La Stampa, 16 marzo 2022
Intervista a Salvatore Rossi
Quando si progetta un libro sul futuro, si rischia di restare indietro sugli eventi. Lo sa benissimo Salvatore Rossi, ora presidente di Tim (dopo una lunga carriera in Banca d’Italia fino a diventarne direttore generale), che nel suo lavoro cita infatti il film Metropolis di Fritz Lang, dove cent’anni fa si immaginava il mondo di oggi facendo volteggiare tra i grattacieli gli aerei biplani di allora.
Dati i limiti della fantasia umana, il tentativo di prevedere il domani può insomma soffrire di «presentismo» (50 anni fa, chi avrebbe previsto la scomparsa delle macchine da scrivere?), scrive nel suo Indagine sul futuro appena pubblicato da Laterza. In questa chiave ironica Rossi apre con un breve racconto di fantascienza, nutrito dai capolavori del genere, quelli di Isaac Asimov, H.G. Wells, Aldous Huxley.
La scelta è stata interrogare esperti che meglio potessero intravedere ciò che verrà: la studiosa di neuroscienze e senatrice a vita Elena Cattaneo, l’amministratore delegato di Google Cloud Thomas Kurian, Cristiana Fragola, direttrice di un’organizzazione internazionale che affronta il cambiamento del clima, il giornalista Ferruccio De Bortoli, l’architetto d’avanguardia Carlo Ratti, e una giovanissima ricercatrice informatica, Beatrice Polacchi.
Sembrava che una cesura nel corso della storia l’avesse portata la pandemia. Ora ce ne troviamo davanti una forse più profonda, creata dalla guerra in Ucraina. Dobbiamo già aggiornare la sua visione del futuro?
«Me lo sono chiesto, negli ultimi giorni, ma no, credo sia ancora giusto guardare lontano, seguendo tendenze che rimarranno in opera salvo che si precipiti in un conflitto mondiale: l’intelligenza artificiale, il cambiamento del clima, i social media fra trasmissione di notizie e trasmissione di emozioni, il ruolo dello Stato e quello del mercato. Mi conforta l’ottimismo di chi si occupa di scienza: i vantaggi del progresso sono talmente grandi da sormontare tutte le forze contrarie. Poi, certamente, mi cautelo con il raccontino di apertura, che è distopico e piuttosto pessimista».
Elena Cattaneo dice che per tenere insieme progressi delle tecnologie, creatività, attenzione alle persone e buon vivere, occorre una «passione civile della conoscenza».
«Passione che, nelle sue parole, spetta alle istituzioni democratiche promuovere e a noi cittadini coltivare».
Difficile, quando sulla rete troppi si accontentano di emozioni non ragionate e si rifiutano di approfondire come stanno davvero le cose. De Bortoli contro chi diffonde odio propone che, in caso di reati, la magistratura possa penetrare l’anonimato dei social network.
«Sì. Occorre fare grandi sforzi per diffondere la capacità critica. Ad esempio, mi pare giusto che alcune università prendano iniziative contro la povertà educativa, mandando i loro studenti e studentesse ad aiutare i bambini delle aree più disagiate. Un grande contributo lo può dare, sempre secondo Elena Cattaneo, la diffusione del metodo scientifico di avvicinarsi alla realtà, che insegna a separare i fatti verificati dalle opinioni, che impone di sottoporre sempre a giudizio critico le informazioni che si ricevono. Altrimenti prevalgono le paure contro il nuovo e contro il diverso, che tendono sempre a riemergere».
E inducono a disprezzare gli esperti, tra cui gli scienziati. Oppure a diffidare degli algoritmi, a temere il crescente ruolo dei robot.
«I macchinari, parlando in generale, ci hanno aiutato molto e molto ci aiuteranno, in modi che ancora non riusciamo a immaginare. Nel film Metropolis, che è del 1926, dalle fabbriche del futuro esce quasi tutto, ma per farle funzionare occorre il lavoro convulso di migliaia di operai davanti a quadri di controllo, impegnati ad azionare pesanti leve fino a sfinirsi. Sappiamo oggi che non è così. Le macchine possono imparare a guidarsi e a controllarsi da sole, senza bisogno di lavoratori-schiavi».
Thomas Kurian di Google le dice che molto manca ancora prima che i computer acquistino una vera creatività. Ma la paura ricorrente (ricorrente da due secoli, in forme diverse) è che le macchine sostituiscano gli uomini nei posti di lavoro.
«Il disastro può accadere se il guadagno di produttività ottenuto con le macchine resta tutto nelle mani di chi le possiede. Se viene distribuito, no. In passato hanno operato diversi meccanismi di riequilibrio, ma se ci trovassimo davanti a un fenomeno esteso e impetuoso di rimpiazzo del lavoro umano non basterebbero. Avremmo bisogno qui di un ruolo dello Stato maggiore di quello concesso dalle ideologie in voga dagli anni ’80 del secolo scorso in poi».
Salvo che in Italia, a leggere alcuni passi del suo libro. Lei scrive che da noi lo Stato ha sempre tagliato le unghie alle imprese. Certo le ingerenze della politica sono state enormi: ma proprio la storia dell’azienda da lei presieduta, Tim ex Telecom, snazionalizzata 25 anni fa, mostra che i privati – almeno quelli italiani – non hanno saputo cogliere un’occasione straordinaria.
«A me pare che lo Stato abbia continuato a immischiarsi. Guardiamo l’attualità: perché a Tim non dovrebbe essere concesso il vantaggio dell’integrazione tra la rete fissa, che abbiamo per lascito storico, con i servizi di telefonia mobile? A Deutsche Telekom in Germania e a Orange in Francia, ex monopolisti anche loro, è permesso. Nostri concorrenti che entrano nel fisso possono fare offerte combinate tra fisso e mobile, noi no. Io credo che l’intervento dello Stato sia necessario per attenuare le disuguaglianze sociali che il mercato inevitabilmente crea. Ma questo, in Italia, lo Stato non è riuscito a farlo».
Se per affrontare pandemia, pericoli di guerra e cambiamento del clima in tutto il mondo, il ruolo dello Stato crescerà, in Italia rischiamo di ripetere vecchi errori.
«È possibile. Ma io ritengo che l’Italia abbia doti che possono essere utilissime nella nuova fase; l’esperienza di un mercato temperato e di un settore pubblico forte non è inutile. In più, nel nostro passato troviamo una miracolosa combinazione fra il gusto del buon vivere e la sapienza produttiva tecnologicamente sofisticata».
L’Italia del Rinascimento era il Paese più istruito d’Europa. Adesso è uno di quelli che lo sono meno.
«Infatti è quello lo sforzo principale da fare per instillare la passione della conoscenza. L’Italia può insegnare al mondo un diverso rapporto tra innovazione tecnologica e benessere umano».
Il racconto che apre il suo libro, La legge zero, si svolge nel 2055. I suoi personaggi comunicano con «messaggi mentali» a distanza: dunque, non hanno bisogno di imprese di telecomunicazioni come Tim…
«Da trent’anni, tutte le aziende di telecomunicazioni del mondo sanno che per sopravvivere dovranno cambiare. Tim ci si sta dedicando».