Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  marzo 15 Martedì calendario

Intervista alla moglie di Marco Biagi a vent’anni dall’uccisione


Restituire la giusta memoria alla figura di Marco Biagi. A 20 anni dalla sua vigliacca uccisione per mano delle Brigate Rosse il 19 marzo 2002, si avverte ancora la necessità di purificare il ricordo di questo giurista, isolato e contestato da una parte della sinistra e del sindacato, tanto in vita quanto da morto. Riconoscendone i meriti e riportando il dibattito sulle sue opere nell’alveo della normale dialettica politico-sociale, sottraendolo al campo delle cruente battaglie ideologiche sui temi del lavoro che tante vittime hanno prodotto nel nostro Paese. C ominciando dal «cancellare quel marchio d’infamia che lo descrive come il “padre del precariato”. Non è semplicemente sbagliato, ma profondamente falso, un ribaltamento della realtà per chi, come Marco, si spendeva affinché tutti avessero un lavoro regolare e maggiori tutele», spiega Marina Orlandi. La vedova del professore parla in un lungo colloquio con “Avvenire” nello studio che fu del professore, ancora ingombro delle sue carte. Colloquio di cui però chiede che rimanga riservata una buona parte: «Non voglio riaccendere polemiche e scontri, ma solo continuare a riproporre il pensiero limpido e fecondo di mio marito, come cerchiamo di fare ogni giorno con la Fondazione Marco Biagi», di cui lei è presidente. Q uali fossero le reali intenzioni e l’impegno quotidiano di questo giuslavorista, d’altro canto, lo testimoniano le sue stesse parole. In quello che è stato il suo testamento spirituale, affidato alla moglie Marina proprio alla vigilia del suo “martirio”. Il 18 marzo, «alla fine dell’ultima cena che abbiamo fatto insieme, ho atteso che i ragazzi andassero a vedere la tv nell’altra stanza e sono tornata alla carica con Marco per chiedergli di insistere affinché gli riassegnassero la scorta e sollecitargli maggiore prudenza, meno esposizione – racconta lei –. Mi rispose: “Che cosa devo fare? Devo lasciar perdere tutto proprio adesso che sono al posto giusto al momento giusto per fare qualcosa per le persone che sono in una posizione debole nella società? Per le donne come te – e tu sai che fatica è farsi strada e mantenere il lavoro quando si è donna e madre. Per i ragazzi come i nostri figli, che in questo mercato del lavoro in divenire non potranno avere la stessa occupazione per tutta la vita, come è stato per la nostra generazione. Fare qualcosa per le persone disabili, come (la nostra amica) S. che tanta fatica ha fatto per poter avere un lavoro. E per le persone come (il nostro amico) M. che hanno perso il posto a 40 anni e chissà se potranno ritrovarne uno a questa età». Non puoi credere, o forse non vuoi credere, che ciò che più temi possa accadere davvero. «E lui era così determinato ad andare avanti, sentiva che doveva farlo anche a costo di rischiare…». I l pericolo è chiaro da molto tempo. Dalla mattina del 20 maggio 1999 quando un altro giuslavorista, Massimo D’Antona, viene ucciso dalle Brigate Rosse. Un ritorno tanto sanguinario quanto inaspettato, questo della formazione terroristica, dopo un decennio in cui si pensava, si sperava quantomeno, che quel germe che tanti lutti aveva seminato nel Paese fosse stato sterilizzato. «Quella mattina anche Marco si trovava a Roma: era come D’Antona consulente dell’allora Ministro del Lavoro Antonio Bassolino. Gli chiesi di tornare subito a casa, ma mi rispose che non era possibile perché doveva completare il disegno riformatore elaborato da D’Antona e che doveva essere presentato due giorni dopo in conferenza stampa dal governo. L’unica cosa che ottenni fu che non si presentasse davanti ai giornalisti, che non si esponesse troppo». Ma il suo nome, la sua attività erano già sotto osservazione. Soprattutto da quando, l’anno successivo, fu il protagonista del cosiddetto “Patto per Milano”, un’innovativa concertazione tra istituzioni, sindacati e imprese per favorire l’occupazione. Per nulla gradita alle formazioni della sinistra antagonista che, nella rivendicazione di alcune bombe incendiarie depositate davanti alla sede Cisl di Milano, lo menzionano esplicitamente. Da quel momento Marco Biagi è un bersaglio. Inizialmente gli viene assegnata una parziale tutela di polizia, che poi però verrà inspiegabilmente attenuata nel 2001. Proprio mentre accetta di mettere la sua capacità progettuale a disposizione del nuovo esecutivo di centrodestra. Biagi, socialista e cattolico, viene chiamato dal ministro del Lavoro leghista Roberto Maroni insieme a un altro socialista, il sottosegretario Maurizio Sacconi, per modernizzare il mercato del lavoro proprio a partire dalle stesse idee che Biagi aveva iniziato a sperimentare coi governi Prodi e D’Alema, con Antonio Bassolino prima e l’amico Tiziano Treu poi. Ma la sinistra sindacale e politica vive questo passaggio, questa visione bipartisan dei rapporti politico-sociali, nient’altro che come un tradimento. Per Marco Biagi comincia un periodo di isolamento nell’ambito accademico e una pervicace contestazione, in particolare da parte della Cgil di Sergio Cofferati che, nonostante i pregressi buoni rapporti, ne contesta non solo le ricette, come sempre lecito e anzi utile, ma lo accusa personalmente di connivenza con gli industriali. «Fu per Marco un periodo di sofferenza enorme, per le accuse mossegli ingiustamente», si limita a dire Marina Orlandi, non volendo riaprire vecchie ferite. M a è in quei mesi che la vita di Marco Biagi diventa la “Cronaca di una morte annunciata”. Gli allarmi, anche dei servizi segreti, non mancano, l’identikit di un possibile bersaglio di attentati purtroppo gli calza a pennello. Eppure la scorta per lui non viene ripristinata e una lettera di sollecito del ministro Maroni, dopo giorni in cui la richiesta resta inevasa, viene firmata negli stessi minuti in cui le Br sparano. Sei colpi di pistola Makarov che stroncano la vita di Marco Biagi mentre si appresta a parcheggiare la bici e aprire il portone di casa in via Valdonica 14 a Bologna. È