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 2022  marzo 13 Domenica calendario

Emmanuel Carrère racconta la guerra da Mosca

L’autore di Limonov era a Mosca nel momento in cui è cominciata l’invasione dell’Ucraina. Questo è il racconto della settimana che ne è seguita.

Il sogno di Irina
«Quando ero piccola sognavo che mi nascondevo nella cantina di una casa bombardata, mezza distrutta. Sentivo da fuori delle raffiche di mitra. Erano i nazisti a sparare. Avevo paura che mi trovassero e mi uccidessero come avevano ucciso la mia famiglia. Da quando è cominciata la guerra faccio di nuovo questo sogno, ma è peggio. Perché c’è un momento in cui capisco che sono io la nazista e mi sveglio gridando».
Quello che mi racconta, Irina l’ha scritto sulla sua pagina Facebook (perché questa scena si svolge in un momento in cui Facebook c’era ancora; cinque giorni dopo finito questo testo, niente più Facebook). Sua madre l’ha chiamata, terrorizzata, la maggior parte dei suoi amici si sono disiscritti dal suo account. «Tutti ci odiano, ora, noi russi», dice Irina, e io cerco di confortarla, le dico che la gente, oddio la gente non so, ma molti francesi come me sono perfettamente capaci di distinguere, innanzitutto fra i russi e il loro presidente impazzito e poi fra i russi che sostengono il loro presidente impazzito e quelli spaventati dalla sua follia. Lei è scettica: «Tu credi veramente che facciano dei distinguo? Io quello che ti posso dire è che gli ucraini li invidio. Sono degli eroi, sono pronti a combattere e a morire. Loro agiscono. Noi viviamo nella paura. E un pochino nella speranza. Un pochino». Ripete «un pochino» e poi si mette a piangere.
Siamo in una caffetteria nel centro di Mosca, legno chiaro, latte macchiato, tè matcha, la vita urbana della gente che non ha troppi pensieri per la testa, e lei piange, e attraverso la vetrata del locale vedo camionette della polizia che parcheggiano una dietro all’altra, sempre più numerose, sotto questo cielo che tutte le mattine è di un azzurro incredibile e rende tutto quello che succede ancora più stupefacente.
Irina è una donna minuta e nervosa, che lavora in una casa editrice di libri per l’infanzia. Poco più che cinquantenne, classe media moscovita: ma come succede spesso in Russia non serve grattare molto perché sotto questa classificazione sociologica rassicurante si spalanchi la botola della grande e terribile storia sovietica. È nata a Magadan, e Magadan, sopra a Vladivostok, è, come sa chi ha letto Solgenitsyn e Šalamov, la porta d’ingresso del gulag. È andata via da Magadan a cinque anni, ormai è qualcosa di molto lontano per lei, ma oggi sta pensando seriamente di tornarci. Un’altra linea di separazione fra i russi, almeno il genere di russi che conosco io: quelli che possono andare via e quelli che non possono. Quelli che possono andare via l’hanno già fatto. Irina non può. Non ha il visto e sa che quello che sta cominciando è un viaggio nel tempo e nelle tenebre. L’ipotesi più ottimistica è che non ci sarà la guerra nucleare, ma quel che è certo è che le sanzioni che colpiscono la Russia dureranno anni, forse decine di anni, e trasformeranno radicalmente la loro vita. Irina ha una figlia di 13 anni (non un figlio, per fortuna, perché se fosse maschio fra meno di cinque anni potrebbe essere chiamato a fare la guerra, ormai è una cosa di cui bisogna tener conto), che cerca di condurre insieme alle sue amiche una vita da adolescente, ma hanno già capito, lei e le sue amiche, che ora comincia la vita senza Netflix, la vita senza TikTok, e che è tutto vero, non è uno scherzo. Ci sono persone, e non è uno scherzo neanche questo, che si fanno reinstallare a casa il telefono fisso e quelli che ora le prendono in giro, quelli che non l’avranno fatto per tempo, si morderanno le mani. «La sola cosa che mi rassicura», dice Irina, «è che il nostro Paese è grandissimo. Ci sono posti dove nascondersi. Magadan, il Bajkal, l’Altai… Io faccio navigazione di diporto, sai, ho una piccola barca insieme a degli amici, ormeggiata a cinquanta chilometri da Mosca. Il mio sogno era un lungo viaggio fino in Africa, passando dai fiumi e dai mari. Era tutto preparato per bene, dovevo prendermi un anno sabbatico, partire la prossima estate. Forse invece andrò con mia figlia fino all’Oceano Artico. Forse vivremo sulla riva dell’Artico. Forse impareremo a vivere in un altro modo. Forse sarà bello comunque». Irina scoppia in singhiozzi.


