il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2022
Un altro ritratto di Giangiacomo Feltrinelli
“Il tuo papi in questa battaglia, in questa lotta, c’è dentro fino al collo”. Il 29 gennaio 1970, due anni prima della sua assurda morte, Giangiacomo Feltrinelli scrive al figlio Carlo per spiegargli come mai non potrà festeggiare con lui il suo ottavo compleanno. “Tu sai che il tuo papà sta dalla parte degli operai, che trova ingiusto che un operaio debba lavorare per arricchire il padrone – scrive ancora -. E poiché il tuo papà sta dalla parte degli operai, anche se ha dei soldi, anzi con questi soldi stampa e pubblica libri che difendono la causa degli operai, i padroni, i ricchi, hanno organizzato una violenta campagna contro di lui”.
Come Pier Paolo Pasolini (che ne scriverà nel suo romanzo incompiuto, “Petrolio”), anche Feltrinelli è convinto che in Italia sia in preparazione un colpo di Stato pur di impedire l’avanzata delle sinistre e pur di stroncare le rivendicazioni sindacali. Dopo la strage di piazza Fontana sono in molti a temere una svolta autoritaria, e con fondate ragioni.
Lui in particolare, per i suoi legami con i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, e anche per le risorse finanziarie di cui dispone, sa di rappresentare un bersaglio ideale dei controrivoluzionari. Di conseguenza, ha deciso di darsi alla macchia. Non rinuncia a seguire la casa editrice, le librerie, la biblioteca della Fondazione in cui ha raccolto preziosi archivi del movimento operaio, ma in vista dello scontro imminente ritiene si debba passare all’azione dando vita anche a un’organizzazione paramilitare.
Si sa com’è andata a finire. Lo trovano dissanguato il pomeriggio di martedì 14 marzo 1972 in un campo di Cascina Nuova, a Segrate, sotto il traliccio dell’alta tensione che voleva sabotare. Attentato dimostrativo per lasciare al buio la zona est di Milano. Molti penseranno che sia stato ammazzato, che sia caduto in un tranello. Ma a cinquant’anni di distanza non sono emerse prove in tal senso. Sicché le circostanze grottesche di quella tragedia finiranno per alimentare una campagna denigratoria di cui egli era già da tempo oggetto, “il miliardario rosso”, “il comunista capriccioso”, oscurando il suo indubbio ruolo di protagonista della cultura italiana del dopoguerra. Vi si distinsero con speciale accanimento Indro Montanelli e pure il secondo marito della madre di Giangiacomo, Luigi Barzini jr. A indispettire questi campioni dell’anticomunismo era il fatto che l’erede di una delle più potenti dinastie del capitalismo italiano avesse tradito la sua classe d’origine. Per la verità Feltrinelli non era l’unico: anche l’ex partigiano Giovanni Pirelli aveva rinunciato in favore del secondogenito Leopoldo alla guida dell’azienda di famiglia per sostenere i movimenti antimperialisti e le formazioni della sinistra rivoluzionaria italiana. Quelli erano i tempi.
Nell’immediato dopoguerra Feltrinelli scelse di iscriversi al Partito Comunista Italiano (finanziando le tipografie dell’Unità) e avviò le imprese editoriali che lo avrebbero reso celebre. Aveva solo 33 anni quando gli riuscì la temeraria impresa di far conoscere al mondo il Dottor Zivago, e subito dopo “Il Gattopardo”. Vennero a ruota le traduzioni di Saul Bellow, Karen Blixen, Henry Miller, fino a “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, per non citare gli innumerevoli testi di ricerca storica e sociale.
Nel 1958 aveva lasciato il Pci, che non gli perdonava la mancata sottomissione alla censura sovietica di Pasternak. Ma ugualmente, nel marzo 1972, la morte di Feltrinelli calò come un macigno sul partito riunito proprio in quei giorni a Milano per eleggere il nuovo segretario Berlinguer. Tanto che, a dispetto delle convenienze, ancora nel 1978 Feltrinelli fu l’unico “extraparlamentare” che Renato Gattuso decise di inserire nel suo celebre quadro “I funerali di Togliatti”.
Ridurre l’eredità culturale di Giangiacomo Feltrinelli al suo epilogo militarista, è una forma di ignoranza tipica dello spirito vendicativo che si abbatte su chiunque abbia osato tentare un assalto al cielo. Resta il fatto che senza quella sua pulsione rivoluzionaria la Feltrinelli di oggi non esisterebbe, sopravvissuta allo sfacelo di tanti partiti e istituzioni culturali della sinistra. Una “casamatta” del pensiero democratico e progressista, per dirla con Antonio Gramsci.
Ne è consapevole il figlio Carlo che, insieme e dopo la madre Inge Schoenthal, ha proseguito e sviluppato la sua opera, impensabile senza la visionarietà del fondatore.
Nel 1947, dopo l’esperienza partigiana, appena maggiorenne Giangiacomo dovette scontrarsi con la madre Giannalisa, monarchica conservatrice ben decisa a proseguire le attività che avevano reso la famiglia ricca e potente. Consolidò in quel frangente l’esperienza imprenditoriale che lo proteggerà anche dalle assillanti richieste di denaro dei suoi stessi compagni. Anziché dissipare le sue risorse, il borghese poliglotta costruì una rete di interlocutori editoriali e politici che dall’Europa si diramò negli Usa, a Cuba e in tutta l’America Latina. Pazienza se il suo stile di vita gli attirava la fama del dandy: amava la bella vita ma sapeva sopportare volentieri anche le durezze della militanza.
La versione aggiornata di “Senior Service”, il libro che Carlo gli ha dedicato nel 1999, ripubblicata a mezzo secolo dalla sua morte, si arricchisce di una postfazione densa di ulteriori rivelazioni. Per dirne una, soltanto di recente Carlo ha trovato nella soffitta di via Andegari uno scatolone con 4mila cartelle dattiloscritte di Thomas Harlan. Si tratta di una monumentale ricerca sulle responsabilità dei criminali nazisti rimasti impuniti che Giangiacomo aveva sostenuto e che speriamo possa vedere presto la luce.
Celebriamo in questi giorni il centenario della nascita di Pasolini. Trovo singolare il contrasto fra l’unanime ammirazione tributata a questo outsider della cultura italiana, deriso in vita dai benpensanti, e la scomunica che grava ancora oggi sulla personalità di Feltrinelli. In “Petrolio”, Pasolini cita la morte di Feltrinelli fra gli eventi che lo inducevano a presagire una svolta autoritaria in Italia. Tre anni dopo, nel 1975, anche a lui toccherà una morte altrettanto assurda. La cultura italiana resta debitrice a entrambi.
Anch’io ero fra i ragazzi che salutarono a pugno chiuso la salma dell’editore rosso, al cimitero Monumentale di Milano. Avevo soltanto 17 anni, frequentavo la libreria Feltrinelli di via Larga, fra la Statale e piazza Fontana. Ci avevo comprato tanti libri, il manifesto di Che Guevara e pure quello di Brigitte Bardot scosciata su una Harley Davidson.