la Repubblica, 16 marzo 2022
Sul documentario "Funari Funari Funari"
«Dammi la due, dammi la tre!». Bisogna inventarsi una confidenza speciale con la telecamera, supporre che sia fatta per te; o altrimenti, pretenderlo. La naturalezza davanti al suo occhio, alla fatale lucina rossa, la si conquista con il tempo e con lo sforzo; oppure, la si ha da sempre. Come un sapere ereditato altrove, ma buono da spendere in quello strano acquario che chiamiamo televisione. Uno come Gianfranco Funari, che nel primo giorno di questa primavera compirebbe novant’anni, non ha imparato in tv a fare la tv. E questo forse è il tratto più sorprendente nella ricostruzione della sua parabola artistica che Marco Falorni e Andrea Frassoni hanno realizzato per Sky Documentaries, Funari Funari Funari (dal 21 marzo su Sky e su Now). Gianfranco nato a Trastevere nel 1932 diventa Funari inventando sé stesso. Provando cioè a travasare nel piccolo schermo il distillato di (sghembe) vite precedenti: il croupier, il cabarettista, il giramondo giocatore d’azzardo. Parlare spiccio, saper sorridere mostrando una dentatura che quasi scintilla, passeggiare con le mani in tasca, o fumare come si fosse nel proprio salotto. Funari, andando eternamente a braccio, va a braccetto con lo spettatore: da lui si fa ispirare come dagli avventori occasionali con cui si attacca bottone sul treno o al bar, da lui, in qualche modo, si fa guidare. Anche se poi l’impressione è che guidi lui. Ma in verità Funari capta gli umori della platea e li inala, li asseconda, li alimenta. Sfonda la quarta parete accostando il suo faccione alla telecamera e producendo un primissimo piano iperbolico, quasi grottesco. Qualche volta – come da lui imparò a fare anche Bonolis, tra gli interpellati nel documentario – si girava e mostrava il profilo, e più che il profilo il padiglione auricolare, così da dimostrare, senza renderlo esplicito, di essere in fondo un gigantesco orecchio pronto a raccogliere il parlottare, il bofonchiare, o l’inveire della gente seduta in poltrona.Ecco: la gente. L’espressione suona sempre un po’ approssimativa se non sciatta, e tuttavia il vero grande invadente protagonista di Funari Funari Funari,accanto al suddetto, è proprio la gente. Gli intervistati – da Vittorio Sgarbi, che evidenzia di non avere mai (mai!) litigato con Gianfranco, a Piero Chiambretti, a Massimo Bernardini, alle donne della sua vita, Rossana Seghezzi e Morena Zapparoli, o lo stesso Bonolis – tradiscono di tanto in tanto uno stupore ancora vivo ragionando sull’intuizione centrale della carriera di Funari. Quella, detto brutalmente, di far parlare la gente; di aprire il microfono a tutti – come Radio Parolaccia, però perfino prima di Radio Parolaccia. E non solo perché il pubblico diventasse protagonista – così nella logica, più tarda, del reality – ma soprattutto perché interferisse, dialogasse con i soliti “protagonisti” (tanto più se onorevoli), incalzandoli, e se necessario schiaffeggiandoli. Oggi diresti populista, ma la ruvida iper-romana chiacchiera di Funari è il pionieristico, e perciò geniale, collante della chiacchiera altrui, il talk show già destrutturato, proprio mentre nasceva quello archetipico di Maurizio Costanzo.
La scaletta è una stampella di cui può fare a meno chi modella la tv sul proprio corpo e sul proprio fiuto, su una capacità di improvvisazione che è quella del jazzista del senso comune, dello sfottò e dello sbotto, della domanda ingenua e comunque radicale.
Una recensione piuttosto infastidita del Funari iper pop e pre-populista fu firmata su questo giornale da Beniamino Placido, che chiedeva allo showman “un tasso un tantino inferiore (solo un tantino) di rozzezza”. L’interessato si arrabbiò, e esibì lo sdegno in tv, svelando difficoltà intestinali prodigiosamente sbloccate dalla lettura dell’articolo uscito su Repubblica. Ma forse la verità è che il grande Beniamino aveva ragione e che Funari non aveva torto. Quel tratto distintivo di rozzezza, da pazzo eretico, per pescare dal documentario qualche opportuna definizione, era l’arma di Funari, lo strumento con cui scompaginava una televisione fatta di finzione e di galateo, di distanza e di retorica spesso precotta o stracotta. Il tribuno sfascia-tribune strappa i politici alle granitiche rubriche in bianco e nero alla Jacobelli e li costringe non tanto a stare in televisione, quanto a «fare la televisione». Così Occhetto riceve (un po’ stordito, a dire il vero) una mega- torta di compleanno e Berlusconi si lascia fissare negli occhi, in silenzio, per tre interminabili minuti.
Funari fa il complice irridente, fa il grillo parlante, fa l’arruffapopolo nella stagione di Mani Pulite, l’araldo della politica “vicina alla gente” che per fortuna non è, o non è ancora, anti-politica. E dà forma al villaggio, anzi “villaggetto” globale, che è la tv fatta anche e soprattutto da chi la guarda. I suoi eredi sono meno intemperanti, o lo sono per posa; i conduttori della fascia serale politica di Retequattro gli devono tutti qualcosa, purtroppo, ma non è detto che lo sappiano. Da padre involontario (anche del peggio), di tutti i Funari o “funaristi” d’Italia, Gianfranco, il trasteverino libero, era (e resta) il migliore.