Corriere della Sera, 16 marzo 2022
La vendetta del fondatore russo di Telegram
La vendetta corre su Telegram. Di Pavel Durov sappiamo che ha inventato il social diventato necessario in questa guerra, veste di nero come Neo di Matrix, che è geniale, molto ricco e altrettanto bizzarro. E soprattutto, sappiamo che odia Vladimir Putin. Non potrebbe essere altrimenti. È l’uomo che gli ha portato via tutto, obbligandolo ad abbandonare la Russia ricominciando da capo a 35 anni.
Durov lo ha fatto. Oggi è un cittadino francese e dell’isola caraibica di Saint Kitts e Nevis, abita a Dubai e guida Telegram, lo strumento senza il quale questa guerra non potrebbe essere raccontata. Lo usano i russi che vogliono avere informazioni veritiere, lo usano i giornalisti sul campo e in redazione. Lo usa ogni giorno Volodymyr Zelensky, che il giorno dopo l’attacco ha utilizzato il suo canale Telegram per lanciare un appello alla resistenza dei suoi compatrioti ucraini. Nel 2012 era un nerd felice e miliardario. Sei anni prima aveva fondato VKontakte, una specie di Facebook alla russa, che ancora oggi è il social network più diffuso nel suo ormai ex Paese. Andava tutto bene. Dal suo grattacielo nel centro di Mosca, si divertiva a lanciare banconote da mille rubli, causando tumulti in strada. Aveva anche offerto un impiego a Edward Snowden, l’ex tecnico della Cia che rivelò diversi piani segreti dell’intelligence Usa. La sua caduta cominciò proprio quell’anno, con il rifiuto opposto alla richiesta proveniente dai dintorni del Cremlino di chiudere i gruppi che usavano il suo social per organizzare le marce di protesta. A Mosca e a Kiev. Le autorità gli chiesero allora di condividere i dati degli utenti di alcuni di quei gruppi. Un altro no. Sono cose che prima o poi nella Russia di oggi si pagano. Il conto gli venne presentato due anni dopo. Quasi in concomitanza con la guerra del Donbass e l’annessione della Crimea, VKontakte fu oggetto di una scalata ostile guidata dall’oligarca Alisher Usmanov, grande alleato di Putin. A dicembre Sogaz, la compagnia di assicurazioni costola di Gazprom, prese il controllo della società. A Durov non restò che vendere tutto e fuggire all’estero. «Ho perso la mia azienda e la mia patria, ma rifarei tutto allo stesso modo, senza alcuna esitazione» ha detto di recente.
Telegram nasce nel 2013, con il crisma e l’ossessione per la sicurezza che derivano dalle precedenti disavventure. La sua peculiarità è l’esistenza di canali pubblici o privati che possono essere gestiti da aziende o singole persone, e che possono essere seguiti da un numero di persone pressoché illimitato. Non c’è pubblicità. A differenza degli altri social, non esiste l’algoritmo, è una potenza guidata da trenta persone appena. La sua fama di porto sicuro da qualunque intrusione gli ha regalato accostamenti poco edificanti, come quello di essere il social più amato dai gruppi terroristi di tutto il mondo. E qui comincia il retrogusto amaro del successo di Durov, che non è certo un attivista dei diritti civili e neppure un pericoloso cospiratore, ma un cyber-libertario convinto che la libertà possa arrivare solo dalla tecnologia. Due settimane fa aveva scritto di pensare a una chiusura temporanea di Telegram per gli utenti di Russia e Ucraina: «Sta crescendo il rischio che diventi uno strumento per diffondere notizie false o non verificate, e può essere usato anche per incitare all’odio etnico». Ma proprio la Russia ha cominciato a inondare Telegram con canali di disinformazione, che se non altro per quantità hanno il compito di oscurare quelli dei media indipendenti. In qualche modo, Putin sta contribuendo così al successo di Durov. Avvelenando le acque del suo social. E della sua vendetta.