la Repubblica, 16 marzo 2022
Non è l’arena, è il circo
Quanto durerà nella memoria collettiva il numeraccio ucraino di Povia («Zelensky deve abdicare dal trono») a “Non è l’Arena” di Giletti? Si azzarda qui una risposta empirica: un po’ più della buffa espressione di Alan Friedman mentre l’ascoltava; o dello scontro, non si è capito bene su che cosa, tra il nuovo gladiatore da talk-show, Alberto Contri, e ladylike Moretti, opportunamente chiamata a rappresentare la sinistra.
Ancora. Rimarranno impresse, quelle parole, poco più della stralunata testimonianza di un no vax scopertosi pro Putin. La tv degli strilli ha questo di consolante: che tutto si dimentica subito, per cui le confuse argomentazioni geopolitiche di Povia già sfumavano quando la scaletta l’ha chiamato a cantare un brano dal promettente titolo “Dito medio”, clip girata davanti a un fondale di finte, ma evocative rovine, anch’esse scalzate da quelle vere e poi dalle ulteriori e rumorose interruzioni.
Il vero spettacolo, a ripensarci, era la faccia di Massimo Giletti: un complesso miscuglio di stupore, godimento, indignazione, euforia, al fondo tenute assieme da una consapevole superiorità nei confronti della cronaca, forse della vita, magari addirittura della storia. All’inizio della puntata, con voce di circostanza, ha annunciato che si sarebbero viste immagini «molto dure» che avrebbero sollevato «mille polemiche». In realtà, senza eccessivamente far torto alla buonafede dell’ideatore-conduttore, le polemiche erano scientificamente affidate alla scelta degli ospiti; un modello di casting che ancora una volta rovesciava e al tempo stesso declinava in modo corale il proverbio secondo cui Dio li fa e poi li accoppia, per la gioia tossichella del crash-show.
In tal senso le competenze geostrategiche di Povia, prima ancora che le sue convinzioni, erano senza dubbio il gioiellino della serata – e un po’ anche l’occasione di questo articolo sugli orizzonti dell’intrattenimento di guerra, di cui Giletti si è fatto esploratore e pilota.
Ora, è pur vero che il personaggio sa il fatto suo, anche troppo. Conosce e detta i tempi della tv, maneggia bene la narrazione, sa gestire gli ospiti senza mai farsi fregare il microfono; inoltre ha coraggio, una bella presenza, una vena anarcoide e un pubblico che davvero lo vede come un moralizzatore, solo contro tutti. Ma certo Giletti non si chiede se sarà o meno il caso di diffondere scemenze su una guerra ogni giorno più terribile.
E di nuovo occorre aggiungere che sono le leggi dello spettacolo, al cui cospetto il cinismo dell’informazione, che pure esiste, scompare. Non è l’Arena, appunto, ma un circo: emozioni, belve, acrobati, pagliacci, fenomeni da baraccone. Nell’indispensabile usa e getta, prima di affidare l’invasione dell’Ucraina a Povia, ma anche a Contri e a Moretti, su quella pedana sono passati no vax così ottusi da sembrare finti, ciarlatani che promettono 120 anni di vita a chi compra le loro spezie, brigatisti rossi di iperbolica maleducazione e per questo arruolati e poi cacciati in diretta, «che ti pago di tasca mia il taxi!», gridava Giletti come un arcangelo accusatore; senza contare le concioni sui vitalizi, con libro dell’incauto fruitore gettato per terra, gli sfogoni di Corona, il ping pong tra Luxuria e Santanché sul pisello e la vulva.
Così la domenica sera, momento difficile, un po’ si ride e un po’ viene lo sconforto. La politica, figurarsi quella estera, non c’entra niente. Giletti tratta male Berlusconi, stima Meloni, si liscia Renzi, regala la maglia del Milan a Letta, fa cantare Conte e mentre Salvini chiude la trasmissione inviando un bacione alla figlioletta, si aggiunge in qualità di “zio Massimo”. I folli calcoli di Putin e l’espansione della Nato restano sospesi nell’etere, prossimi all’oblio dell’eterno presente. Il problema, semmai, si pone quando le condizioni, fuori e dentro di noi, rendono la visione più oscena dell’osceno. «Ciao meraviglie! – saluta Povia i suoi fan su Instagram – ordinate i miei dischi, aiutatemi!».