nel mondo fittizio di Occupied non ci fosse spazio per emettere un giudizio sulla Russia, proprio come Stephen Spielberg non aveva nulla da dire sui grandi squali bianchi nel suo Jaws. Eppure, le autorità russe non l’hanno presa molto bene. Vyacheslav Pavlovsky, l’ambasciatore in Norvegia, dichiarò all’agenzia di stampa russa Tass «è disdicevole che proprio quest’anno, in cui celebriamo il settantesimo anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale, gli autori della serie televisiva abbiano dimenticato l’eroico contributo dell’armata sovietica nella liberazione della Norvegia del nord dagli invasori nazisti, e abbiano deciso, nella peggiore tradizione da guerra fredda, di spaventare il pubblico norvegese agitando una fantomatica minaccia proveniente dall’Est». Potrebbe darsi che l’ambasciatore fosse un tantino permaloso, perché la Russia, l’anno prima, aveva occupato la Crimea — molto tempo dopo la creazione e la produzione della serie Occupied — scegliendo di rivestire il ruolo del grande antagonista sulla scena politica internazionale. Ma come spiegare la reazione furibonda della Russia, quando si trattava chiaramente di una fiction, nella quale, oltretutto, i russi non erano affatto raffigurati come un branco indistinto di «cattivi» robotizzati?
I fatti e le storie
Forse la risposta è la seguente: in un’era in cui la verità è stata svalutata da propaganda e disinformazione, in cui i leader più potenti vengono eletti sull’onda dell’emotività, anziché in base ai loro meriti o posizioni politiche, i fatti non hanno più lo stesso peso che in passato. I fatti hanno dovuto lasciare il posto a storie capaci di sollecitare le nostre emozioni, storie su di noi e su ciò che ci definisce come collettività, nazione, cultura, religione. Forse non è da ricercare nella carenza di armamenti e di potenza militare la causa del fallimento delle guerre di occupazione in Vietnam e in Afghanistan, forse è stata la mancanza di storie in grado di «conquistare i cuori e la mente della popolazione». Più precisamente: forse è andata così perché gli avversari hanno saputo diffondere storie migliori.
Quando si scrive sulla guerra russa in corso, tra le citazioni più frequenti trovo quella del senatore americano Hiram Johnson, passato alla storia per aver dichiarato nel 1917 che «la prima vittima della guerra è la verità». Il suo commento viene utilizzato, tra l’altro, per ricordare ai giornalisti e agli editori quanto è vulnerabile la verità basata sui fatti, allorché i due avversari lottano per far prevalere la loro versione degli eventi. Ma è anche un monito su quanto sia ingenuo credere che un giornalista, per quanto animato dai sacrosanti principi di integrità e autonomia, possa separare il suo reportage dalla propria cultura, nazionalità e dalla visione del mondo che gli è stata trasmessa, specie in tempo di guerra.
Le bombe su Guernica
Nel 1937, quando il generale fascista Franco bombardò la cittadina di Guernica, massacrando la popolazione civile, gli abitanti vollero testimoniare su quanto era accaduto. Non appena cominciarono a emergere le immagini e le storie della distruzione, Franco e i suoi generali capirono quali emozioni avrebbero suscitato sia in Spagna che all’estero, e si ostinarono a sostenere che erano stati i cittadini repubblicani della stessa località a radere al suolo Guernica. Questa versione dei fatti fu creduta a lungo, perlomeno dai tanti che avevano interesse a crederci. Ma i repubblicani avevano un narratore migliore dalla loro parte. Pablo Picasso rispose con uno dei suoi dipinti più famosi, appunto Guernica, che raffigurava l’inferno scatenato nella cittadina basca. Quell’opera, dipinta da un pittore che viveva a Parigi, raffigurazione non oggettiva e prodotto dell’immaginazione e dell’esperienza dell’artista, bastò ad aprire gli occhi all’Europa. Venne presentata al pubblico a Parigi quello stesso anno, e successivamente fu esposta in tutto il continente, contribuendo a incoraggiare il reclutamento delle milizie volontarie che affluirono in Spagna per combattere a fianco dei repubblicani.
