La Stampa, 14 marzo 2022
Intervista alla sprinter azzurra Zaynab Dosso
Zaynab Dosso ha dato uno sprint pure al suo nome: Za che suona come un taglio e in realtà è un concentrato di vita perché la donna più veloce di Italia non si lascia dietro niente. Più la sua storia si carica e più lei scatta, fino a un primato nazionale (7"16) che non veniva migliorato dal 1983 e cambia proprio in zona Mondiali indoor. Da venerdì a domenica l’atletica italiana torna alle sfide importanti dopo i successi olimpici e aggiunge un nome alla lista degli azzurri da guardare. Zaynab significa saggezza in arabo anche se lei si definisce «casinista, caotica. Dove c’è rumore ci sono io».
Si è trasferita da Rubiera a Roma per vivere in una città meno ordinata?
«L’ho fatto per l’atletica e la città mi restituisce la vivacità delle persone. Qui mi sento in sintonia con i miei ricordi africani».
Che ricordi ha della Costa d’Avorio dove è nata?
«Freschi, sono arrivata in Italia a 9 anni, perciò ho ben in mente la mia infanzia. Vivevo in una famiglia allargata, i miei nonni sono poligami, un sacco di mogli e un sacco di conoscenze. Una quotidianità movimentata».
Quanto è cambiata la quotidianità all’arrivo in Italia?
«Radicalmente. All’inizio è stato un trauma emotivo. Il silenzio, la calma, la casa vuota. Al primo giorno di scuola ho chiesto a mia madre di mettermi le perline nei capelli, perché così facevamo quando si incontravano persone nuove. Nessun altro aveva le perline e tutti mi toccavano la testa. Mi sono sentita in imbarazzo e rientrata a casa ho detto: mai più perline».
Però i capelli sono rimasti un modo di mostrare il suo umore.
«Sì, cambiano spesso. Ho fatto le treccine. Sono stati tutti rossi quando ho avuto voglia di essere esuberante... Fanno parte di un progetto a lungo termine: un salone di bellezza per trattare le capigliature afro perché in Italia non sapete ancora come pettinare le nostre teste».
Quando ha capito di essere veloce?
«Subito. Alle medie mi hanno messo a gareggiare con i maschi. E li ho battuti».
Come hanno reagito?
«"Non vale, tu vieni dall’Africa e lì correte di più". Ma senza cattiveria e con i complimenti».
Gli africani corrono più veloci?
«Non credo proprio».
Dopo aver battuto i maschi che cosa è successo?
«Ho vinto gli studenteschi dopo due sole settimane di allenamento e sono andata avanti. Solo che per tutte le giovanili i miei tempi restavano nascosti, non avevo la cittadinanza quindi non facevano statistica».
Ricorda il giorno in cui è diventata italiana?
«È stata musica. L’ho saputo a scuola e volevo ballare, cantare, non potevo stare ferma. Impazzita. Mio padre ha avuto il passaporto mentre ero ancora minorenne, ho avuto fortuna. Capisco che ci voglia un percorso, però trovo assurdo che chi è nato qui o ha fatto tutto il percorso scolastico qui debba aspettare all’infinito. Ora sembra che qualcosa cambi, ma l’abbiamo sentito tante volte».
A che punto è l’integrazione in Italia?
«A buon punto, almeno per la mia generazione. I più grandi fanno fatica, sono abituati a un altro mondo e qualcuno ci si aggrappa».
Il suo idolo?
«Serena Williams: la grinta, il modo di fare, le cose che dice, come si veste. Ogni dettaglio».
Perché quest’anno all’improvviso si è scoperta competitiva?
«Nelle ultime quattro stagioni è stato tutto un infortunio e una ripresa. E da capo. A Belgrado ci arrivo convinta, ho fatto un gran lavoro e a un certo punto uscirà tutto nella gara giusta, spero sia quella ai Mondiali indoor e lì c’è da andare, il traguardo della finale è impegnativo. Girano certe schegge, come la polacca Swoboda».
Vedere Jacobs vincere i 100 metri alle Olimpiadi ha cambiato qualcosa?
«Sicuro, più ancora vedere la staffetta: lì ho capito che sognare non è affatto inutile».
Musulmana praticante?
«Sì, pure se non prego cinque volte al giorno. Di solito non riesco a seguire il ramadan, l’ho fatto nel 2020 mentre era tutto fermo per il Covid e mi ha riconnesse alla mia religione, mi sono riscoperta».
Tre tatuaggi in attesa del quarto con i cerchi olimpici.
«L’elefante della Costa d’Avorio che significa perseveranza, i fiori che sbocciano come sto facendo io e sulle spalle la scritta "blessed", benedetta».
Rubiera è anche la città di Baldini, un oro olimpico.
«Praticamente un vicino di casa. Lui lì è il re ed è giusto che sia così. Dici il suo nome e la gente si blocca. Mi ha aiutato a trovare il primo sponsor, all’inizio».
Rubiera è anche una canzone di Ligabue.
«Non il mio genere, io vado dall’r’n’b all’afrobeat, prima delle gare alzo il volume. Mi ricordo sempre un po’ del giorno in cui la musica nella mia testa è partita da sola, quando sono diventata italiana».