la Repubblica, 16 marzo 2022
Cronache della marcia su Roma
Se ne vanno cantando, esaltati dall’impresa, passandosi di mano in mano la vecchia insegna del Lavoro che sollevano come un trofeo di guerra davanti ai passanti silenziosi della domenica sera, nel centro di Genova. È la targa del giornale dei portuali, nato nel 1903 da un’alleanza tra Leghe operaie, cooperative e Società di mutuo soccorso, un pezzo di storia della città. Prima i fascisti avevano condannato pubblicamente il Lavoro nel raduno di piazza per gli articoli sui fatti di Fiume, ma soprattutto per il suo continuo invito alla città a resistere alla violenza, senza ritorsioni, con la forza della ragione. La folla si eccitava alle accuse degli oratori, Giovanni Pala e Mario Codebò, qualcuno cominciò alle cinque di sera a raccogliere copie del giornale, tra urla e insulti, e a bruciarle circondato dagli applausi. Ma tutto era già deciso, quel 5 marzo 1922. E infatti adesso si incolonnano per via Roma, con i loro gridi di battaglia, e giunti all’altezza di via San Sebastiano la imboccano di corsa, arrivano davanti alla redazione, guardata a vista da due guardie regie che non provano nemmeno a resistere. Gli squadristi sfondano la porta, urlano “basta”, “schifo”, “venduti”, rompono i vetri, rovesciano i tavoli, imbrattano i muri, frantumano il quadro elettrico. Un gruppo, all’esterno, sta svitando la targa del giornale. La portano via, simbolo della libera stampa trasformata in bersaglio, ridotta in cenere nei falò del fascismo, mentre si allontanano intonando Giovinezza tra le famiglie che rientrano a casa, e che si scansano.
Poche ore prima, e naturalmente di notte, era arrivato sugli schermi Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau a radunare le angosce del tempo negli 84 minuti spaventosi di un film muto, con la peste nera che contamina la terra, le forze oscure che vegliano perché nessuno sfugga al suo destino tra maledizioni e morti viventi, cimiteri e processioni dietro una bara, e l’inquietudine in bianco e nero del gallo che canta. Ma mentre tutti parlano del vampiro, marzo è piuttosto il mese dei fantasmi. Mussolini da tre anni sembra addirittura perseguitato dall’immagine eroica e dall’apparizione oracolare di Gabriele D’Annunzio, continuamente evocata dai fascisti che seguono il Duce nell’avventura politica ma riservano al Vate la dimensione mistica: per gli squadristi è l’unico che può trasfigurare l’ipotesi rivoluzionaria in una missione sacra per il riscatto della nazione. Il Capo del fascismo avverte continuamente questa presenza ideale, incombente e immateriale insieme, che senza bisogno di agire pesa sul fascismo. Da quando si è ritirato a Gardone, dopo che Giolitti ha sgombrato i legionari da Fiume nel Natale 1920, gli squadristi si rassicurano l’un l’altro raccontandosi che «lassù, accanto al lago alpino, vigila attento il Comandante, e sorveglia il destino della Patria». In realtà è Mussolini che sorveglia lui e vigila sulle sue mosse, succube e diffidente di un primato non contendibile perché costruito nell’immaginario, consapevole dello scarto tra la propria figura carismatica e la raffigurazione mitologica del Poeta circonfusa di leggenda. È il lascito dell’impresa fiumana nella rincorsa continua del fascismo all’epopea, in una prova generale dell’anti- Stato. Un modello esemplare per il fascismo affamato di rituali, in cerca di una sceneggiatura per la violenza che sprigiona. Ma non tutto è così semplice. Al momento di dirigersi a Fiume, l’11 settembre 1919 D’Annunzio aveva scritto a Mussolini: «Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Ancora una volta lo spirito domerà la carne miserabile». Ma poi, nei momenti di difficoltà del Vate, i due si allontanano: «Mio caro Mussolini, mi stupisco di voi, io ho rischiato tutto e voi tremate di paura», scrive il Comandante al Duce. «Svegliatevi. E vergognatevi anche. E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in faccia». Il Vate flirta con il sindacalismo rivoluzionario, vede nel fascismo uno “schiavismo agrario” che respinge, ordina ai suoi di rimanere «immuni da ogni mescolanza o contagio». Ma sente il richiamo combattentistico, ribelle, vitalistico che lo squadrismo esercita sui legionari in disarmo, e il 28 marzo 1921 manda due ambasciatori dal Duce per invitarlo a Gardone. Ufficialmente