Il ruolo del cinema
Tanner Mirrlees, dell’Ontario Tech university, autore di «Hearts and mines: the U.S. empire’s culture industry », descrive il modo in cui l’Ufficio per le informazioni di guerra degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale aveva creato un settore destinato a lavorare esclusivamente con Hollywood, l’Ufficio del cinema. Tra il 1942 e il 1945, l’Ufficio esaminò 1.652 sceneggiature, modificando o cancellando qualunque scena che potesse gettare una cattiva luce sugli Stati Uniti, compreso il materiale in cui gli americani apparivano «ignari della guerra o contrari alla guerra». Secondo Mirrlees, fu Elmer Davis, capo dell’Ufficio per le informazioni di guerra, a dichiarare che «il modo più semplice per insinuare la propaganda nella mente della gente è farla passare attraverso un film d’intrattenimento, perché in quel modo il pubblico non si renderà conto di essere condizionato». I film erano, e restano, il veicolo ideale per plasmare l’opinione pubblica, afferma Mirrlees rivolgendosi alla Canadian Broadcasting Corporation, perché la visione di un film offre un’esperienza galvanizzante e condivisa. Nel corso della guerra fredda, Hollywood diffuse gli ideali militari americani, e continua a farlo ancora oggi. Ma oggi è il mondo intero a ritrovarsi seduto nello stesso cinema, a guardare lo svolgimento della guerra in Ucraina. Eppure quelle che vediamo, metaforicamente parlando, sono versioni doppiate, con i sottotitoli che scorrono nelle nostre diverse lingue, e questo significa che non stiamo assistendo tutti alla stessa storia. C’è una guerra in corso anche tra le diverse versioni della storia, e la migliore si aggiudicherà la vittoria. Oppure, come ha scritto il giornalista norvegese Mode Steinkjier in Dagsavisen, «la guerra non si limita alla distruzione di questo o quell’obiettivo militare o civile; la guerra si combatte anche portando dalla propria parte i cuori e le menti di quel pubblico globale che non è direttamente coinvolto nel conflitto».
La censura
La questione, pertanto, ruota attorno alle misure che siamo disposti ad adottare per conquistare quei cuori e quelle menti, specie nella situazione attuale, in cui un dittatore come Vladimir Putin segue le proprie regole del gioco, ricorrendo a un genere di censura e di propaganda che pensavamo di aver relegato nel più lontano e fosco passato. È opportuno — o moralmente corretto — partecipare anche noi al gioco, seguendo il manuale di Putin? Dopo tutto, un paese democratico che abbandoni i principi della democrazia come la libertà di parola e la trasparenza, anche se allo scopo di proteggere provvisoriamente quelle stesse libertà, costituisce una palese contraddizione. Diceva Winston Churchill: «In guerra, la verità è talmente preziosa che dovrebbe essere sempre accompagnata da una bella scorta di menzogne». Il pessimista potrebbe aggiungere che in guerra le menzogne sono talmente preziose che occorre proteggerle con nuove menzogne, ma il problema è che spuntano sempre nuove guerre e nuovi conflitti da qualche parte, che si prestano come pretesto per dichiarare lo stato di emergenza. Ma se, come me, siete piuttosto ottimisti, possiamo sperare che la verità — quella verità imperfetta e soggettiva del giornalista, dell’artista o di qualche narratore che voglia esprimere qualcosa di vero — avrà il sopravvento. Abraham Lincoln aveva ragione quando diceva «non si possono ingannare tutti i cittadini, in tutte le occasioni». Non mancano gli esempi, dopo tutto, come l’Urss, che implose dall’interno, o come Trump, estromesso dalla Casa Bianca.
La nuova generazione
Davanti a un doloroso groviglio di versioni diverse della realtà, non dobbiamo rassegnarci ad accettare che ogni versione sia altrettanto vera che le altre. Alcune sono più vere delle altre. Ross Burley, del Centre for Information Resilience di Londra, un’organizzazione indipendente che promuove il reportage oggettivo e combatte la disinformazione e la propaganda in ogni dove, dice che la narrativa putiniana sul motivo della guerra in Ucraina sta conquistando terreno tra la maggior parte della popolazione russa che non ha accesso ai social o alle fonti di informazione straniere. Peraltro, è meglio non essere così ingenui da pensare che maggiori aperture online potrebbero invertire la tendenza a sfavore di Putin, che da oltre vent’anni gode di grande sostegno tra la popolazione. Ross Burley però segnala anche che la nuova generazione in Russia fa largo uso del Vpn e di altre scappatoie tecnologiche per accedere a opinioni diverse su quanto sta accadendo. Il loro numero sarà forse ancora esiguo, ma sono giovani pieni di risorse che a loro volta diventeranno giornalisti, scrittori e artisti, e si serviranno delle storie come armi. Giorno dopo giorno, seguiamo gli sviluppi militari, le sanzioni, i passi della diplomazia, ma la guerra della narrativa è lunga. Una guerra che Putin è destinato a perdere, malgrado la sua nutrita scorta di menzogne. La vera incognita resta «quando». Franco restò al comando in Spagna per quasi quarant’anni, ricorrendo alla censura a tutto campo come principale arma difensiva. Ma alla fine fu sconfitto dalla storia e il popolo spagnolo ha smantellato il suo retaggio ideologico. Guernica fu esposta in Spagna per la prima volta nel 1981, sei anni dopo la morte di Franco, e nei primi dodici mesi fu ammirata da oltre un milione di persone. Ancora oggi è una delle principali attrazioni della galleria Reina Sofia a Madrid. Perché rispetto a quelle oggettive, le storie più vere restano sempre le migliori.
(Traduzione di Rita Baldasssarre)