Fake news

Ho trascritto le parole di Irina ma ho cambiato il suo nome, la sua professione. Lo faccio per quasi tutte le persone di cui parlo in questo articolo e, vi potrà sembrare assurdo, ma non ho il diritto di dire per quale ragione, del tutto confessabile, mi trovassi a Mosca all’inizio della guerra. Era previsto che ripartissi domenica scorsa, ho deciso di restare. Le persone che mi avevano invitato mi hanno fatto giurare di non scrivere niente che possa farle identificare. Nel giro di qualche giorno si è raggiunto un livello di paranoia prossimo a quello del Grande Terrore staliniano. Tutto viene ascoltato, non c’è più nessun mezzo di comunicazione che possa essere considerato sicuro e se restavano dei dubbi su quello che si rischia realmente sono appena stati dissipati da una legge, approvata lo scorso venerdì 4 marzo, che reprime le fake news su quello che succede in Ucraina secondo il seguente tariffario: tre anni di carcere se si scrive o si pronuncia la parola «guerra» invece di «operazione speciale»; dai cinque a dieci se la stessa cosa viene fatta nel quadro di un gruppo su Internet; quindici se produce delle «conseguenze pubbliche», e vai a sapere che cosa sono queste conseguenze pubbliche. Questa legge non vale soltanto per i russi, ma anche per gli stranieri. I corrispondenti esteri se ne vanno uno dopo l’altro. Non potendo nominare la guerra ora la si mostra. Ancora ieri, sul Pervij Kanal, il primo canale della televisione russa, che guardo in albergo mentre faccio colazione, solo banalità: lotterie, documentari naturalistici. Questa mattina invece si vedono solo blindati, incendi, feriti e anche uno che conosca poco il russo difficilmente potrebbe fraintendere quello che viene detto, considerando che si sente ripetere a ciclo continuo nazisti, nazisti, nazisti, genocidio, genocidio, genocidio e di tanto in tanto, per variare, il verbo unichtozhat’ , annientare. E poi anche, guarda un po’, un montaggio coi fiocchi di un discorso di Goebbels con quello di Bruno Le Maire, il ministro dell’Economia francese, che dice che renderemo la vita difficile ai russi. Ritorno nella mia camera, comincio a scrivere questo articolo che dovrebbe uscire la settimana prossima e non solo nessuno sa che aspetto avrà il mondo la settimana prossima, ma nemmeno se esisterà una settimana prossima. Lo so, questo senso di vacillamento esiste dappertutto, la Nuova Zelanda deve cominciare a temere l’Apocalisse e ho appena letto che la Micronesia si associa alle sanzioni. Lo so, è in Ucraina che c’è la guerra, è sugli ucraini che cadono le bombe, è alle centrali nucleari ucraine che i russi cominciano ad appiccare il fuoco, ma quello che vediamo in Russia, o in ogni caso a Mosca, è un’altra cosa: una società intera che per la volontà di un uomo solo implode a una velocità pazzesca. Due sintesi della situazione. Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa: «Conoscerete cose che nessuno ha mai conosciuto». Dmitri Muratov, caporedattore della Novaja Gazeta e premio Nobel per la pace: «Il futuro è morto». 


Shampanskoe
A Mosca ho due buoni amici, Pavel ed Emmanuel, che dirigono la Camera di commercio franco-russa. Persone ponderate, colte, che amano appassionatamente la Russia e ragionevolmente i suoi dirigenti, perché il loro mestiere è di sostenere le imprese e gli investitori francesi, non Navalnij.
Un esempio di quali sono le loro preoccupazioni, in tempi normali: la Russia importa una gran quantità di champagne costosi, perché l’oligarca ama il Dom Pérignon. Ne produce anche un’imitazione, uno spumante chiamato shampanskoe . Atto primo: la Russia ha preteso che il suo shampanskoe abbia il diritto di portare il nome prestigioso di «champagne ». Atto secondo: ora pretende che lo champagne francese prenda quello, infamante, di «vino frizzante». È talmente putiniano, come modo di fare, che qualche giorno fa pensavo ancora di scriverci su un corsivetto caustico, e un altro sul veterinario che corre da una casa di espatriati all’altra per firmare i certificati che consentano agli animali da compagnia dei circa quattromila francesi residenti a Mosca di lasciare il Paese. Ma la voglia di scrivere corsivetti caustici mi è passata in fretta. Ho partecipato per tre volte ai briefing quotidiani che i miei amici rivolgono, via Zoom, alla comunità francese. Da un giorno all’altro, il consiglio di mantenere la calma e non cedere al panico suona sempre più angosciato. Non si abbandona la trincea, ma la famiglia la si manda via. Si continua a dire come prima, educatamente, «il presidente Putin», ma si esaminano, senza giudicarli troppo elevati, «per il momento», i rischi di guerra civile, o nucleare, e una non esclude l’altra. Ogni frase è accompagnata da una premessa del tipo «se le cose cominciassero a mettersi veramente male», cosa che inizialmente fa ridere, perché sembra che un tantino abbiano già cominciato a mettersi male, e poi non fa più ridere per niente, perché, come ha riconosciuto Macron dopo aver parlato un’ora e mezza con Putin, «il peggio deve ancora venire». Ogni giorno si fa il punto sui canali di uscita ancora possibili (gli Emirati, l’Armenia, la Turchia). Pavel mi ha fatto comprare per tempo un biglietto per Istanbul, lunedì prossimo, e ben me ne incolse, perché ieri questi biglietti venivano scambiati sul mercato nero a un prezzo venti volte superiore e oggi non ce n’è più neanche uno. Ora si parla di aerei per Erevan o Adalia costretti a fare dietrofront, con i passeggeri piantati in asso Dio solo sa dove sul territorio russo. Ci si mette a studiare gli itinerari attraverso la Finlandia: i treni stracolmi, la strada; l’esodo. Dopo la videoconferenza, ci rifugiamo nel bell’ufficio di Pavel che tira fuori le bottiglie migliori, tanto vale berle prima che tutto sparisca. Siamo una famigliola, siamo al caldo, se le cose cominciassero a mettersi male per davvero è qui che chiederei asilo. 