il giorno della festa del papà, di sopra lo attendono Francesco di 19 anni (che rientrando a casa incrocia gli assassini) e Lorenzo, di 13, che non vede l’ora di raccontargli della gita scolastica alla cui partenza proprio il padre l’ha accompagnato prima di andare in università. Marco Biagi muore, quella sera di quasi primavera, certo per la ferocia delle Brigate Rosse, ma anche perché il nostro Stato, lo Stato per cui lui lavorava come docente e come consulente, lo ha abbandonato: è solo e indifeso. I documenti rintracciati dopo l’arresto dei brigatisti colpevoli del delitto lo testimoniano chiaramente: «Biagi è un bersaglio possibile perché senza tutela». Se avesse avuto una protezione, il gruppo di fuoco troppo esiguo non avrebbe potuto affrontare le complesse dinamiche di una sparatoria. Ciò nonostante, il ministro degli Interni di allora, Claudio Scajola, si permetterà addirittura di descrivere Biagi come un “rompi… che mirava solo al rinnovo del contratto”. Ma «Marco
non riceveva alcun compenso per la sua consulenza al Ministero del Lavoro. Esisteva solo una scrittura per giustificare il rimborso delle spese di spostamento da Bologna a Roma», precisa la vedova, anche in questo caso senza voler aggiungere altro, se non un ricordo successivo. «A lcuni mesi dopo l’attentato, il nuovo Ministro degli Interni Beppe Pisanu volle cortesemente venire a casa nostra per parlare della questione della scorta. Si disse sconvolto perché appena nominato chiese di esaminare i documenti che riguardavano le minacce a mio marito. Mi disse che era un faldone alto 40 centimetri, zeppo di segnalazioni di pericolo immediato», racconta ancora Marina Orlandi. Eppure nulla fu fatto per proteggere il professore, perché? Semplice incapacità o negligenza? «Sicuramente un’enorme superficialità nei livelli più bassi di responsabilità.
Per quelli più alti preferisco non esprimermi. Dico solo una cosa: hanno buttato via la vita di Marco». Neppure le indagini e i procedimenti successivi al delitto resero giustizia di quelle inspiegabili e tragiche mancanze. «A sintesi di tutti gli atti investigativi interni, gli apparati di sicurezza dello Stato parlarono di un problema di semplice “distonia”». Per Marina Orlandi, fisiologa, impegnata all’Università di Bologna nella ricerca contro il cancro, suona come una malevole beffa quel termine che in medicina descrive “Una difficoltà motoria dovuta ad atteggiamenti posturali del tutto involontari dell’individuo”. Un’ennesima sottovalutazione della gravità di quanto accaduto sulla mancata scorta e un’auto-giustificazione per “involontarie” mancanze. «Ho atteso per anni delle scuse o almeno la semplice ammissione di aver sbagliato da parte di un magistrato di sorveglianza, di molti funzionari dello Stato che sottovalutarono il pericolo. Purtroppo non è mai avvenuto. Ma oggi, vent’anni dopo, non voglio insistere a fare nomi, a ricordare circostanze. Dovrei esporre il peggio di molte persone». P iuttosto, Marina Orlandi tiene a ricordare il “meglio” di molti altri: «La solidarietà di tante persone, dai presidenti della Repubblica Ciampi, Napolitano e Matta- rella all’affetto degli amici che mi sono stati accanto con gesti semplici come preparare le cotolette per i miei figli». Quei due ragazzi precipitati all’improvviso nella tragedia, sconvolti da quell’inspiegabile odio che avevano visto rivolto contro un padre presente, affettuoso, che la domenica apriva la sua casa ad amici, sacerdoti, persone in difficoltà. L’opposto della figura di un “nemico del popolo venduto ai padroni” che qualcuno gli aveva cucito addosso e che i terroristi avevano condannato a morte. Questi ultimi – individuati anche grazie al sacrificio dell’agente Emanuele Petri, ucciso nel conflitto a fuoco col brigatista Mario Galesi – sono stati infine condannati. «Il perdono è un atto personale, intimo e occorre fare molta attenzione a parlarne pubblicamente perché si rischia di banalizzare il male – spiega la vedova Biagi –. Io posso dire solo di non aver mai odiato questi assassini. Non perché sia buona, non è questo. Ma perché non potevo permettermelo, non potevo indirizzare le mie energie verso un sentimento sterile e maligno come l’odio verso altre persone. Volevo che i miei figli non vivessero nell’odio». V ent’anni dopo molti dei deficit, delle iniquità e dei ritardi del nostro mercato del lavoro descritti nel Libro Bianco elaborato da Marco Biagi sono ancora immutati. E oggi, ancor più che all’inizio di questo secolo, si avverte l’esigenza di tutelare i lavoratori e non i posti di lavoro, di rafforzare attraverso la formazione l’occupabilità delle persone, di garantirne più facili transizioni da un’occupazione all’altra, al di là di inquadramenti e forme contrattuali, di rendere effettive più che formali le tutele. Questo, tutto questo, e non il totem dei licenziamenti e dell’articolo 18 erano al centro delle proposte di Marco Biagi. Questi i pilastri del progetto di un nuovo “Statuto dei lavori”, conservato nel computer del professore nel file denominato “Marina”, a testimonianza di come lo ritenesse l’opera sua più preziosa.
«Può sembrare strano, ma quella sera del 19 marzo, mentre spiegavo a un maresciallo dei carabinieri che quella persona riversa a terra era mio marito e che ad ucciderlo erano state le Brigate Rosse, mi accorsi che c’erano dei giovani che mi guardavano attoniti – racconta Marina Orlandi –. Subito mi venne il pensiero che a quei ragazzi dovevo spiegare chi era Marco, che cosa facesse e pensai alla necessità di dar vita a una Fondazione». Quella “Fondazione Marco Biagi”, nata nel dicembre 2002 in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio Emilia, che promuove gli studi sul lavoro e porta avanti il pensiero riformatore del professore scomparso. C hi era allora Marco Biagi? Cosa deve tornare ad essere oggi per chi non l’ha conosciuto? La moglie Marina non ha dubbi: «Era un cavaliere che si batteva con la sua intelligenza per difendere i più deboli. E lo ha fatto a costo della vita». Vent’anni dopo è questa memoria che va restituita a Marco Biagi.

