La Stampa, 14 marzo 2022
Magistrati & giornalisti, un libro di Bruti Liberati
«È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente!». La mitica telefonata di Humphrey Bogart al cattivo di turno che vorrebbe impedire la pubblicazione di uno scandalo, finale del film L’ultima minaccia di Richard Brooks, è il paradigma di come l’informazione vorrebbe essere: una bandiera di libertà e giustizia. Ma nei fatti, giustizia e comunicazione, pur obbligati spesso alla più forzata delle convivenze, appaiono talvolta estremi inconciliabili, in antitesi persino sulla Carta costituzionale, dove la tutela la dignità della persona (art. 3) configge facilmente con il diritto di cronaca e la libertà di parola (art. 21). Nel labirintico tentativo che da sempre giuristi e specialisti percorrono per tenere insieme i due diritti fondamentali di ogni democrazia, s’inserisce il nuovo libro dell’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati che analizza il rapporto tra informazione e giustizia cercando il difficile equilibrio tra i due principi costituzionali e ripercorrendo le regole che andrebbero seguite da entrambe le parti.
Delitti in prima pagina (Raffaello Cortina Editore), cerca di individuare – andando a ritroso nel tempo nelle vicende che hanno appassionato l’opinione pubblica fino alla descrizione del primo delitto della storia, quello di Caino che uccide Abele – un possibile punto di equilibrio che restituisca, da una parte, quella «fiducia nella giustizia», che è cosa ben diversa dalla ricerca del consenso nell’opinione pubblica; dall’altra, una piena libertà d’informazione che non si esaurisca nella semplice diffusione di atti giudiziari (per altro non sempre ostensibili) ma eserciti una funzione di controllo e di critica sull’operato della giustizia, avvocatura compresa.Perché, come nota Liberati, «nella società dell’informazione la giustizia non può sfuggire al dovere di comunicare e i giudici devono confrontarsi con le critiche che vengono mosse alle loro decisioni». Il libro ha il merito di non nascondere nulla delle storture che caratterizzano il connubio spesso insano tra informazione e giustizia: dal protagonismo dei magistrati, che finisce per alimentare, persino nel campo dell’antimafia, il populismo giudiziario; all’inseguimento dell’audience e dello share, o dello scoop a tutti i costi dei giornalisti che trasforma in sensazionalismo qualsiasi notizia arrivi dai palazzi di giustizia. Per lasciare spazio a una comunicazione spesso “urlata” che impedisce ogni serio approfondimento sui casi di cronaca giudiziaria, e stritola i diritti degli individui, colpevoli o innocenti che siano.
Giustamente, fa notare Liberati, la pubblicità dei processi è garanzia contro gli abusi e consente il controllo sull’esercizio di un potere. Peccato però che dei processi ci si occupi pochissimo. Anche perché, proprio grazie alla riforma del codice nel 1989 con l’introduzione dei riti abbreviati, sono ormai rari i dibattimenti che valga la pena seguire e che raccontino in pubblico ciò che ancora non era emerso dalle inchieste. Per altro l’ultima riforma Cartabia, che in tema di comunicazione recepisce una direttiva europea attribuendo ai soli procuratori la gestione delle comunicazioni alla stampa, apre la strada, nonostante le buone intenzioni (sulla moderazione del linguaggio, ad esempio), a una chiusura completa delle Procure e dunque a un ritorno, assai poco auspicabile, di una gestione opaca delle notizie: che per quanti sforzi si facciano, finiranno sempre per circolare ma con minore trasparenza. Anziché gestire questo flusso, per esempio con un deposito degli atti che contempli anche un diritto dei giornalisti al loro controllo (venendo meno un’esigenza di segreto istruttorio), si è preferito attribuire ai procuratori l’arbitrio di poter decidere cosa sia o non sia «di pubblico interesse», delegando a degli sterili comunicati stampa notizie che per la loro complessità meriterebbero ben altra attenzione.
Anche Liberati nota come «la pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme vana e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica». Fermo restando che per giornalisti l’unico obbligo imposto dovrebbe essere quello deontologico e la loro stella polare il rispetto della dignità della persona. Se nell’ordine delle cose, per una sana società democratica, è il “quarto potere” a dover controllare l’attività del “terzo potere”, nell’ordine degli equilibri tra i diritti, di cronaca e di dignità della persona, sono le circostanze a dettare i tempi e l’umanità a tutelare le persone cercando di non confondere “l’errante” con “l’errore”.
Non è un caso che il libro si concluda con le parole del Cardinal Martini: «Il mio giudizio non potrà mai toccare o svelare l’intimo dell’altro e devo sempre esprimergli una riserva d’innocenza, di buona coscienza».