I novelli sposi
È come l’11 settembre: tutti in Russia si ricorderanno dove si trovavano quando si sono svegliati la mattina di giovedì 24 febbraio. Irina era a Tbilisi, per il matrimonio della sua migliore amica. Tutti erano preoccupati, molto preoccupati vista la piega che stavano prendendo le cose, ma hanno festeggiato comunque, si sono augurati buona notte alle due del mattino e alle sette Olga, la migliore amica, ha bussato alla porta di Irina dicendole che c’eravamo, che era iniziata la guerra. Irina ha pensato che la storia di Olga e di suo marito, Xaver, potesse interessarmi, ed è per questo che ci ritroviamo a cena tutti e quattro.
Olga è elegante, molto brillante verbalmente, molto spiritosa, con un’autorevolezza da donna d’affari. Un po’ più in disparte all’inizio, anche Xaver è seducente, sarcastico. Tutti e due sufficientemente agiati da fissare l’appuntamento in un ristorante che ha perso una stella – ma prima ce l’aveva – nella guida Michelin. Olga è russa e dirige una società di design. Xaver, tedesco, ha dei negozi di mobili di lusso in tutta Europa. Si sono incontrati un anno prima in occasione di un salone a Milano. Lui viveva a Monaco ed era sposato con una figlia di sei anni. Lei divorziata tre volte, storie disastrose, croce sugli uomini, ma va a questo incontro che in partenza vedeva come una scocciatura ed ecco là. I colpi di fulmine non hanno bisogno di avere una ragione, ma questo ce l’ha. Fin dalla prima cena, Olga e Xaver scoprono una passione comune per la storia, per gli aspetti più cupi della storia del XX secolo e per quello che Olga chiama, con un sorriso intenerito, our horrible historical background , che si riassume così: il nonno di Olga era un eroe plurimedagliato dell’Unione Sovietica, sopravvissuto all’assedio di Stalingrado, uno di quegli uomini rudi che sono morti (venti milioni di loro) perché fossimo liberi. Il nonno di Xaver, invece, era ufficiale delle Waffen SS e quando gli chiedo se l’abbia conosciuto lui mi risponde di sì, che è morto serenamente nel 1985, era un vecchietto sbarazzino che passava il tempo più che altro fumando la pipa seduto su una panchina e facendosi tiranneggiare dalla moglie.
Le storie di famiglia di Olga e Xaver potrebbero bastare per un articolo intero, perché l’altro nonno di Xaver, pilota della Luftwaffe, dopo essere stato catturato dall’Armata Rossa passò dieci anni in un campo di prigionia in Siberia, da dove tornò nel 1952 con una passione per Lermontov; quanto alla bisnonna di Olga, i suoi genitori erano stati ammazzati dai bolscevichi quando aveva dodici anni ed era sopravvissuta alla tormenta degli anni Venti solo diventando, a quattordici, l’amante di un agente della Ceka, inizialmente per costrizione, senza che però questo le avesse impedito di amarlo per tutta la vita. Insomma, Xaver e Olga vedevano già le pareti coperte dalle loro foto di famiglia nell’appartamento che avevano in programma di comprare a Mosca, perché Xaver ama la Russia, ha una parte dei suoi affari là, parla russo e contava di prendere l’aereo un weekend su due per andare a trovare sua figlia a Monaco. Era un piano realistico e gioioso, il genere di progetto che una coppia europea ragionevolmente benestante poteva fare prima della guerra, ed era per suggellarlo che avevano deciso di sposarsi, anche se Olga si era ripromessa di non cascarci mai più.


