il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2022
Una giornata a Kiev
Sono da poco passate le 20 quando arrivo alla stazione di Kiev. Le luci sono spente e all’uscita dal treno, sul binario, ci sono i soldati in mimetica e kalashnikov che controllano i pochi passeggeri che arrivano da Leopoli: quasi tutti uomini che vengono per aiutare chi è rimasto in città o per combattere. Le 20 a Kiev vogliono dire coprifuoco. La città, già un semideserto, diventa fantasma.
L’affanno per raggiungere l’hotel a pochi chilometri è inutile, alle porte della stazione i poliziotti armati non fanno uscire nessuno: non si può, la legge marziale impone a chi è arrivato tardi di dormire lì. La grande sala d’attesa è piena di volti che si vedono a malapena. Nel buio si definiscono i corpi: appoggiati su sedie di legno, sembrano soprattutto di donne e di bambini. Molti arrivano dall’Est. Erano convinti di scappare dove la guerra e le bombe non sarebbero mai arrivate. La sera prima un missile è finito a poche centinaia di metri da lì, e nessuno lo ha dimenticato. Dalle vetrate, si riconoscono le sagome di alcuni palazzi del centro. La mia prima notte a Kiev passa così, camminando tra corpi che provano a trovare riposo e valigie. Nonostante un viaggio di 560 km durato nove ore non riesco a prendere sonno, guardo di continuo il grande orologio della stazione, pensando che comunque prima o poi le 7 del mattino arriveranno e potrò uscire di lì.
Le 7 finalmente arrivano, ma fuori dalla grande stazione le vie sono deserte. L’hotel dista qualche chilometro, ci incamminiamo, ma a poche centinaia di metri dall’arrivo sento forte e chiara la prima sirena che annuncia i bombardamenti: buongiorno, benvenuto a Kiev. Il nostro hotel è un 5 stelle molto elegante dove gli unici ospiti sono i giornalisti di mezzo mondo e una famiglia di ricconi vestiti alla moda con guardie del corpo al seguito.
La città, in pochissime ore, sembra essersi attrezzata come un fortino. Il primo giro è in direzione piazza Maidan, luogo simbolo della nuova Ucraina. Mentre cammino sento boati provenire dal centro: è la contraerea piazzata sui palazzi vicini. Il telefono tra le mani per provare a documentare non è una buona idea, la Difesa territoriale è ossessionata dai sabotatori russi che con le foto localizzano dai cellulari i palazzi del potere per poterli poi attaccare. Al primo incrocio, cinque ragazzi con la fascia gialla al braccio e i fucili alzati mi intimano l’alt: “Documenti. Perché stai filmando? Fammi vedere!”. Uno dei più giovani toglie la sicura del kalashnikov. Cerco di rassicurarli: “Italiano-televisione-cameraman”. Serve a poco. Il loro capo ha l’indice della mano destra mozzato, di solito lo si taglia ai prigionieri quando il nemico ti cattura. Forse – mi dico – è stato fatto prigioniero dai russi in Donbass anni addietro. In fondo qui la guerra c’è da otto anni, siamo noi ad averla scoperta tardi.
Mi controllano tutto: dalle foto alle chat, migliaia di immagini passano sotto lo sguardo di questi ragazzi. È andata. La sicura dell’AK-47 però non mi esce dalla testa, quel click resta dentro tutto il giorno. Girare a Kiev, con una telecamera in spalla, è impresa ardua. Ogni angolo è stato trasformato in un check-point o block-post come lo chiamano qui: alcuni sono più professionali, altri davvero di fortuna, fatti con bancali di legno, pneumatici, auto vecchie e addirittura tram o treni messi di traverso. Aspettano i russi e sono decisi a resistere. Chiedo di poter girare qualche immagine dei check-point, ho appena passato un blocco fatto di gomme e auto di epoca sovietica: la risposta è no. Col nostro driver ci viene proposto di filmare un rifugio sotto le case popolari, in direzione Lobanoska, periferia di Kiev. Scendiamo in cantina, sono quasi le sei di sera e assieme a noi uno dopo l’altro si stipano per passare la notte i residenti del quartiere, per lo più giovani e donne.
Non ce l’abbiamo coi russi, ma ci hanno invaso e noi resisteremo.
Putin dice che siamo lo stesso popolo? E allora perché ci bombarda?
Nessuno qui contempla la resa, tutti vogliono vivere liberi oppure morire combattendo.
Si è fatto tardi, tra poco saranno le 20: si deve tornare in hotel, coprifuoco. Sotto l’hotel sfrecciano enormi fuoristrada coi vetri oscurati e qualche blindato che prende posizione in città. La notte le sirene continuano a suonare, ma a essere presi di mira dagli attacchi sono i quartieri periferici.
La mattina dopo mi svegliano i vetri della mia stanza. Tremano, con ritmo metallico. Sotto la mia finestra sta passando un carro armato, di quelli con i cingoli e il cannone lungo 10 metri, da cui spunta la testa del carrista. Kiev venderà cara la pelle, ormai è chiaro.
Kiev è vuota ma allo stesso tempo piena. Di ragazzi armati, per lo più. Con la faccia stanca e la paura addosso. Vado di nuovo verso piazza Maidan, e stavolta col permesso dei militari riesco a filmare un po’ di cose. Ci sono un padre e una figlia che preparano sacchetti di sabbia per i check-point. Lui ballerino cubano che vive da 25 anni a Kiev: la figlia ha esattamente quella età. Isabella mi spiega quello che tutti gli ucraini mi dicono: combatteremo e vinceremo oppure moriremo, ma sotto i russi mai. Putin ha dichiarato guerra a un intero popolo, non solo alle forze armate.
La piazza è un fortino, blocchi di cemento e cavalli di Frisia rallentano il traffico, mentre le troupe televisive fanno i collegamenti col “fondale” militare. Per terra, spostandosi sulle strade periferiche, si vedono i resti dei missili coi circuiti in bella vista, i pali dalla luce e le schegge dei palazzi di fronte. C’è chi fa dirette tv, chi le stories su Instagram: è lo show dell’orrore.
Una coppia mi spiega che in una delle esplosioni di questi giorni ha perso tutto, hanno un figlio di 7 anni, non sanno come scappare da Kiev.
Nella città che si prepara a essere cinta d’assedio scarseggiano benzina e pane. Nei pochi negozi rimasti aperti con orari ridotti si trovano quasi solo cibi inscatolati, gli scaffali con gli alcolici sono stati sigillati con delle strisce di plastica gialle, il presidente Zelesky ne ha vietato la vendita (la legge marziale è anche questo: un Paese per difendersi deve rimanere lucido).
Chi sa sparare è autorizzato a farlo contro le truppe di Putin, chi non è capace aiuta in altro: c’è da cucinare per i militari, da prepara le reti mimetiche… Soprattutto, c’è da costruire il sentimento patriottico. Come nelle guerre del secolo scorso, sembra di essere tornati indietro nel tempo.
Le facce preoccupate di chi imbraccia le armi non le dimenticherò mai. Tutti sanno che se i russi sfonderanno, per la capitale sarà battaglia strada per strada. Coi tank davanti agli occhi e le bombe sopra le teste.