La Stampa, 16 marzo 2022
Il restauro del pavimento del Santo Sepolcro
In fondo era stato un peccato di gioventù. Di quelli che avrebbero avuto conseguenze per secoli e immensi avrebbe addotto danni anche ai giorni nostri. Per dimostrare di essere diventato grande, appena raggiunta la maggiore età, il giovane califfo al-Hakim bi Amr Hallah fece assassinare il suo tutore e iniziò una dura persecuzione contro cristiani ed ebrei a Gerusalemme. Il corollario di quella ferocia fu la distruzione della chiesa del Santo Sepolcro. Lo scempio della basilica fatta erigere nel 335 da Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, ha un data precisa: il 18 ottobre 1009. Quel giorno le truppe del califfo, guidate dal suo luogotenente Yaruk, fecero a pezzi i luoghi sacri al cristianesimo.
«Tutto fu distrutto fino alle fondamenta», come aveva raccontato esterrefatto il vescovo di Periguex, Raoul de Chouhé, ad Ademaro di Chabanne che lo aveva riportato nella sua cronaca scritta intorno al 1030, vent’anni dopo la distruzione ordinata dal califfo. Uno dei racconti che, insieme ad altre testimonianze di viaggiatori, avrebbero gettato benzina sul fuoco di chi predicava la prima grande Crociata per riprendersi i luoghi della Terra Santa. E così era parso logico che fossero proprio gli architetti al seguito di Goffredo di Buglione a ridisegnare la Basilica del Santo Sepolcro, ricostruendola in stile romanico, cercando di unificare in un solo tempio i tre luoghi sacri della cristianità: il Calvario, luogo della Crocefissione, la pietra dell’Unzione, dove il corpo di Cristo sarebbe stato deposto e preparato per la sepoltura, e l’edicola costruita sulla grotta che avrebbe fatto da sepolcro al corpo di Gesù.
«In gran parte – racconta Sara Abram, segretario generale del Centro di restauro di Venaria – il pavimento dell’attuale basilica è ancora quello medievale, anche se ha subito modifiche e inserti di epoche successive». Ma ne ha viste di tutti i colori tanto che oggi restaurarlo è un’impresa tecnica e storica insieme. È una spedizione italiana quella che ha avuto l’incarico di riportare all’antico splendore le parti comuni della pavimentazione. Oltre al centro di restauro di Venaria (che ha i suoi laboratori nella reggia sabauda vicino a Torino), ci sono gli archeologi dell’ateneo romano della Sapienza che sfrutteranno l’occasione per ulteriori scavi in uno dei luoghi religiosi più importanti al mondo. «Il pavimento è anche un terreno comune alle tre confessioni cristiane ed è un messaggio importante di pacificazione essere riusciti a trovare un accordo per realizzare il restauro». Per ragioni simboliche la fotografia dei tre rappresentanti religiosi armati di piccone che danno il via ai lavori è un messaggio in decisa controtendenza rispetto ai venti di guerra di queste settimane.
Non è sempre stato così. La partita a scacchi tra ortodossi, armeni e cattolici sulla divisione degli spazi nella Basilica del Sepolcro ha attraversato i secoli. A tutti i turisti le guide raccontano ancor oggi la storia incredibile della scala a pioli rimasta in bella vista sulla facciata della chiesa. È una scala inamovibile, simbolo imperituro delle liti e delle divisioni che attraversano da secoli il cristianesimo. Per sedare le liti continue il sultano musulmano Osman III varò a metà del ‘700 l’editto dello Status quo, confermato anche a metà dell’800. Diceva semplicemente che nella chiesa nulla poteva essere modificato senza l’accordo di tutte le religioni che lo consideravano un luogo santo. Così la scala dimenticata sulla facciata rimane lì ancora oggi a monito per i cristiani, come disse Paolo VI in occasione della sua storica visita a Gerusalemme. Superare quelle divisioni, almeno per il restauro del pavimento, sembra un grandissimo passo avanti. Curiosamente, e a smentita di quanto si potrebbe credere, è spesso toccato ai musulmani fare da pacieri tra i cristiani per evitare che le liti degenerassero. Non solo Osman III ma anche Saldino: fu lui a consegnare le chiavi della chiesa a una famiglia islamica. Ancora oggi, di mattina presto, i discendenti della famiglia Husseini aprono il portone del tempio sacro della cristianità. Possono farlo perché nell’aprile del 637 il califfo Omar aveva deciso di accogliere le preghiere del patriarca bizantino e di non entrare nella chiesa del sepolcro per evitare che diventasse un luogo di culto musulmano. Non tutti i capi islamici sono come il giovane al Hakim.
Si capisce bene allora perché restaurare il pavimento del Santo Sepolcro è un esercizio di diplomazia oltreché di tecnica sopraffina. A Gerusalemme ogni pietra si porta dietro una storia e migliaia di anni di simboli. «Restaureremo il pavimento della chiesa utilizzando il più possibile materiali simili a quelli originari», dice Abram. Ma rispetto a mille anni fa molte cose sono cambiate: «Le cave che sorgevano oltre le mura di Gerusalemme non ci sono più», spiega la studiosa. Come fare allora? «In parte utilizzeremo una cava vicino a Betlemme». Anche volendo è impossibile sfuggire al gioco dei simboli. Le pietre di Betlemme per restaurare il Sepolcro. L’Alfa e l’Omega, avrebbe scritto san Giovanni. —