L’ultimo iPhone
A Tbilisi ci si può sposare con grande rapidità e facilità, come a Las Vegas, ma dopo bisogna regolarizzare i documenti, che non sono validi né in Russia né in Germania. Procedura un po’ complicata ma possibile in tempi normali, non fosse che nel frattempo, come dice Olga, «il mio Paese ha fatto delle grandi sciocchezze» ed eccola intrappolata, perché non ha un visto Schengen e anche se potesse partire starebbe male all’idea di lasciare per sempre sua madre, a cui non potrebbe neanche più spedire soldi e medicine. Xaver: «Possono ammazzarsi tutti fra loro, io me ne frego, non è la mia guerra, ma distrugge la mia vita. Non posso portare via mia moglie da questo fottuto Paese e mi sto rendendo conto che la mia realtà è questa: dovrò scegliere fra lei e mia figlia». Xaver ha un biglietto per Monaco il giorno dopo, via Dubai, e in teoria un biglietto di ritorno per l’11 marzo. Lui e Olga cercano di convincersi che le cose si sistemeranno, che qualcosa fermerà questa escalation sempre più da incubo e che si ritroveranno, a maggio, a quel salone del design a Milano dove si sono conosciuti un anno prima, ma come si fa a crederci? Siamo in questo ristorante elegante, luci soffuse, una clientela di donne bellissime e uomini imperiosi e accigliati, come sono i ricchi di qua. Come si fa non trovare assurdo tutto questo, queste persone che portano inscritta con grande violenza nella loro storia individuale la storia più terribile del XX secolo e che potevano regalarsi il lusso di interessarsene perché vivevano, in un mondo pacificato, una vita normale, leggera, senza tragedia, e ci si ritrovano improvvisamente di nuovo dentro, straziati, costretti a scelte insopportabili, col rischio di venire separati per sempre? «Il solo vantaggio», dice Xaver rivolgendosi con sardonica tenerezza alla donna che ama, «è che adesso sarete voi a capire cosa vuol dire essere i cattivi per il resto del mondo. Noi tedeschi vi cediamo la parte, tanto per cambiare». 

Abbiamo tutti, sul tavolo, i nostri telefoni che trillano e ci avvisano di un nuovo smottamento in un mondo che credevamo solido e affidabile come un’automobile tedesca. La realtà si disfa come nei film di fantascienza, come in un romanzo di Philip Dick, come in Truman Show . Non lo sapevamo, ma tutto questo poteva scomparire. Tutto questo sta scomparendo. Negli ultimi due giorni: la Volkswagen, la Bmw, la Warner Bros, la Disney, Netflix, la Nike, Spotify, Ikea, Airbnb, la Vuitton, la Shell, la Deezer, la Carlsberg, la Bp, la Boeing, la Exxon, eBay, Bloomberg, la Cnn, la Bbc e adesso Twitter, Facebook. Olga si ricorda questa cosa: qualche anno fa Affisha , una rivista di tendenza, aveva fatto un reportage ironico sul tema: «Si può sopravvivere una settimana consumando solo prodotti russi?». Risposta: no, non si può. Eppure bisognerà abituarcisi, perché ben presto nei supermercati russi non si troverà più nessun prodotto straniero. Bye bye Dom Pérignon, welcome shampanskoe. «Fra tre mesi», dice Xaver, «saremo tornati al nineteen nineteen». Io capisco nineteen ninety. Xaver ride con la sua risata ferina e triste: «No, il 1990 sarà fra un mese; fra tre mesi sarà il 1919». Olga mostra il suo telefono: «Vedi, ho l’ultimo iPhone». Decisamente sono lento di comprendonio, perché capisco che intende l’ultimo modello. Anche lei ride: «Non hai capito. Questo che ho in mano è l’ultimo iPhone». 


Il nervo della guerra
E come si fa, stasera, per il conto? Tre giorni fa, un’eternità, Irina era semplicemente contrariata di non poter più pagare il parcheggio con Apple Pay, l’applicazione per cellulare che qui tutti usano, perché la carta di credito in plastica è desueta quanto l’assegno da noi. E poi ho voluto pagare il nostro pranzo con la mia Visa e non ci sono riuscito, ed è in quel momento che tutti e due abbiamo cominciato a capire che le sanzioni, l’uscita dal sistema Swift, non erano una faccenda fra Stati e banche, che colpisce solo marginalmente le persone o prosciuga i loro risparmi, cosa a cui i russi sono abituati, ma che ben presto impedirà loro di pagare qualunque cosa. In previsione del momento in cui le carte non si bloccheranno più una volta su due, come succede per il momento, ma ogni volta che si proverà a usarle, questo pomeriggio ho scelto di ritirare dei rubli, il massimo possibile per non rischiare, e mi hanno consigliato di andare in una filiale della Vtb, una banca sufficientemente piccola per non essere ancora colpita dalle sanzioni (i servizi ormai si dividono fra quelli che sono sotto sanzioni e quelli che non lo sono ancora ma presto lo saranno). C’era almeno una ventina di persone davanti a ogni sportello bancomat, tutti russi, preoccupati ma calmi, e tutti con la testa sollevata verso un display che indicava il cambio del rublo, dell’euro e del dollaro. Tre giorni fa un rublo valeva poco meno di dieci centesimi di euro, oggi sta a quindici, se riesco a ritirarne sarò uno sceicco, mentre le persone che mi stanno intorno guardano i loro risparmi sciogliersi a vista d’occhio. Vorrei intavolare una conversazione, ma anche se non sono ancora stati segnalati casi di aggressività verso gli stranieri a Mosca, siamo comunque noi che ci becchiamo le conseguenze delle sanzioni; molti espatriati di mia conoscenza cominciano ad abbassare la voce quando parlano al telefono in francese per strada, meglio tenere un profilo basso. Ho una fifa matta che il bancomat si ingoi la mia carta; non succede ed è già qualcosa, ma non mi fa ritirare nulla. Per fortuna ho pagato in anticipo l’albergo e il mio biglietto. Per il resto, è assolutamente imprevedibile. Xaver cerca di pagare per primo, ha tre carte di credito diverse, nessuna funziona. La mia sì, inspiegabilmente, ma è il suo ultimo respiro. E il taxi per l’aeroporto, lunedì? Se mi trovassi bloccato a Mosca perché non posso pagare il taxi? La Visa e la Mastercard annunciano sabato che lasciano anche loro la Russia. Per fortuna, Pavel mi ha dato una busta di contanti. 