l’incontro «getta le basi per gli accordi della futura lotta nazionale», in realtà Mussolini sposa a parole il programma di Fiume e tanto basta a D’Annunzio per revocare ogni diffidenza nei confronti del Fascio. Ma il Duc e, destato alle cinque del mattino nel suo letto (vegliato da due arcangeli di pietra) dai colpi di cannone della nave “Puglia”, approdata nel giardino del Vittoriale, resta ancora sospettoso dell’influenza del Comandante sugli squadristi. La fronda che si era manifestata contro il patto di pacificazione d’altra parte mirava esplicitamente a scalzare Mussolini e a dirottare il fascismo verso il Poeta. E ancora adesso, nel marzo ’22, mentre un colpo di mano militare delle camicie nere rovescia a cannonate il governo provvisorio di Fiume, uno dei ribelli, il veneziano Pietro Marsich, parla di D’Annunzio come dell’«Unico Grande Italiano che domina l’Italia straziata dalle cime del suo spirito, mentre c’è tra noi chi pensa che il fascismo possa dominarla nei fastigi del potere», per «l’infausta egemonia di un uomo». E conclude con un telegramma indirizzato a Gardone: «Noi passiamo, comandante D’Annunzio, agli ordini vostri».
Questo attacco diretto, unito all’invocazione salvifica del Comandante, fa rientrare precipitosamente Mussolini dal suo viaggio in Germania. Teme l’innesco di una concorrenza rivoluzionaria che potrebbe trovare una sponda a sinistra addirittura nella Cgl, visti gli incontri del Vate con i dirigenti sindacali Baldesi e D’Aragona, con scambio di doni «al lume della sacra lampa», come scrivono grati i sindacalisti socialisti contagiati dalla retorica dannunziana. Mussolini da mesi va dicendo che il Poeta è un uomo di genio ma per momenti eccezionali, quindi inadatto alla pratica quotidiana della politica. Adesso avverte il partito che «tutte le forze della plutocrazia antinazionale» stanno investendo su di lui come «futuro giustiziere del fascismo»: dunque «da qui in avanti di D’Annunzio ricorderemo solo le luminose manifestazioni spirituali».
Nient’altro. Ma il sospetto mussoliniano rimane comunque, fino alla fine. Si scioglierà solo con la morte di D’Annunzio nel ’38, quando il Duce ormai dittatore dopo aver sostato a Gardone davanti alla salma si vedrà presentare dal medico di casa una lama affilata su un cuscino di velluto, secondo le disposizioni del testamento. In segno di amicizia il Poeta chiedeva che Mussolini gli tagliasse un orecchio, per ricevere così in dono «la parte più pura e più bella» del corpo sacro del Vate. L’onore carnale non verrà accettato – troppo vivo, come se il Poeta fosse in perpetuo ascolto – e nessun pegno legherà più Il Duce e il Comandante, due Capi per un solo popolo.
Silenziosamente, in mezzo al frastuono italiano del caos, come se volesse passare senza essere visto sotto l’asticella della storia, l’avvocato Luigi Facta si alza in piedi al banco del presidente del Consiglio e chiede la fiducia della Camera con un discorso sottotono, dimesso, quasi cercasse un ingresso di servizio nelle stanze del governo. Tutti lo guardano, anche se nessuno adesso può immaginare che una vacanza della provvidenza ha messo proprio lui al posto sbagliato nel momento cruciale, al crocevia tra lo Stato liberale in estinzione e la dittatura autoritaria che si sta preparando a nascere. «L’Italia dei reduci dalla trincea, degli arditi, dei fascisti – lo sbeffeggia nel suo diario Italo Balbo – dev’essere governata dai baffi di Facta? Quei baffi del nuovo presidente, pescato non so come nel mazzo, sono divertenti, mettono di buonumore i fascisti, che li disegnano sui tavoli dei caffè. Massenzio legava un vivo a un cadavere. Noi dovremmo fare la stessa fine. Ma i poliziotti di Facta non riusciranno a legarci alle mummie dei vecchi partiti. I baffi dell’uomo di Pinerolo ci fanno ridere: nient’altro». Infatti Mussolini non prova nemmeno a chiedere posti da ministro perché capisce che un progetto politico radicale, estremo e totalizzante come il fascismo non può confluire in una soluzione compromissoria, minimale e transitoria. Il suo voto favorevole a Facta sembra dunque gratuito: ma in realtà il Duce col nuovo governo ha appena incassato la prova che la coalizione antifascista non può formarsi, l’alleanza tra democratici, popolari e socialisti non riesce a nascere, il tentativo di isolare il Fascio in parlamento non decolla.
