la Repubblica, 15 marzo 2022
Un Meridiano su Camillo Sbarbaro
Tornare oggi alla poesia di Camillo Sbarbaro è un’opportunità da non perdere. Per varie ragioni, a partire dall’impeccabile durata (anzi, dell’accrescersi del suo valore nel tempo) dell’opera, per la sua verità di umana, esistenziale testimonianza nell’arte della parola, pur nei suoi turbamenti e nelle sue interne contraddizioni.
L’intero cammino di Sbarbaro è ora proposto in un importante Meridiano a cura di Giampiero Costa e con un ampio saggio di Enrico Testa. Comprende opere pubblicate tra il 1911 ( Resine ) e il 1967 (anno della morte, a Savona, dell’autore, che era nato nel 1888 a Santa Margherita Ligure), con un’appendice di testi dispersi, apparsi su periodici o inediti. Si tratta, nel suo complesso e interno variare, di un’opera centrale rispetto a una normale esigenza umana, quella del proprio interrogarsi sul senso dell’esistere, che nella coerenza articolata dei versi e delle prose appare ininterrotta. L’autenticità evidente della parola di questo autore esprime un percorso, quello di colui che registra il proprio andare nel mondo, passeggiando «nell’arsura della via» e in modo spesso sonnambolico: «Io che come un sonnambulo cammino». Sbarbaro si propone dunque nel suo senso di sofferta ineludibile estraneità rispetto al mondo stesso, sentendosi colui che prova, al risveglio, «acuta ripugnanza a ritornare / in vita», soffrendo di un generale senso di vacuità, arrivando a dire: «Quando non soffro neppur vivo». In lui agisce in prevalenza una forma di pervasiva inquietudine esistenziale, espressa spesso nei tratti umili di un realismo anche sinistro, colto in situazioni e anonimi personaggi in cui si rispecchia, a volte anche con momenti di malinconica pace, quando magari «spunta il fiore tremante di un sorriso». Eccolo allora ammettere: «Io sono come uno specchio rassegnato / che riflette ogni cosa per la via. / In me stesso non guardo perché nulla / vi troverei...».
Non di meno lo muovono «oscuri desideri», quelli che lo portano a notturne frequentazioni di un povero mondo torbido, preso dai suoi trasalimenti sottili, nel sentimento di una insignificanza dolente dell’esserci. Ricordiamo allora le parole di Montale, a proposito dei primi Trucioli : «Tira in queste pagine un vento di malattia; ma calma, quasi sorridente, quasi compiaciuta di sé».
Di Montale è sempre peraltro bene ricordare la celebre immagine che ne diede in versi: «Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori / carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia / mobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori».
La sua opera, tra l’altro, si è affermata spesso su un territorio che è andato anche oltre la stessa grande poesia. Basti pensare all’influenza che ha avuto, per esempio, su un raffinato e colto autore di canzoni come Paolo Conte, che nei suoi testi ne ha felicemente sentito la presenza. E penso al suo vedere la Liguria in un pezzo come Genova per noi : «E intanto, nell’ombra dei loro armadi / Tengono lini, e vecchie lavande ». Cultore di letteratura francese, Sbarbaro ha ben presente il clima dello spleen baudelairiano e il nichilismo estetizzante di Huysmans (di cui tradusse À rebours ), e sul piano del linguaggio e dello stile si muove utilizzando endecasillabi sciolti di ascendenza leopardiana. Ma decisiva è la sua scelta di alternare componimenti in versi a testi in prosa, muovendosi in direzione ben diversa rispetto alla prosa d’arte, tenendosi distante da passaggi di timbro lirico e quindi differenziandosi da analoghe esperienze del tempo. Utilizzando in Trucioli (1920, poi 1948), come rileva Testa, «tipologie diverse di scrittura», con «escursioni verso il basso» e forme dialettali o vicine al dialetto. In Liquidazione (1928) troveremo tracce di una narrazione lirico- autobiografica con rievocazione anche del suo incontro con Dino Campana. E restando alla biografia, va ricordato che la sua fu un’esistenza senza eventi memorabili. Ebbe però notorietà internazionale come lichenologo: le sue raccolte di licheni furono esposte in numerosi musei. Insegnante, nel 1927 dovette abbandonare la carica di professore di greco e latino a Genova, dai Gesuiti, per non essersi iscritto al Fascio.
Importante, sottolinea Testa, l’idea in Sbarbaro di costruire quasi ogni volta un organismo poetico, e cioè un vero e proprio libro e non una semplice raccolta. Secondo una tendenza che nel Novecento si era giustamente imposta. E poi torna sui suoi testi a distanza di tempo per modificarli e non sempre con esiti propriamente persuasivi, come per Pianissimo, uscito nel 1914 e poi nel 1954. Significativo è poi il consenso testimoniato da alcune figure rilevanti della nostra poesia delle generazioni successive. A partire da Giorgio Caproni che lo inseriva nella «corrente ligustica», per passare a Pier Paolo Pasolini, che ne segnalava l’oscillare «tra aspirazione alla purezza dell’animo resa di fronte alla Perdizione», e a Giovanni Giudici, al suo positivo stupore di fronte a una «semplicità che dice cose tutte intere, senza civetteria di letteratura ». Le stesse chiare scelte tematiche confermano questi aspetti di un’identità poetica tanto autentica e complessa, quanto sostanzialmente lontana da ogni possibile artificio letterario. Ecco il tema del padre e del lutto per la perdita, o il tema amoroso, come nei Versi a Dina, dove, scriveva Pier Vincenzo Mengaldo, troviamo la «modulazione memoriale del tema amoroso, di una dolcezza insieme elegiaca e leggera... conservando gelosamente la propria voce spoglia».
Ma impensabile è tornare a Sbarbaro senza inoltrarsi di nuova nella sua Liguria, «scarsa lingua di terra che orla il mare». E allora eccoci, in Rimanenze, a quel dolcissimo capolavoro che è Voze, che sciacqui al sole la miseria, nel paesaggio e nelle sue umilissimi figure, nel riapparire di immagini della memoria e in quel mirabile finale: «Voze, soave nome che si scioglie / in bocca».