Un boomer russo
«Ho già visto tutto questo, più in piccolo. Ero inviato a Bagdad, giornalista giovanissimo, in un tempo in cui l’Iraq era un Paese prospero, uno dei più piacevoli dove vivere in Medio Oriente. Sapevamo che Saddam gassava un po’ i suoi curdi ma si guardava da un’altra parte, tutti i capi di Stato gli dichiaravano la loro amicizia. Quando invase il Kuwait, credeva che tutti avrebbero protestato un po’, così per forma, e che poi tutto sarebbe passato,business as usual . Ma non passò: il mondo intero si coalizzò contro di lui, embargo, sanzioni, il Paese prospero diventò un Paese paria, regredì all’età delle caverne ed è ancora lì che si trova. È questo che ci sta succedendo. Putin è diventato un paria, ma anche noi diventiamo dei paria. È pazzesco, sai, quello che avrà vissuto uno della mia generazione. Uno che è stato adolescente in Unione Sovietica e poi, a vent’anni, quel miracolo assoluto, totalmente inimmaginabile, della fine degli anni Ottanta. Passare di colpo da Cernenko a Gorbaciov, e poi il golpe, i carri armati a Mosca, i primi locali notturni a Mosca, i primi viaggi all’estero. I soldi a fiumi, la criminalità, il Far West degli anni di Eltsin. Voi non ne avete la minima idea in Francia, la minima idea. Che avete vissuto voi, poveri piccoli? Il maggio ’68? L’elezione di Mitterrand? Ho paura di Le Pen, e che sarà mai! Uno della mia età in Russia ha esperienze per dieci vite, e ora che credevamo di poterci riposare, che non ci sarebbe successo più nient’altro che le cose normali della vita, comprare una dacia, invecchiare, ammalarci, morire, ecco che ci arriva addosso questo, nella peggiore delle ipotesi la fine del mondo, nella migliore delle ipotesi ritorneremo dentro la nostra topaia». 


Sedersi un minuto in silenzio
Con un po’ di fortuna ognuno di noi nella vita trova degli amici davvero cari, quelli con cui si affronta la traversata. La loro quantità varia a seconda del nostro grado di socievolezza, ma per forza di cose non sono mai un numero ragguardevole. Gainsbourg contava i propri sulle dita della mano sinistra di Django Reinhardt, i miei arrivano alla mezza dozzina circa. Loro invece sono otto, e il pomeriggio del 3 marzo si riuniscono nel monastero di Novodevicij – luogo emblematico, religioso e turistico al tempo stesso, famoso per il cimitero, dove sono sepolti Cechov, Gogol’, Prokof’ev, Šostakovi? e persino Krusciov. Io ci vado con Lionia e Masha, lui regista e lei attrice, con i quali mi ha messo in contatto la mia amica Dinara Drukarova (lei è a Parigi, e quindi sono contento di poter scrivere il suo nome). Fino al giorno prima non ci conoscevamo, sono indescrivibilmente commosso dalla fiducia che hanno riposto in me invitandomi ad accompagnarli.
Questo gruppo di amici somiglia molto al mio: in gran parte coppie, tra i quaranta e i sessant’anni, lavorano per lo più in campo artistico, alcuni sono abbastanza noti, uno è addirittura un cantautore molto famoso. Nessuno si dichiara religioso, ma il cantautore ha un amico monaco che va pazzo per le moto e per il rock e che è diventato una specie di affettuosa guida spirituale per il gruppo, così ha proposto di celebrare una piccola cerimonia, non del tutto clandestina ma abbastanza discreta, per benedire chi parte e chi resta. È quel che sta accadendo in questi giorni, sia tra gruppi di amici che nelle famiglie, e quel che mi colpisce è quanto sia evidente a tutti che quelli che partono partono senza ritorno, e che quelli che restano in tutta probabilità non li rivedranno più. Michail e Anna partiranno per Tel Aviv il 10 marzo (precauzioni per l’uso: sempre che ci sia un 10 marzo). Lui è ebreo, ha la doppia nazionalità, in linea di massima è una scelta positiva per entrambi. I due sono musicisti, racconto loro un vecchio indovinello scherzoso: «Cos’è un quartetto d’archi sovietico? Un’orchestra sinfonica che rientra da una tournée all’estero ». Ridono, anche se in realtà nessuno ha voglia di ridere. Da poco hanno acquistato un bell’appartamento a Mosca, che evidentemente non avranno il tempo di vendere, anzi, sono già fortunati se riescono a mettere il bagaglio nella stiva, vista la saturazione degli aerei, e mi pento di aver immaginato, anche se solo per un istante, di scrivere un corsivetto caustico sul veterinario della colonia francese, travolto dalla mole di certificati da compilare per consentire agli animali domestici di essere evacuati; me ne pento quando la figlia di Anna e Michail, otto anni, fa benedire da padre Kosma il gattino che non è sicura di riuscire a portare con sé. Ha le lacrime agli occhi, i suoi genitori e il monaco provano a rassicurarla, tuttavia non vogliono mentirle. Anche un’altra coppia sta cercando di partire, e la loro sorte è incerta quanto quella del gattino. Gli altri restano, perché non possono partire, e il cantautore famoso perché non vuole, la sua vita è qui, il suo pubblico è qui, perché morire altrove.
La cerimonia è finita, beviamo sul marciapiede la vodka che hanno portato nei sacchetti di plastica, ci abbracciamo, quanto sarebbe piaciuto, al padre e alla madre di Masha, abbracciarsi, se fossero stati qui con noi. Lui è a Mosca, mi spiega, mentre lei, che è ucraina, è andata a trovare la sorella a Charkiv. Hanno settant’anni, sono insieme da cinquanta, si parlano ancora, via Telegram. È stata Masha a insegnare loro a usarlo, ma sanno che a quell’età ormai è tutto finito, che non si rivedranno più. Il gruppo si scioglie, alcuni vanno via insieme, vanno a continuare a bere a casa, e io so che quando arriverà il momento di separarsi faranno quel che fanno i russi prima di mettersi in viaggio, sedersi un minuto in silenzio a pregare di potersi rivedere, un giorno, in questa vita. 