Se avesse potuto inventarsi un presidente del Consiglio adatto a rappresentare questo disfarsi del modello democratico, Mussolini stesso non avrebbe saputo scegliere meglio. Anche se il quadro va completato, perché se Facta viene avanti, nel marzo 1922, ciò è possibile solo perché altri più forti di lui si sono tirati indietro nel veto reciproco: uomini esperti ma incapaci di leggere il pericolo che è ormai davanti alle porte arrugginite del Paese. Vale per i giolittiani, incapaci di andare oltre la partita personale del vecchio leader. Vale per i socialisti, rimasti nudi, senza più articolazioni sociali, nel loro territorio bruciato e spogliato. Vale in misura minore per i popolari, che Mussolini sceglie come nuovo nemico per il loro no alla collaborazione col fascismo, attaccando in particolare don Sturzo: «Questo piccolo, mediocre prete siciliano comincia a scocciare in modo inquietante la coscienza della nazione. Costui rappresenta un pericolo enorme per la religione e per il cattolicesimo. Se continuerà ad imperversare assisteremo in Italia a un legittimo scoppio di anticlericalismo così travolgente che quello di ieri, a base di barzellette e vignette, apparirà un ridicolo gioco di fanciulli». La Chiesa non allineata finisce subito nel mirino: a Volta Mantovana un gruppo di fascisti tenta di penetrare nella canonica per rapire il parroco disobbediente e coraggioso, don Cesare Ferrari, e i preti della zona, riuniti nella sede della giunta diocesana, scrivono direttamente al Capo del governo per denunciare «la persecuzione religiosa contro sacerdoti integerrimi schiaffeggiati, brutalmente percossi, costretti a lasciare i loro domicili o a vivere sotto l’incubo continuo di vessazioni e gravissime sopraffazioni.
Facta davanti alla Camera si impegna a riportare l’ordine nel Paese, «la prima condizione, la più necessaria». Ma basta scorrere sulla Gazzetta Ufficiale del Regno i decreti di scioglimento dei Comuni per capire che lo squadrismo raggiunge i suoi obiettivi mentre lo Stato, disarticolato nel suo primo fondamentale anello – i municipi – alza bandiera bianca, pagando il prezzo di connivenze, complicità, vergognose cecità delle polizie. La Gazzetta numero 74, ad esempio, enumera come lapidi i Comuni caduti uno dietro l’altro per le minacce fasciste e le incursioni armate: saltano i sindaci di Petrella Tifernina, Orsogna, Fano, Cerreto Guidi, Riolo dei Bagni, Grosseto, Borgonovo, Briona, Pray, Mezzana Rabattone, Naro, Fontanafredda. A Scandiano il sindaco socialista viene aggredito in piazza, a Campi Bisenzio gli squadristi provano a entrare in casa del sindaco poi ripiegano sull’abitazione dell’assessore Bacci devastandola, a Alessandria il consigliere comunale Armano viene bastonato a sangue di notte, a Firenze il sindaco Cerretelli è colpito da pugni e schiaffi, a Pozzonovo quindici fascisti con urla e sparando colpi di pistola accerchiano la casa del sindaco Simonetti da dove si risponde con un colpo di fucile che uccide il comandante della squadra. Il senso di impunità incoraggia le azioni più feroci. Compaiono i “Cavalieri della morte” che a Venezia sfregiano uno scaricatore avventizio del porto, bande venute da paesi vicini irrompono la domenica sera nell’osteria di Villa Seta obbligando tutti all’acquisto del giornale e quando il bracciante Armando Arduini si rifiuta, spiegando di essere analfabeta, lo spingono a pugni fuori dal locale, lo gettano in un fossato e lo finiscono a revolverate. Circoli proletari distrutti, Case del Popolo incendiate, libri bruciati, tanto che l ’ Avanti! organizza l’offerta speciale di un’intera biblioteca di letteratura, sociologia, politica in 100 volumi a 250 lire, «per ricostruire i focolari intellettuali del socialismo».
