la Repubblica, 14 marzo 2022
Nona Faustine, l’artista nuda contro il potere bianco
Che l’arte, spesso, sia precorritrice dei tempi che corrono, è un’evidenza impossibile da nascondere. La storia di Nona Faustine ne è un esempio lampante. Classe 1977, nata e cresciuta a Brooklyn, professione fotografa. L’amore per l’immagine, in realtà, lo scopre da bambina. Suo padre era un fotografo dilettante, così come lo zio, ovvero colui che le mise in mano la prima macchina fotografica. Da ragazza si appassiona ai reportage di Time e Life, quindi si innamora di Diane Arbus, Richard Avedon e di Ernst Haas. Si approccia alla fotografia documentarista per poi, pian piano, avvicinarsi a un tipo di lavoro più concettuale finché, come compito di fine anno all’International Center of Photography di New York, dove studia, non le viene l’idea di trattare il tema del razzismo sistematico nel suo Paese. «Che il razzismo rappresenti ancora un problema, e pure grosso, negli Stati Uniti, è evidente. Anche dopo aver avuto Obama come presidente, ovvio. Quella del presidente nero che fa la rivoluzione è una storiella che si racconta in giro per sentirsi a posto con la coscienza, ma i neri uccisi dalla polizia sono il chiaro esempio che la realtà è ben diversa» dichiara la fotografa.
Sono trascorsi dieci anni da quel giorno, ovvero da quando Faustine ha scattato la prima fotografia di White Shoes, una serie che, in anticipo sui tempi, ha affrontato tematiche che sono giunte alla ribalta soltanto di recente. Certo, il movimento Black Lives Matter è nato nel 2013, non l’altro ieri, e non è un mistero che il razzismo sistematico rappresenti un serio problema negli Stati Uniti se, sempre parlando d’arte e di artisti, negli anni Ottanta, Jean-Michel Basquiat dichiarò di sentirsi triste benché, all’apice del suo successo mondiale, non riuscisse a fermare un taxi all’uscita di un locale. Quando Nona ha iniziato a lavorare mentalmente al suo progetto, è stata influenzata dal lavoro di Lorna Simpson e di Carrie Mae Weems. Si è messa a studiare la storia della schiavitù di New York e l’uso del corpo nella fotografia. Si è resa conto, facendo le dovute ricerche, che, per far sì che la gente si accorgesse di ciò che aveva intenzione di dire, avrebbe dovuto rompere gli schemi, perciò ha pensato di spogliarsi nei luoghi simbolo del razzismo americano con, addosso, soltanto un paio di scarpe bianche. «Rappresentano il patriarcato bianco dal quale non si può sfuggire» spiega, «ero terrorizzata dall’idea di spogliarmi in pubblico ma la nudità è un segno di protesta verso i modi in cui gli schiavi venivano mostrati e venduti al pubblico. È come se, negli scatti, il mio corpo fosse diventato memoria ». Nel corso di questi anni, Faustine si è messa nuda dinanzi la Corte Suprema americana, sulla storica scalinata del tribunale di Chambers Street, nel Giardino Botanico di Brooklyn, nel cuore di Chinatown e finanche a Wall Street, nello scatto, forse, più importante – sicuramente il più emblematico – dell’intero progetto. Oltre a essere conosciuta per essere la sede della Borsa di New York, la strada è il simbolo della corsa spietata al denaro: film come The Wolf of Wall Street di Scorsese e libri come American Psycho di Bret Easton Ellis hanno contribuito a renderla celebre in tutto il mondo. Non tutti sanno, però, che dal 1711 al 1762, Wall Street fu sede del mercato dove si compravano schiavi africani e nativi americani. «Volevo fotografare i siti della storia della città dove i miei antenati africani, ridotti in schiavitù, hanno vissuto, sono morti e sono stati sepolti. A volte mi ha aiutato mia sorella, l’ho usata come assistente. Componevo l’immagine attorno a lei con un treppiede e poi mi fotografavo» racconta la fotografa. «Se ho avuto paura di essere arrestata? No. E neanche di avere problemi coi passanti. A New York a nessuno importa ciò che fai, a meno che non gli stai dando noia».
Dopo aver scattato le prime fotografie, Faustine decide di non condividerle immediatamente coi suoi professori né coi compagni di classe. «Alcuni dei miei insegnanti non capivano davvero cosa stessi cercando di fare. A parte Pradeep Dalal: lui è stato un sostenitore della prima ora». Oggi, dieci anni dopo il primo scatto, il suo lavoro è diventato un libro. Si intitola White Shoes, per l’appunto, e l’ha pubblicato Mack. Dopo un talk d’artista al Brooklyn Museum di febbraio, ad aprile la Galleria Nazionale d’Arte di Washington le dedicherà una retrospettiva e, subito dopo, il suo lavoro si sposterà alla Biennale di Dakar.
«In America la schiavitù rappresenta il tessuto, le fondamenta, uno degli elementi costitutivi della nazione. Il nostro successo come potenza economica è dovuto proprio alla schiavitù» spiega Faustine. «Sentirselo dire, lo so, non è bello, ma le parole schiavitù, razzismo e America vanno di pari passo. Non possiamo guarire finché non diventiamo onesti con noi stessi. Dobbiamo comprendere che la radice dei nostri problemi inizia proprio lì. È una battaglia, questa, portata avanti dagli afroamericani ma c’è ancora molta vergogna e negazione e l’arte, certo, aiuta. Sono sempre stata dell’idea che gli artisti possano fare tutto quello che vogliono. Perché no?», ci domanda la fotografa di Brooklyn. «La maggior parte dell’arte esposta nei musei è politica. Se uno pensa che non lo sia, significa che non la sta guardando a fondo. Gli artisti ci sfidano e ci fanno capire i tempi in cui viviamo, pongono domande difficili e rendono luminosi gli spazi bui. È come se rendessero visibile l’invisibile».
La proteste per l’omicidio di George Floyd del 2020 e l’onda di rabbia (e solidarietà) che hanno investito il mondo intero, non hanno fatto altro che confermare l’importanza del suo lavoro. «Le cose stanno cambiando, certo, ma non sono stati solo questi due anni a fare la differenza» conclude la fotografa. «Negli ultimi decenni attivisti, artisti, studiosi e leader politici hanno cercato di convincere la popolazione ad affrontare i veri problemi del razzismo istituzionale sistemico. Abbiamo solo iniziato a parlarne e non importa quanto lento e doloroso sarà questo processo. Io i cambiamenti li vedo, e voglio rimanere fiduciosa».
“Scelgo di essere senza veli in segno di protesta verso i modi in cui gli schiavi venivano mostrati e venduti” “Quello che è esposto nei musei è politica Se uno pensa che non lo sia, significa che non sta guardando a fondo” White Shoes è la serie di scatti che Nona Faustine ha raccolto in dieci anni, ritraendosi in luoghi simbolo indossando solo scarpe bianche.