Un monastero nella Ciuvascia
A proposito di clero: un giornalista francese mi ha dato il contatto di un vandeano fattosi sacerdote ortodosso, «una personalità forte, vedrai ». Lo chiamo via WhatsApp, ci possiamo incontrare? Risponde sì, certo, se per lei non è troppo fuori mano, sono nella Ciuvascia. Ah. La Ciuvascia. Da Mosca sono 600 chilometri. Inizia subito a espormi l’itinerario nei dettagli: una notte di treno partendo dalla stazione di Kazanskij, un cambio all’alba, poi la vengo a prendere io, può rimanere tutto il tempo che vuole, è piacevole, vedrà. Passiamo in modalità videochiamata, ne valeva la pena, perché padre Vasilij, sulla sessantina, barba intonsa, sguardo malizioso, ha una mente di tutto rispetto. Gli dico che in questi giorni ho delle faccende da sbrigare a Mosca, ma che prendo in considerazione l’invito. «Quando vuole», risponde, e nei giorni successivi questa è un’idea che mi conforta. Di volta in volta circolano voci che preannunciano la legge marziale, la catastrofica evacuazione di tutti gli stranieri, il French bashing per strada, l’ambasciata accerchiata come a Saigon, la chiusura dell’intero spazio aereo, l’esplosione di una centrale nucleare, l’assassinio di Zelensky per mano dei mercenari della Wagner e infine Putin che, stando così le cose, preme il pulsante, ma io continuo a ripetermi che «se dovesse mettersi davvero male» prendo il treno alla stazione di Kazanskij e vado ad aspettare la fine del mondo nella Ciuvascia, nel bucolico ritiro di padre Vasilij. Per scrivere un libro non c’è niente di meglio, credo. Ma non è successo, da un lato perché al momento la fine del mondo non è arrivata, o non ancora, ma soprattutto perché ho avuto una seconda conversazione con padre Vasilij che mi ha raggelato, con la sua aria da bonaccione mi ha fatto un discorsetto sui nazisti che governano l’Ucraina – occhio però, che mica tutti gli ucraini sono nazisti, ce ne sono anche di bravi – e sulla sensatezza dell’Armata russa che ha cura di risparmiare i civili. Che Iddio la protegga, e con lei Vladimir Vladimirovic. 