Ma per il Fascio la mano libera è totale, le squadre mimano nella violenza uno Stato parallelo, si confezionano su misura accuse, processi, condanne e pene. Lo testimoniano le denunce disperate ma inutili: «Io sottoscritto Ferrari Quirino il giorno 2 corr. recatomi a Seminò per la malattia del mio bambino, alla sera del giorno stesso si presentarono a casa mia una decina di fascisti capitanati da Marrocchio Fiorenzo del luogo, imponendomi di seguirli alla sede del Fascio. Per salvare almeno la mia desolata famiglia dalle azioni delittuose che minacciavano di compiere, ubbidii. Nella loro sede, con minacce d’ogni sorta, volevano dichiarassi loro dove si trovavano bombe, moschetti ecc., e mi imponevano di denunciare me stesso e altri compagni di Piacenza. Continuai a negare fin che mi fu possibile, ma visto che le minacce con bastoni e rivoltelle alla mano si facevano più insistenti e la mia vita era in pericolo, accettai di dichiarare ciò che volevano, dopo di che fui rilasciato. Libero da tale orribile situazione, per la verità e perché ne prendano atto gli onesti di qualunque partito, oltre alle autorità stesse, dichiaro che è falso tutto quanto è scritto nella predetta dichiarazione e che la rilasciai solo perché costretto». La tecnica è in uso in tutto il Paese, ma le squadre ormai vanno oltre: ora prendono di mira le donne. A Dosolo arrivano alle dieci del mattino per la caccia ai bolscevichi, poi non trovandoli entrano in casa di Teresa Simonelli e Maddalena Avanzi, le aggrediscono gettandole a terra e le bastonano coi randelli. A Ghedi aspettano che le operaie escano dal cotonificio, le inseguono insultandole, poi accerchiano Giulia Gricini, la immobilizzano in due mentre gli altri le sputano in faccia, quindi la colpiscono coi manganelli. A Firenze in piazza dei Nervi un’incursione fascista in auto provoca un diverbio coi passanti, volano urla, andandosene gli squadristi sparano all’impazzata per spaventare la folla e feriscono due donne, Annunziata Benigni e Teresa Liverani. Ma è a Ferrara che va in scena l’ultima variante squadrista. Da tempo le camicie nere attaccano con ingiurie la maestra Alda Costa, colpevole di essere socialista, agitatrice, militante, attivista. La seguono per strada, la attendono davanti a casa, le intonano cori di canzonacce volgari sotto le finestre. Ma non sono mai arrivate all’aggressione fisica, con dieci, venti uomini contro una donna. Finché la loro ossessione per la prepotenza trova la soluzione: bisogna organizzare sul campo lo squadrismo femminile, per colpire le donne di sinistra, che non possono rimanere impunite. Un manipolo speciale di ragazze reclutate nei paesi della provincia, armate di pistole, bastoni e manganello si presenta all’abitazione di Alda Costa, e cerca con l’inganno di farla uscire in strada, per aggredirla. La porta non si apre, l’assalto va a vuoto, sostituito da canti triviali di dileggio, e insulti. Ma intanto, a completare il quadro dell’illegalità armata, sono nate le amazzoni fasciste.
Ostinatamente, nonostante la drammatica evidenza della cronaca quotidiana dimostri il contrario, c’è chi crede nella denuncia delle azioni criminali fasciste come strumento di opposizione, o almeno di resistenza: in ogni caso, come un dovere. Giacomo Matteotti, deputato socialista di Rovigo, ha 37 anni nel marzo 1922, quando presenta un vero e proprio libro nero del fascismo, cioè l’inchiesta socialista sulle gesta degli squadristi in Italia. Lo studio è uscito un anno prima, distribuito ai deputati nella prima seduta della nuova legislatura con una attenta ricognizione dell’azione dei Fasci che elenca rappresaglie, ritorsioni, assalti, incursioni, incendi, bastonature, sparatorie, ferimenti e omicidi, e 170 morti solo tra aprile e maggio 1921, più 431 feriti. Ma adesso la nuova edizione passa da 179 pagine a più di 500, con le foto-tessera dei militanti trasformati in vittime e la documentazione delle lettere inviate dalle sezioni locali del Fascio «agli egregi amministratori del Comune» con l’ordine «di presentare le dimissioni entro il termine di quarantotto ore da oggi a mezzogiorno»; o degli avvertimenti scritti delle camicie nere alle redazioni dei giornali perché evitino «notizie tendenziose», che comporterebbero un intervento squadrista. Ma sovrasta tutto la galleria muta delle immagini dei circoli distrutti, le redazioni dei giornali devastate, le cooperative bruciate, i muri anneriti della Camera del Lavoro a Livorno, il teatro sventrato della Casa del Popolo a Zeme Lomellina, la birreria dell’Associazione Generale Operaia a Torino con gli arredi stracciati, le bottiglie frantumate, le sedie e i tavoli distrutti, la tipografia della Giustizia di Reggio Emilia coi fili elettrici strappati dal muro, la linotype fatta apezzi, la cassetta dei caratteri spaccata, gli impianti inservibili, gli armadi della Lega Braccianti di Bologna squarciati, gli scaffali demoliti, i tavoli rovesciati, una lavagna che prova a resistere sbilenca in un angolo. È il ritratto di un’Italia annichilita, su cui è passata una furia cieca di distruzione che non ha più nulla della lotta politica, ma trasforma quel 1922 nell’anno zero di una nuova epoca segnata soltanto dalla prevaricazione e dall’annientamento.
