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 2022  marzo 14 Lunedì calendario

Finché c’è guerra c’è business

Olà, eccoli! Mentre i tonfi plumbei delle bombe scandiscono i giorni di guerra, dopo i mercenari, sono arrivati anche loro, inevitabili come gli sciacalli quando si sente l’odore di morte: i pescecani, i profittatori, gli speculatori del rincaro, il conflitto li ha messi in calore. È il vasto fronte che fa fortune troppo colossali per essere oneste mentre gli altri, i poveracci, i profughi, i soldati, si fanno ammazzare per quattro rubli.
Attorno al pericoloso conflitto che inaugura il terzo millennio fioriscono gioiosamente le mercature più o meno lecite, si attivano affaroni a misura di coscienze a bassissima tensione. Avventurieri e imbroglioni esistono in tutti i tempi, già se ne lamentava Aristofane nella guerra del Peloponneso. La prima guerra mondiale ne fece, nel giustificato rancore dei sopravvissuti, quasi una classe sociale. Ma le dimensioni di questa guerra rischiano di farne una istituzione economica, una nuova voce scoppiettante dell’universo del libero mercato.
Mercanti d’armi e venditori di petrolio, gas e granaglie che agiscono a viso aperto, ma anche violatori di embarghi attenti al loro particolare, perspicaci nell’evitare i rischi del lucro cessante, oligarchie mafiose (a proposito come funziona in questo periodo il fatturato di quelle ucraine e russe? Temo benissimo) meglio strutturate che lo zaretto del Cremlino e consigli di amministrazioni in giacca e cravatta, emirucci e caudillos petroliferi, governi ingordi e refrattari alla democrazia almeno quanto l’aggressore russo: tutta gentaglia che non si è mai vergognata di sfruttare la guerra nè sanno cosa significhi sentirsi colpevoli e chiedersi chi nel conflitto abbia ragione o torto. Hanno l’io ingordo, gonfio, refrattario alla morale.
L’economia di guerra, la penuria, il razionamento la sognano; la paura funziona benissimo quando hai qualcosa da vendere, farina, gas, proiettili. la penuria e l’accaparramento e i suoi affari sono la fase suprema del capitalismo! Non ci sono più guadagni impossibili perché troppo immorali.
Deo gratias, siamo in guerra. E questa non è una di quelle periferiche in cui si possono portare a conclusione piccoli affari mentre il mondo continua a girare allo stesso ritmo: lì soldi pochi, bande più che eserciti, tanti profughi ma sui fuggiaschi non si possono lucrare i milioni. Questa è una guerra mondiale, anzi di più globale. Una chioccia colossale che cova le sue uova nel centro dell’Europa: prognosi perfetta per il pescecane, ne accende le midolla, c’è da nuotarci dentro sgorgando estri affaristici e sfruttando occasioni. Addirittura si rischia di passare non per avventuriero epilettoide dell’illecito profitto ma come patriota, benefattore della giusta causa.
Forse non ce ne accorgiamo ma stiamo riempiendo le sacocce di alcuni dei governi più deprecabili del pianeta. Bisogna sostituire il gas e il petrolio russo insanguinato dalla aggressione alla Ucraina. In fretta, anzi subito. Non si guarda tanto per il sottile e purtroppo, ammettiamolo, democrazia, tolleranza e buongoverno non vanno quasi mai d’accordo con questi preziosi prodotti. Ma il tempo stringe, i prezzi salgono, il Pil dei ricchi del pianeta ribarcolla.
Allora ecco che Maduro, un caudillo pittoresco e a cui forse nemmeno il dittatore nordcoreano offrirebbe asilo, passa dalle sanzioni alle telefonate riguardose del presidente americano Biden. Non è il solo che in questi giorni ha l’anticamera piena di ministri degli esteri indaffarati a cercare contratti, forniture da far scoppiare gli oleodotti e affondare le petroliere. L’Algeria per esempio: regime accudito da una mafia affaristico militare che tiene ben custoditi in galera giornalisti e oppositori che hanno cercato di innescare pacificamente una timida primavera algerina. Regime due volte odioso perché mescola impudentemente corruzione e repressione, che la primavera la abolirebbe per non far venire tentazioni. Con il sovrappiù di gas rimetterà a posto i conti saccheggiati dall’avidità degli incontentabili manutengoli del potere.
E poi ci sono i reucci del medio oriente, autocrati da operetta se non fossero gonfi di petrolio regalato da Allah. Tipini pericolosi perché con le rendite del gruzzolo si danno arie da potenza militare, bombardano ospedali e scolaresche dello Yemen con lo stesso stile omicida dei russi in Ucraina. Difficile però che in queste emergenze nei rifornimenti qualche benemerito del diritto internazionale cominci ad accumulare istruttorie per future Norimberghe: per favore, aumentate la produzione, abbiamo bisogno...
Loro fanno i preziosi, si negano anche agli americani, bisogna approfittare del momento, si possono strappare indulgenze e complicità, oltre che un fatturato che fino a ieri rischiava a poco a poco di illanguidirsi per queste manie «green» occidentali e che alla lunga poteva regredirli da milionari dell’oro nero a allevatori di dromedari.
E qui veniamo al businnes più lucroso e sudicio: le armi. Si è appena conclusa, il 9 marzo, in Arabia saudita, che combinazione!, la prima edizione di una faraonica fiera dell’armamentario bellico, il World Defense Show, un’altra idea modernista e civilizzatrice di un nostro fedele amico, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, che officiava patriarcalmente l’evento. C’erano gli stand di seicento aziende di 42 paesi, pubbliche e private, i giganti e i piccoli, americani, brasiliani, cinesi, coreani, francesi spagnoli e, molto ammirato, il made in Italy. Tra i più interessanti in questo laboratorio di costosi incanti mortiferi i prodotti russi e ucraini, che sono abituali protagonisti di questo non lodevole mercato. La guerra, vera, ha offerto agli intenditori insperate proficue occasioni di verifica sul campo del livello letale dei loro prodotti esposti nella vetrina saudita.
Il momento è buono, la richiesta cresce, le catene di montaggio cigolano. Mentre i pacifisti nella loro tenace santità sfilano contro la guerra tutto il mondo si sta armando freneticamente con aberrazione materialistica, è preso dal furore di riempire e aggiornare gli arsenali.