La gente gente
Un’amica parigina, al telefono: «ma la gente? Non gli intellettuali come me e te, ma la gente gente. È del tutto disinformata? È a favore della guerra? Sta con Putin?». Difficile rispondere. La gente gente è sempre un’incognita. Un altro dei miei amici, italiano, un giorno, ridendo, mi ha detto: «il mio Paese è stato governato dieci anni da Berlusconi e non ho mai conosciuto nessuno che votasse per Berlusconi». A dire la verità io, di putiniani, ne conosco, ma sono più che altro francesi espatriati, non russi. I russi che ho incontrato in questi giorni sono proprio come li ho descritti, e se la loro sorte mi provoca un turbamento così profondo è perché mi somigliano. Ciò che stanno provando Masha, Lionia e i loro amici è esattamente ciò che proveremmo io e i miei amici se una tale catastrofe accadesse in Francia. Qui, in dieci giorni, ho dovuto prendere una ventina di taxi; a Mosca preferisco la metro, è la più bella del mondo, ma su un taxi si parla con più tranquillità alla gente gente, e quindi ecco il risultato del mio sondaggio, tenuto conto del mio orribile russo. All’incirca un terzo dei tassisti si è rifiutato di rispondere – soprattutto all’inizio, quando usavo il termine vojna , guerra, senza sapere che anche solo a sentirlo pronunciare rischiavi di finire in galera. Un altro terzo non ha rifiutato di parlarne, però mi detto che sono tutte sciocchezze. «Guerra? Quale guerra? Guardi che bel tempo, la gente gira all’aria aperta, passeggia, si diverte, fa shopping, ma lei lo sa cos’è una guerra, ha mai sentito parlare di Stalingrado?». In una parola: normal’no , che in russo significa «tutto benissimo, grazie». In senso più esteso: tutto ok, tutto sotto controllo, chi deve gestire fa il suo mestiere, gestisce, sa quel che fa, e tu circola, avanti, circola. Normal’no . L’ultimo terzo, un terzo cospicuo, a dire il vero: quelli che come il saggio padre Vasilij partono in tromba con il genocidio dei russi nel Donbass, con i nazisti che bisogna sradicare, con Putin che fa del suo meglio per salvare il mondo.
Per maggiore accuratezza sono andato a trovare Valerij Fjodorov, che dirige uno dei tre principali istituti di sondaggi di opinione russi. Il suo è finanziato dal governo, si affretta a precisare, come se non volesse prendermi alla sprovvista, ma l’istituto Levada, più indipendente, non ha ancora fornito i suoi dati, e in seguito avrò modo di verificare che tra l’uno e l’altro le cifre differiscono solamente di due o tre centesimi. Su un campione di 1600 persone intervistate al telefono, le conclusioni sono queste: a favore della guerra, il 68 per cento; contro la guerra, il 22 per cento. I dati, poco incoraggianti, corretti poi dalle variazioni stagionali: il numero di persone favorevoli alla guerra, dall’inizio della settimana, è in leggero ma costante aumento, mentre sono in simmetrico calo i contrari. I «pro-guerra» sono, c’era da immaginarselo, più anziani, in maggioranza maschi, più poveri, meno istruiti, meno urbanizzati, informati dalla televisione; gli «anti-guerra» invece, più giovani, più donne, più urbanizzati, più ricchi, più istruiti, s’informano sui social. Loro e noi: per averne conferma non c’era necessità di Valerij Fjodorov, tuttavia lui ha aggiunto un paio di cose interessanti. La prima è che, a parte una percentuale relativamente esigua di esagitati – meno del 20 per cento – i «pro-guerra» non si definiscono affatto «pro-guerra». Loro non vogliono la guerra, nessuno dotato di buonsenso può volere la guerra. È solo che ritengono che sia l’Ucraina, con il sostegno dell’Occidente, a fare da otto anni una guerra spietata alla Russia. Mentre gli «anti-guerra» pensano che Putin, la settimana scorsa, abbia iniziato la guerra (cosa che, se fosse vera, si avrebbe tutto il diritto di rimproverargli), i «pro-guerra», al contrario, sanno che lui si sta impegnando per porvi fine (e chi può essere così scriteriato da lamentarsene?). L’altra nota interessante riguarda le sanzioni. La gente che conosco trova terribile il grande salto all’indietro appena iniziato, che ha molte possibilità di durare diversi anni, decine di anni (ancora una volta, guardate all’Iran, guardate all’Iraq). Ma il paradosso che, per ironia della sorte, dà ragione a Putin, è che le sanzioni colpiranno gli amici dell’Occidente, non i suoi. Sono le persone come noi, gli «anti-guerra», gli «anti-Putin», ad andare in malora, intrappolati in un mondo senza Apple, senza Netflix, senza camembert, senza viaggi all’estero. Ma la Russia di base? La gente gente, come dice la mia cara amica? Cosa può fregargliene al popolo che non si possa girare in Jaguar, bere Dom Pérignon, sciare a Courchevel? Non è mai andato all’estero, il popolo, non ha mai messo il naso fuori dalla sua oblast’ ; il 70 per cento dei russi non ha il passaporto e a malapena sa che esiste. Che esiste Putin, invece, sì che lo sa, e sa che lui vuole bene al popolo. Come mi ha detto un tassista particolarmente gioviale, mentre mi riportava a casa dopo l’appuntamento con il direttore dell’istituto di sondaggi: «Non sarà per niente male ritrovarsi tutti insieme, tutti uguali, come prima, al calduccio, vo dnié ! » ( vo dnié vuol dire «nella stessa tana»). 


