la Repubblica, 14 marzo 2022
Un anno di Enrico Letta segretario del Pd
Accadde oggi. Era esattamente il 14 marzo di un anno fa quando il Partito democratico – dilaniato dalla lotta fra correnti, impantanato nella diatriba sull’alleanza con i Cinquestelle, traumatizzato dalle dimissioni improvvise di Nicola Zingaretti – eleggeva a stragrande maggioranza Enrico Letta segretario nazionale. L’ex premier pescato dopo sette anni di esilio parigino per tentare di salvare la principale forza di centrosinistra precipitata sulla soglia dell’implosione dopo il fallimento del Conte2, l’arrivo di Mario Draghi e il varo del governo di unità nazionale. Che il Nazareno aveva patito. Perdendo pure consenso.
Da allora molto è cambiato. Il nuovo corso, tratteggiato sin dal discorso di investitura, ha fatto emergere un Letta diverso dal temporeggiatore conosciuto fin lì. «Non è più lui», si sorpresero in tanti. «Ho imparato », prese a ripetere il segretario, citando il titolo di uno dei suoi libri. Meno incline alla mediazione e più intransigente, deciso a costruire una coalizione larga e vincente con tutti dentro (da Fratoianni a Renzi) trainata dai Dem e con il M5S a far da junior partner: il ribaltamento dell’ottica che voleva Giuseppe Conte «punto di riferimento fortissimo dei progressisti» e inevitabile candidato premier. Nel 2023 toccherà al leader del partito più forte. Basta andare a esclusione.
«Un anno dopo posso dire che sono contento della scelta fatta e sono carico di speranza per il nostro futuro comune», ha detto ieri Letta alla conferenza programmatica di Europa verde. Certo, la metamorfosi del Pd – che è la sua priorità – non è ancora completa, ma lui è convinto di essere sulla strada giusta. Di averlo pacificato. Quindi trasformato in una forza progressista nei valori (diritti civili e contrasto alle diseguaglianze), riformista nel metodo (fedeltà a Draghi e al suo programma), radicale nei comportamenti (vedi la barra dritta tenuta sul Quirinale e sull’invasione russa in Ucraina, culminata nella piazza unitaria di Firenze). Anche a costo di strappi, se necessario, con poche concessioni ai signori delle correnti: è così che ha ottenuto il turnover dei capigruppo in Parlamento, imponendo due donne. Così sta rinnovando, attraverso i congressi, la classe dirigente locale.
L’ha senz’altro assistito la fortuna, alimentata dai pasticci degli avversari. L’infilata di trionfi alle amministrative e alle suppletive – con la reconquista di Roma, Torino e Napoli, oltre alla conferma di Milano e Bologna – ha offerto l’abbrivio per scalare i sondaggi e piazzarsi stabilmente in cima alla classifica, più di 4 punti guadagnati in un anno, mentre Salvini è sceso di cinque. La sintonia con il presidente del Consiglio gli ha consentito di portare a casa alcuni risultati, a iniziare dalla clausola di premialità per giovani e donne nei progetti del Pnrr, a cui Letta tiene tanto. Non che siano mancati gli inciampi. Ancora brucia la sconfitta sul Ddl Zan, affossato in Senato. Il confronto con Draghi non è privo di ruvidezze. Resta irrisolto il rapporto coi 5S, la cui caduta libera è fonte di preoccupazione: alleati nella competizione è una bella formula, quasi impossibile però da declinare. Il campo largo sembra la Sagrada Familia, un cantiere infinito sul punto di saltare a ogni appuntamento elettorale. Le candidature in alto mare per le comunali di maggio stanno lì a dimostrarlo. L’ultimo test prima delle Politiche. La partita della vita per il segretario. Se vince, avrà vinto tutto: Palazzo Chigi e la guida del Pd per gli anni a venire. Se perde, sarà tutta un’altra storia.