Corriere della Sera, 15 marzo 2022
La rivincita di Kirsten Dunst
Il miglior ritratto della nuova Kristen Dunst l’ha realizzato l’illustratore Ignasi Monreal per il New Yorker. Una sorta di foto di famiglia: si riconoscono tra le altre Maria Antonietta, ultima regina dell’ancien régime, Claudia, l’eterna bambina vampira, la Marie Jean Watson dei tre Spider-Man di Sam Rimi, Amy March, Peggy Blumquist di Fargo, Justine la sposa depressa di Melancholia (che le ha fruttato a oggi il premio più importante, miglior attrice a Cannes). Al centro, capelli sciolti e giacca nera, orgogliosa e pacificata, l’attrice che le ha interpretate tutte. A un passo dai quarant’anni (li compirà in aprile) può godersi la prima candidatura agli Oscar in trenta di carriera – il primo ruolo fu la figlia di Tom Hanks ne Il falò delle vanità. L’ha ottenuta per Il potere del cane di Jane Campion, titolo caldo della stagione dei premi 2022. In tandem con il marito Jesse Plemons. Nel western della regista neozelandese sono i coniugi Rose e George Burbank. Lei vedova con figlio adolescente a carico, lui fratello di buon cuore del cowboy represso e prepotente interpretato da Benedict Cumberbatch.
Un personaggio in cui, ha spiegato, ha messo molto di sé. «Non è un’eroina monodimensionale: è una donna forte per i tempi, che manda avanti da sola un mulino e un ristorante dopo il suicidio del marito alcolizzato, ma che si lascia sopraffare dalle angherie del cognato. Reagisce bevendo e inizia così a precipitare. Rose, con la sua vulnerabilità, mi spingeva a rielaborare alcune parti di me da giovane, parti che non mi appartengono più. Il trovarsi in una posizione di debolezza, per esempio, con qualcuno che cerca di controllarti. Oggi non temo di mostrare il mio dolore, anzi: i ruoli che più amo sono proprio quelli che rivelano le emozioni più difficili che dobbiamo “attraversare” nella vita». Non ha voluto nascondere neanche la gioia per la candidatura, condivisa sui suoi account. La notizia è arrivata mentre i due figlioletti guardavano i cartoni, seguita da quella della nomination del marito. «Mi metto a piangere, e i miei bambini mi guardano chiedendosi cosa mi sia preso».
Comunque vada, ha fatto sapere, è già stato un successo. Perché ha il sapore, dolce, di una rivincita. Per una quindicina d’anni è stata la numero uno, il nome più ricercato dai registi. Brian De Palma, Neil Jordan, Cameron Crowe, Raimi, Michel Gondry, l’incontro, al tempo de Le vergini suicide con Sofia Coppola che la elegge sua musa e la porta fino a Versailles per cucirle addosso gli eccessi della regina e gli abiti di Milena Canonero. L’incanto, lo ha raccontato lei stessa, si interrompe a 27 anni. La recitazione non l’appassiona più. «Continuavo a farlo più per gli altri che per me». La crisi, la curiosità morbosa della stampa che la dipinge in preda a droga e alcol. Era depressione, ha raccontato lei con coraggio, tra le prime a usare le parole per dirlo. E a spiegare quanto abbia contato l’incontro con Plemons, conosciuto, sul set di Fargo, dove lei ha dato vita e cuore a Peggy Blumquist, la sublime parrucchiera del Minnesota decisa a dare una svolta alla propria vita.
Per i due – che al contrario di altre coppie del cinema si tengono lontano da Hollywood e hanno messo su casa a Austin, in Texas – condividere il set di Jane Campion è già stato una medaglia. La regista aveva cercato Dunst nel suo momento d’oro, vent’anni fa. La voleva per un progetto poi rimasto sulla carta, l’adattamento di uno dei racconti di In fuga di Alice Munro. Per Il potere del cane non è servito il provino. «Mi ha detto che le era bastato vedere cosa avevo fatto in Melancholia. Io per lei avrei fatto qualunque cosa». Prossima tappa, Civil War di Alex Garland, altro regista fuori dagli schemi. «Me la spasso come non accadeva da quando avevo vent’anni, amo la recitazione più che mai perché mi sono liberata dalla paura del giudizio: sia quel che sia».