Matteotti lo aveva detto per tempo davanti al Parlamento, il 31 gennaio 1921: «Oggi in Italia esiste un’organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano apertamente che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, incendi e li eseguono. La verità è che codesta violenza è esercitata per interesse di classe, e non contro fatti politici, e la parte più arretrata della borghesia, l’Agraria, sarebbe anche contenta di lasciar perire lo Stato per salvare la sua borsa. Ora, badate. La giustizia privata che si sostituisce alla pubblica è giustizia sommaria. E la classe che detiene il privilegio politico, economico, che ha con sé la magistratura, la polizia, l’esercito, ritiene che sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esce dalla legalità e si arma contro il proletariato. Il governo e le sue autorità assistono impassibili e complici allo scempio della legge». Non succede nulla. La Camera approva un ordine del giorno generico di condanna alla violenza, in cui «si confondono insieme bastonati e bastonatori», come dicono i socialisti. Ma adesso, alla fine di marzo 1922, per il fascismo è addirittura il momento di mostrarsi e consacrarsi al seguito del Capo che lo ha ripreso in mano, per ostentare il suo peso e il suo carattere nella città dov’è nato, appena tre anni prima. Mussolini chiama le camicie nere della Lombardia all’“adunata” convocata a Milano domenica 26, e avverte amici e avversari che sarà una prova «di forza e di disciplina» del movimento, per mostrare insieme la sua natura politica, militare, sindacale e anche religiosa, «di una religione che si esalta col martirio e col sangue».
Tutto comincia con il rancio, distribuito alle 12 all’Arena. Alle 13 il capitano Starace tiene un “Gran Rapporto” ai comandanti di reparto: Consoli, Seniori, Centurioni, Capi, Decurioni. Alle 14 “ammassamento”. Alle 14.30 inizia la sfilata, con in testa la banda ardita, il gagliardetto del Fascio, il camion dei mutilati e il plotone delle medaglie d’oro con una scorta d’onore, mentre le donne fasciste marciano a parte, guidate da un Comandante maschio, coi randelli portati “a guisa di fucile”. Primo nel gruppo delle autorità c’è Mussolini, in camicia nera avvolto in un mantello verde. Passandogli davanti le squadre fanno l’“attenti a sinistra” e urlano «A noi»: in piedi sull’auto scoperta, immobile e già teatrale il Duce risponde col saluto romano. Mentre il corteo defluisce spuntano urla di «Me ne frego» scagliate contro «il sol dell’avvenire» e la bandiera rossa, con l’invocazione ogni volta ripetuta: «botte, botte, botte». E c’è spazio per la devastazione di un circolo proletario, con un operaio ucciso mentre beveva un caffè, in piedi al bancone del bar. Ma Mussolini può rivendicare il numero dei manifestanti («trentamila») il «perfetto ordine», il «tripudio di sole, di bandiere e di fiori», la «disciplina».