Per l’omicidio di Marco Biagi sono stati processati e condannati 6 appartenenti alle Brigate Rosse, oltre a Mario Galesi deceduto.

Mario Galesi

Esecutore materiale del delitto, morì nello scontro a fuoco con la polizia del 21 marzo 2003, in cui perse la vita l’agente Emanuele Petri e rimasero feriti Bruno Fortunato e Giovanni Di Fronzo.

Nadia Desdemona Lioce

Leader della formazione, fece parte del gruppo di fuoco che sparò al professore Biagi. È stata condannata all’ergastolo.

Roberto Morandi

Sposato e con figli, lavorava all’ospedale Careggi di Firenze.

Condannato all’ergastolo.

Marco Mezzasalma

Ingegnere alla Lital, ex delegato della Fiom. Condannato all’ergastolo.

Diana Blefari Melazzi

Lavorava come edicolante, pur provenendo da una famiglia nobile.

Condannata all’ergastolo, è morta suicida nel 2009.

Simone Boccaccini

Operaio al comune di Firenze. Condannato a 21 anni.

Cinzia Banelli

Sposata, radiologa all’Ospedale Santa Chiara di Pisa. Al momento dell’arresto era incinta. Divenne collaboratrice di giustizia e aiutò a decrittare i documenti delle Br.

Condannata a 12 anni per il delitto D’Antona e a 10 per quello Biagi, dal 2009 va agli arresti domiciliari in una località segreta con una nuova identità e un sussidio.