La Stampa, 15 marzo 2022
La guerra vista da Javier Cercas
Come qualunque avvenimento storico, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin può essere interpretata in molte maniere (la più ovvia: come una riapparizione dell’imperialismo zarista che era tornato con lo stalinismo ed è tornato con Putin, ammesso che se ne fosse mai andato); tuttavia, ce n’è una che, mentre scrivo queste righe, a pochi giorni dall’inizio della guerra, non ho ancora letto né ascoltato, un’interpretazione che a me sembra possibile e che forse agli storici del futuro sembrerà evidente.
Ricapitoliamo. La crisi economica del 2008 provocò un sisma planetario, la cui scala viene di solito paragonata, a ragione, a quella provocata dalla crisi del 1929. La principale conseguenza politica della crisi del 1929 fu la nascita o il consolidamento del fascismo (o, più in generale, dei totalitarismi) in tutto l’Occidente, e non solo in Occidente; la principale conseguenza di questa conseguenza fu la Seconda guerra mondiale.
Da parte sua, la principale conseguenza della crisi del 2008 è consistita nella nascita e nel consolidamento, in tutto l’Occidente, e non solo in Occidente, di ciò che abbiamo preso a chiamare nazionalpopulismo. La storia non si ripete mai esattamente, ma si ripete sempre con maschere diverse; il nazionalpopulismo non è una ripetizione del fascismo (o del totalitarismo), ma è certamente, come ha mostrato Federico Finchelstein, una riformulazione, un erede del fascismo, a cui è legato geneticamente e storicamente. E così come non tutti i fascismi erano uguali, sebbene fossero tutti simili (il nazismo tedesco non è la stessa cosa del fascismo italiano o del franchismo spagnolo), non tutti i nazionalpopulismi sono identici, sebbene tutti posseggano elementi in comune: il nazionalpopulismo di Trump non è lo stesso di quello dei sostenitori della Brexit, di quello di Salvini in Italia, di quello di Le Pen o di Zemmour in Francia, di quello di Orbán in Ungheria, o di quelli di Maduro, Ortega o Bolsonaro nell’America latina (in Spagna, la prima manifestazione del nazionalpopulismo è stata l’esplosione del secessionismo catalano, e l’ultima Vox, che all’inizio è stato in buona parte un risultato dell’esplosione del secessionismo catalano, una reazione a esso).
Il nazionalismo autoritario di Putin si è aggregato con entusiasmo a questa grande internazionale nazionalpopulista, i cui tratti comuni sono proprio il nazionalismo e gli impulsi autoritari e antidemocratici, ed è per questo che Putin è stato negli ultimi anni il grande promotore del nazionalpopulismo in Occidente: è stato lui a contribuire all’ascesa al potere del suo alleato e ammiratore Trump; è stato lui a intervenire in maniera rilevante nella campagna a favore della Brexit; è stato lui a finanziare Salvini, ad appoggiare i secessionisti catalani, ed è lui che intrattiene un eccellente rapporto con Le Pen e con Zemmour e che è culo e camicia con Orbán; Maduro e Ortega non hanno perso tempo per approvare l’invasione dell’Ucraina, così come è corsa a mostrare la propria comprensione per la Russia la Cina di Xi Jinping, la socia più potente di Putin e un’altra fondamentale beneficiaria dell’ondata nazionalpopulista.
Visto da questa prospettiva, quanto è accaduto in Ucraina acquista un significato diverso: l’invasione russa costituisce il primo confronto bellico su grande scala tra nazionalpopulismo e democrazia, i due grandi progetti politici che sembrano disputarsi il mondo nel nostro tempo.
Sarà anche l’ultimo? O questo è soltanto il prologo di ciò che si prospetta, così come, negli anni Trenta, la guerra civile spagnola fu il primo confronto bellico su grande scala tra democrazia e fascismo e anche il prologo della Seconda guerra mondiale?
Non bisogna essere allarmisti, ma neppure ingenui: questa non è soltanto una guerra tra l’Ucraina, una fragile democrazia, e la Russia, uno stato autoritario, ma anche una guerra europea tra democrazia e autoritarismo, e le guerre si sa come iniziano, ma non si sa mai come finiscono.
Volodymyr Zelenskyy, il presidente dell’Ucraina, ha ragione nella sua richiesta di aiuto all’Europa: o Putin viene fermato o la guerra busserà alle nostre porte. Tempo fa, forse avendo in mente la crisi del 1929, Felipe González vaticinò che dalla crisi del 2008 saremmo usciti con i voti e non con gli stivali militari; ora come ora non ne sono più così sicuro.
(Traduzione di Bruno Arpaia)