Persino Anna Kuliscioff confessa a Turati di essere impressionata: «Mi sono buscata un discreto mal di testa volendo assistere dal balcone allo sfilare del corteo fascista. Speravo cheDomeneddio, almeno lui, non fosse fascista e che avrebbe fatto diluviare. Macché. A mezzodì comparve il più bel sole di primavera e la grande mobilitazione delle forze fasciste si è fatta con la benedizione del Signore, ma con scarso pubblico attorno. Il corteo però come tale è riuscito grande, imponente, ordinato. Tutti quei giovani dai 17 ai 25 anni, gagliardi, agili, bei ragazzi inquadrati militarmente, se non si sapesse a che scopi turpi è rivolta la loro azione, fanno un effetto magnifico di bellezza e di forza. La radunata lombarda di oggi sarà un coefficiente di gloria per cingere la crapa pelata del Duce, il quale apriva il corteo in piena tenuta fascista, tronfio e gongolante di fungere da generalissimo. No, no, non è da illudersi: è un vero esercito da muovere all’assalto non solo di qualche cooperativa, ma per colpire molto più in alto. Non mi stupirei affatto se fra non molto s’impadronissero del potere, creando una repubblica oligarchica, con Mussolini presidente e il Papa re d’Italia».
Eppure c’è ancora energia da spendere privatamente, dopo l’ostensione pubblica delle colonne fasciste in parata, c’è un’altra prova suprema che attende Mussolini, un nuovo confronto che ha in gioco l’onore e come posta il sangue, con il Duce che sembra condannato a vivere nella tensione perenne di cui si nutre, dovendo ogni volta dar dimostrazione di sé, e sempre fisica e politica insieme, comunque estrema. Il mattino dopo la manifestazione di Milano il Capo del fascismo esce di casa alle 9 e mezza, accompagnato da tre uomini vestiti di nero come lui, col cilindro in testa e un kit completo di sciabole. Gli accompagnatori sono i due padrini Socrate Crescini e Giuseppe Aversa e il professor Ambrogio Binda, chirurgo ortopedico e amico del Duce. Giunto all’ippodromo San Siro Mussolini si toglie la giacca e rimane in camicia bianca floscia, con un paio di guanti senza crispino, la sciabola in pugno: è l’ora del duello. Lui si allena quasi ogni giorno con la spada, il suo maestro è Camillo Ridolfi. I duelli sono proibiti per legge, dal 1875. Ma Mussolini ha duellato già tre volte, una addirittura con il socialista Claudio Treves, che è stato direttore dell’Avanti!” proprio prima di lui. Adesso lo aspetta l’ingegner Cristoforo Baseggio, che il Duce aveva candidato con il Fascio nelle elezioni fallimentari del 1919. Rachele, la moglie, ogni volta che lo vede partire per un duello è in pena: ma questa volta di più. Baseggio è un militare, ex maggiore degli alpini, ha 53 anni ma sa usare le armi. Ormai non si torna indietro, dopo che i due si sono affrontati polemicamente a distanza sulle questioni della pacificazione, di Fiume e D’Annunzio. Trentasette minuti di duello, con riposi di due minuti ogni dieci. Sette assalti. Il primo porta a uno scambio incruento di colpi, come di studio. Nel secondo Mussolini passa all’attacco puntando ripetutamente alla testa e ferisce l’avversario al viso con una lacerazione di tre centimetri. Nulla al terzo. Al quarto assalto Mussolini attacca avanzando, Baseggio indietreggia parando i colpi e colpisce Il Duce all’avambraccio, con una ferita da taglio. Al quinto una nuova ferita di striscio e ancora una di taglio all’avambraccio destro di Mussolini. Scambio senza sangue al sesto. Al settimo assalto Baseggio riporta una ferita da punta al lato del dito medio destro, lunga 4 centimetri. Inter-vengono i due medici e poiché constatano che l’ultima ferita interessa tutti i tessuti fino all’osso, mettendo il maggiore Baseggio in condizioni di inferiorità perché non può serrare l’impugnatura della sciabola, si rivolgono al cavalier Garibaldi Geron, direttore del combattimento, che decide la fine del duello. Mussolini e Baseggio si riconciliano, stringendosi la mano.
Sembra che tutto debba scontrarsi per risolversi, con il 1922 che assegna soltanto alla forza la misura degli eventi e al combattimento il primato. Il progredire naturale del mondo si è arreso, solo da questo continuo cozzo violento può scaturire il domani. «Lo spirito di battaglia – spiega Italo Balbo – vive sotto pressione». Tutto il resto appare prosciugato, abitudini, costumi, civiltà, tradizioni, tutto offuscato in un Paese attirato dall’oscurità che lo minaccia, e che confonde e smarrisce ogni possibile via di salvezza in quel nero che si annuncia: come l’eclissi solare di martedì 28, visibile dalla Libia italiana, che per 7 minuti e 50 secondi si porta via marzo nel buio, e sembra una profezia.
(3. continua)