La Stampa, 15 marzo 2022
Le nuove mani di Bebe Vio
Provare delle dita per Bebe Vio è un po’come indossare un’emozione e sentire addosso un piacere che ha sempre avuto una definizione, ma mai un’intensità.
Lei quasi ascolta questa mano elettronica che è l’inizio di un’altra avventura e ne misura le capacità, muove le dita, testa una presa. Come spesso le capita, urla per la soddisfazione di un altro passo, un passo gigante, su una strada che doveva essere chiusa.
Beatrice Vio secondo la scienza doveva più meno smettere di fare qualsiasi cosa, forse anche vivere, a 11 anni quando ha avuto un attacco di meningite fulminante e grazie alla tecnologia adesso schiaccia altre statistiche e previsioni con la sua mano nuova. È per lei, per quelli come lei, capaci di sfidare le avversità con un coraggio da paura, che la meccanica ha esplorato territori sconosciuti, che gli ingegneri hanno osato disegnare componenti da robot governati da umanissime teste. Quella di Bebe Vio da tempo supera i limiti dei suoi arti artificiali. Quattro medaglie alle Paralimpiadi, un’energia conosciuta nel mondo, addirittura esportata fino alla Casa Bianca dove lei ha preso a pacche il presidente Obama. Prima di avere queste dita, quando la sua mano in silicone poteva afferrare ma non indicare, mimare un cuore, insultare, scandire lettere e codici. Digitare su uno smartphone. Queste affascinanti e sofisticate protesi le ha indossate e salutate: «Mi sono arrivate le mani e i piedi». A sentire la famiglia ha rotto 27 arti prima di mettere questi, li ha consumati. Con la scherma, la pedana sopra cui provare che l’avvenire non è una combinazione di possibilità ma un sogno da costruire, con la frenesia di condividere ogni gesto considerato impossibile. Tipo 12 ore di camminata in salita e discesa a Stromboli, trekking all’Elba, arrampicate e immersioni. Movimento e in ogni modo. Sulle molle da ghepardo che servono per correre, sulle gambe da sera con i tacchi, sulle protesi ciabatta per stare in casa e ora su prototipi all’avanguardia.
Due modelli, uno bianco e uno nero e per Gimbo Tamberi, suo grande amico, l’ideale sarebbe tenere la destra di un colore e la sinistra di un altro. Giusto per avere ancora meno possibilità di essere etichettata, di mescolare l’abitudine di un pollice alzato all’inedito di una carezza. Lei ci deve pensare, vuole testare. Non ha certo bisogno di rappresentare altre istanze e modi di essere, è già un faro: ultravisibile. Ha dato un esempio, ha creato un’accademia dove qualsiasi problema potesse essere condiviso. La spalla è la parte del corpo che Vio nomina più spesso, quella che sostiene, quella su cui appoggiarsi. È stata spalla di molti e ha cercato altre spalle, a partire da genitori e fratelli e poi amici, preparatori, fisioterapisti. Prima di Tokyo si è presa un’infezione da stafilococco e ha temuto «di perdere un altro pezzo». Il gomito bloccato, la stanchezza in ogni fibra «e per la prima volta mi sono fatta tirare su». Dalla gente che aveva intorno, da una squadra a cui proprio lei ha insegnato a credere oltre il visibile. Ora invece si vede e si tocca tutto, compreso un pezzo di futuro che sembrava sceneggiatura da telefilm e invece è una mano bionica. L’unica pecca è che per funzionare ha bisogno di un cervello supersonico, uno capace di viaggiare più veloce di quello che si può immaginare. Quello di Bebe Vio è scatenato, azionerà e distruggerà altre protesi, anche più raffinate.