La Stampa, 16 marzo 2022
Antonio Scurati parla della guerra
Prima di mettersi a studiare la vita di Benito Mussolini, Antonio Scurati, scrittore e saggista, ha analizzato in profondità la guerra e i suoi effetti sull’opinione pubblica. Quegli scritti, che potrebbero essere ripubblicati presto, sono tornati tragicamente di attualità con l’invasione russa.
Scurati, lei sta scrivendo il terzo volume della sagra di M. in cui racconta lo scoppio della Seconda guerra mondiale, vede delle similitudini con il presente?
«Sono refrattario ai paragoni storici, ma ci sono dei tratti di agghiacciante simmetria tra la condotta pratica e verbale di Putin nel momento in cui invade l’Ucraina e quella di Hitler quando aggredisce prima la Cecoslovacchia e poi la Polonia».
Dove vede queste simmetrie?
«Dall’abbandono delle politica da parte di Putin. Hitler dal ’38 non ragiona in termini politici, ma escatologici, apocalittici e religiosi. Crede di andare incontro a un Armageddon con un nemico mortale che prevede. Temo che Putin stia ormai dentro questa dimensione e che ogni tentativo di comprendere le sue mosse in termini politici manchi il bersaglio».
Ci sono altre similitudini?
«Il pretesto delle minoranze da tutelare, Hitler fece lo stesso con i sudeti e poi con Danzica. Poi c’è l’azione pervicace che Putin porta avanti: ha cominciato in Cecenia, poi ha bombardato la popolazione civile della Georgia, poi ha preso la Crimea, ha usato le armi chimiche in Siria e adesso l’Ucraina. È la stessa metodica determinazione di Hitler che annette l’Austria, poi la Cecoslovacchia, poi la Polonia. E ogni volta chi lo sta a guardare ha la tentazione di dire che non si spingerà oltre».
Non sarà così scriteriato da allargare il conflitto a un Paese Nato?
«Messa in una prospettiva storica, la minaccia putinania porta con sé questo monito. Se non fosse fermato, e in parte già lo è stato, in Ucraina si può pensare che avrebbe proseguito con i Paese baltici».
Il dilemma sull’invio delle armi è quello che si presentò a Danzica?
«Sì. Intendiamoci, la probabilità di un’estensione del conflitto al mondo intero non è la stessa del 1938. Ma sulla questione ucraina si potrebbe applicare la magistrale sintesi di Churchill quando dopo la Conferenza di Monaco fulminò Chamberlain dicendo "dovevate scegliere tra la vergogna e la guerra. Avete scelto la vergogna, avrete la guerra". Vale anche per le mire di Putin».
L’Occidente doveva muoversi prima?
«L’Ucraina non aveva scelto di entrare nella Nato, come dice qualche fautore del pacifismo a ogni costo, spero in buona fede. Non c’è nessuna procedura per l’ingresso. La neutralità che si invoca è scritta nella Costituzione ucraina. Gli ucraini aspirano a condividere i nostri valori e gli stili di vita democratici e liberali. È in quel momento che la Russia di Putin ha deciso la guerra. È tutto leggibile nella logica neozarista: qualunque cosa l’Ucraina avesse fatto che non fosse stata abdicare completamente a se stessa avrebbe avuto la guerra. Qui avremmo dovuto chiederci: l’abbandoniamo o la sosteniamo?».
Se domani non ci fosse più Putin il problema resterebbe?
«Sono pacifista e il massimo che posso auspicare è la sua deposizione al termine di una congiura di palazzo. Anche senza Putin però, la questione russa rimarrebbe: un grande e glorioso Paese che non solo non è Europa per storia politica, ma che ne è un antagonista».
Fino ad alcuni mesi fa alcuni sostenuto che la Russia doveva diventare un alleato dell’Italia.
«Un’idea sciagurata che alcuni leader dei partiti populisti hanno sostenuto».
Salvini ora ha abbandonato quelle posizioni, è un fatto positivo?
«Questa forma di spregiudicato camaleontismo e questa prontezza a tradire qualsiasi principio erano le caratteristiche di Mussolini, e in fondo la sua forza. Non del Mussolini fascista, ma dell’inventore della leadership populista. In questo c’è una continuità evidente».
Il viaggio in Polonia è figlio di una contraddizione?
«C’è la caratteristica fondamentale del populismo: non avere idee proprie, ma solo tattiche. Riempirsi dei rancori momentanei della gente e da quelle esalazioni lasciare che venga guidata la propria linea politica. Oggi Putin è in disgrazia presso l’opinione pubblica italiana? Si può anche andare al confine a fingere di essere anti putiniano. C’è un tratto caricaturale, ma in realtà c’è l’arma segreta del populismo, il fatto di avvalersi di quella che Mussolini definiva "supremazia tattica del vuoto". Un vuoto che va riempito con gli umori momentanei per riscuotere il dividendo politico del momento».
L’opinione pubblica è impreparata alla guerra?
«Questo è sicuro. A ogni nuova guerra che lambisce l’Occidente, ci scopriamo sgomenti e impotenti».
Perché?
«La mia tesi è che c’è stata una trasformazione nel nostro rapporto con la guerra. Dalla prima guerra del Golfo siamo diventati di fatto degli spettatori, la guerra diventa uno spettacolo per famiglia».
Che conseguenze ha?
«Abbiamo perso la consapevolezza che le guerre esistono e questo ci impedisce di agire in termini civili e politici. E restiamo indifferenti come dei telespettatori».
Ma la risposta delle istituzione è stata urgente.
«Questa è una novità, c’è una risposta delle istituzioni internazionali e anche di qualche grande azienda».
E l’opinione pubblica?
«Il pubblico italiano sta rispondendo in maniera emotiva. Ma non è una risposta adeguata».
Le immagini che arrivano dall’Ucraina possono contribuire a questa presa di coscienza?
«Sono critico su questo. Usare immagini della sofferenza altrui istituisce un orizzonte mediatico all’insegna dell’oscenità e non più della tragicità».
Perché alcuni intellettuali dicono di andare oltre le emozioni per capire?
«Da una parte c’è un riflesso pavloviano di antiche affiliazioni con la Russia e di avversità alla Nato, tipico della cultura comunista. Ma soprattutto c’è un autocriticismo ossessivo da parte dell’intellettuale d’Occidente, che sfocia in forme nevrotiche».
La critica non va bene?
«Intendiamoci: la critica e l’autocritica sono il cuore stesso dell’Occidente, sono il titolo di nobiltà intellettuale. Però questo autocolpevolizzarsi in maniera smodata è una degenerazione che si iscrive all’interno della cancel culture».
Lei si aspettava una guerra tradizionale con carri armati e truppe che invadono un Paese?
«Mi ha sorpreso la volontà di potenza che si esercita con l’invasione, la forte territorialità della strategia militare. Un altro punto è interessante: il disinteresse di Putin verso gli effetti mediatici della guerra, per cui se per vincere si deve bombardare un ospedale pediatrico, si bombarda senza problemi, potendo contare sul totale controllo dell’opinione pubblica interna. Gli Stati Uniti dal Vietnam in poi hanno fatto il contrario. Queste cose sembrano indicare un ritorno a un passato che credevamo sepolto».