Il Messaggero, 14 marzo 2022
I dottori giapponesi e quei pazienti fastidiosi che posso essere rifiutati
Lo scorso 17 dicembre, in una clinica psichiatrica privata di Osaka, un paziente ha preparato una rudimentale bomba molotov e dopo averla custodita nel suo armadietto privato per oltre un mese l’ha improvvisamente lanciata nel corridoio, durante la distribuzione dei pasti, uccidendo sul colpo un medico e provocando poi la morte di altre 25 persone, tra pazienti e personale sanitario, a causa dell’incendio sviluppatosi all’interno dell’edificio. Lo scorso 19 gennaio, nella città di Fujimino (provincia di Saitama, nordest di Tokyo) un altro medico è stato ucciso difronte ai pazienti in attesa di essere visitati. L’assassino, cui più volte era stato rifiutato il ricovero, ha tenuto in ostaggio decine di persone per 12 ore, prima di arrendersi alla polizia. «Sono figlio unico, mia madre è morta qualche mese fa e ho cominciato ad essere depresso pare abbia dichiarato alla polizia -. Ho provato più volte a suicidarmi. Poi mi ero deciso a chiedere aiuto in ospedale. Ma questo medico si è rifiutato di ricoverarmi, e persino di curarmi. Mi ha detto: sei solo depresso, trova qualche cosa da fare. Ci ho pensato un po’ su, poi ho deciso di ucciderlo».
Non sono casi isolati. Fare il medico, in Giappone, è diventato pericoloso. Oltre alle sempre più numerose cause per danni (fenomeno che in Giappone, paese tradizionalmente a bassissimo tasso di litigiosità giudiziaria, è visibilmente aumentato negli ultimi anni) si rischia di essere insultati, aggrediti, uccisi. O morire di karoshi, la morte per superlavoro: in media il personale sanitario accumula oltre 100 ore di straordinari al mese, alcuni arrivano a 200. Secondo le nuove disposizioni del governo, preoccupato per l’aumento dei casi di karoshi (e degli indennizzi sempre più sostanziosi che la magistratura ha iniziato a riconoscere) il limite massimo è di 80 ore. Se un lavoratore muore per patologie cardiocircolatorie e il mese prima aveva accumulato più di 80 ore di straordinari, la causa presunta è appunto il karoshi e la famiglia ha diritto, oltre al risarcimento da parte dell’azienda (che in genere preferisce patteggiare extragiudizialmente per evitare pubblicità negativa) ad un indennizzo statale pari a circa un milione di euro.
Non solo: a conferma della trincea in cui sono finiti gli appartenenti ad una delle tradizionali seisshoku (professioni sacre) tra il personale sanitario il tasso di suicidi, il cui numero negli ultimi due anni è di nuovo in aumento dopo essere stato in calo costante nei precedenti dieci anni, è il più alto tra tutte le categorie professionali. Una situazione che di recente è stata denunciata dall’Associazione Nazionale Medici che oltre ai dati sugli incidenti avvenuti all’interno delle varie strutture ospedaliere (in Giappone il sistema sanitario è organizzato più o meno come in Italia, con il settore pubblico integrato a quello privato e assicurazione medica garantita a tutti i cittadini, dietro pagamento di un ticket proporzionato al reddito), in pericoloso aumento (102 incendi, uno su tre di origine dolosa), fornisce il risultato di un sondaggio svolto tra 2500 medici associati. Dal quale risulta che oltre la metà, circa il 55%, hanno subìto, nella loro carriera, uno o più atti di intimidazione, minaccia, aggressione da parte di pazienti a vario titolo insoddisfatti, o dei loro familiari. «Si tratta solo della punta di un iceberg ha spiegato il presidente dell’associazione, Yasuhiko Onai perché la maggior parte dei medici, e degli ospedali per cui lavorano, tendono a nascondere questi episodi, tacitando i pazienti con denaro in cambio di un impegno a non ricorrere in tribunale».
Ovviamente, c’è anche l’altro lato della medaglia. Il progressivo decadimento dell’assistenza sanitaria, divenuta anche in questo caso con molte similitudini con l’Italia sempre più scadente e costosa. «Il numero dei medici in Giappone, soprattutto nelle grandi città, tende a scarseggiare e tutti gli ospedali, sia pubblici che privati, impongono orari di lavoro massacranti spiega un giovane medico italiano, l’unico ad aver sostenuto e superato l’esame di ammissione alla professione inoltre, i tempi per le visite ai pazienti, accertamenti diagnostici e prescrizioni dei farmaci sono rigorosamente regolati. Spesso ai pazienti questo non sta bene e molti si ribellano, in vario modo».
Nonostante l’assistenza sanitaria sia un diritto costituzionale e gli ospedali non possano rifiutarsi di prestare le cure, negli ultimi tempi sono apparsi dei cartelli in cui si elencano le condizioni in cui l’assistenza può essere rifiutata. Oltre all’atteggiamento minaccioso, violento e rumoroso (eufemismo locale per definire chi dà in escandescenze) c’è la categoria dei mendokusai. Pazienti fastidiosi, che fanno troppe domande, insistono per effettuare accertamenti diagnostici o ottenere medicine che non sono ritenute necessarie dai medici curanti. «Nel manuale che ci viene dato per gestire le varie situazioni spiega il medico sopracitato ci sono istruzioni precise: i pazienti mendokusai debbono essere in qualche modo sbolognati: dirottati cioè verso ospedali più grandi, dove c’è maggiore attenzione alla sicurezza e dove c’è lo staff legale interno che può intervenire sul nascere in caso di situazione delicate».