Leggenda urbana?
Questa storia mi è stata raccontata due volte, con leggere variazioni, e non so se le aggiungano o le tolgano credibilità. Una ragazza cammina sola per strada portando un cartello che dice « Nié molcitié », non restate zitti. Ne ho incrociate parecchie, sono ragazze, soprattutto ragazze, a fare questa cosa incredibilmente coraggiosa: uno non resiste così nemmeno cinque minuti, ti arrestano prima, e poi ti condannano a una pena che aumenta di giorno in giorno. Un tipo giovane, con la testa rapata, si avvicina alla ragazza e le dice: «Cos’è che fai? – Lo vedi, no? E lui: Hai ragione. Io sono un neonazista e questa guerra non la voglio, e i miei amici neonazisti, nemmeno. Lei: Io sono ebrea. – Io, neonazista. Siamo tutti e due d’accordo, allora». Si abbracciano. Lei si allontana con il suo cartello, dritta filata verso il carcere, l’ha già messo in conto. Lui la chiama di nuovo, lei si gira, lui le fa il saluto nazista, alla Hitler. Lei gli sorride.
(Che la storia sia vera o no, che il ragazzo fosse davvero un neonazista o che se ne sia solo vantato, siamo in una situazione in cui dichiararsi nazisti diventa un atto di ribellione e di difesa della libertà. Zelensky e i suoi sono nazisti? Ok, anch’io, allora. Questo è un paese di matti e quel che sta succedendo è roba da matti.) 


Le assistenti di volo
Quando leggerete questo articolo, ammesso che siate ancora lì per poterlo leggere, un video allucinante sarà diventato virale, il mondo intero l’avrà commentato, dimenticato, sostituito con altri video virali, ma credetemi, il video di cui vi sto parlando è una profonda esperienza distopica, è un Black Mirror all’ennesima potenza, e l’ho scoperto all’alba di domenica 6 marzo, in un albergo di Mosca, questo video che mostra Vladimir Putin seduto a un tavolo con una delegazione di donne assistenti di volo mentre spiega loro a che punto è la guerra. Si è chiosato molto sulla solitudine di Putin. Sappiamo che non vede praticamente nessuno, che il Covid ha decuplicato le sue paranoie, che per essere ricevuti da lui qualche minuto bisogna prima isolarsi con i tipi dell’Fsb, il Servizio federale di sicurezza, stare 14 giorni in osservazione, e che le ultime apparizioni pubbliche hanno confermato questo suo stato di bunkerizzazione e di compartimento stagno. Il dialogo con Macron, seduti ognuno a un’estremità di un tavolo lungo 15 metri. Il monologo di 55 minuti che ha segnato il calcio d’inizio della guerra (scusate, dell’operazione speciale). La riunione del Consiglio di sicurezza, con la guardia personale che, appunto, si mantiene a parecchia distanza dalla sua persona, ognuno prudentemente collocato dietro il proprio leggio, ognuno che se la fa sotto dalla strizza, e quel terribile e portentoso momento in cui tutto piomba addosso a Naryshkin, il capo dei servizi d’intelligence esterni, che Putin si diverte a umiliare in diretta, sotto gli occhi dell’intero pianeta, e allora pensiamo che sta andando troppo oltre, che mostrandosi così sadico verso i collaboratori più fedeli apre la porta a ciò che, al momento, sembra l’unica speranza dell’umanità: la rivoluzione di palazzo, l’assassinio.
È completamente solo, pensiamo, è impazzito, e la cosa peggiore – se c’è mai fine al peggio – è che lui è ben consapevole di aver fatto un’enorme cazzata ma ormai è troppo tardi per tornare indietro, e allora tant’è, preme a tavoletta sull’acceleratore, dritto in bocca all’abisso, e noi insieme a lui, nessuno salterà giù dal treno. Questa versione shakespeariana, in netto contrasto con il cinismo calcolatore che a lungo abbiamo attribuito a Putin e che gli è valso tanti ammiratori, temo proprio sia vera, ma ciò che affascina, nell’incontro con le assistenti di volo, è lo zelo profuso a smentirla. Il tavolo è lungo quanto quello del colloquio con Macron, ma le assistenti di volo intorno a lui sono una ventina, attente e briose, tutta quella gente gomito a gomito, e lui rilassato, quasi nella parte dello zione, prende il tè insieme a loro. La prossima volta, immaginiamo, terrà sulle ginocchia dei bambini, come Stalin. In questa cornice, dice le cose senza peli sulla lingua ma non da paranoico bensì da tipo energico e schietto, che ama fare le cose fatte bene. Dice per esempio che se le sanzioni continueranno – iniziano ad avere effetto – saranno considerate una dichiarazione di guerra, e quindi non sarà più contro la sola Ucraina che la Russia, malgrado la pazienza portata, sarà in guerra, ma contro tutti i Paesi che sostengono l’Ucraina. Contro il nostro, la Francia, per esempio. Quel che dice è allucinante ma lo dice alle assistenti di volo usando un tono ragionevole, umano, e se già ci sembra spaventoso che la nostra sorte, di noi tutti, dipenda da un uomo che non ha scampo, di colpo ci chiediamo se non sia ancora più spaventoso che quell’uomo non abbia affatto l’aria di non avere scampo. 


La manifestazione
Lionia, che davvero si fida di me, su Telegram mi ha inserito nella chat di un gruppo che di ora in ora dà notizie del fronte «anti-guerra» e annuncia manifestazioni di massa per domenica 6 marzo alle 14, nel centro di tutte le grandi città russe. C’è la lista dei luoghi di convergenza, e a Mosca è piazza Manezhnaja, accanto al Cremlino. Visto che in tempi normali in Russia una manifestazione non può avere più di dieci partecipanti, visto che le autorità devono essere avvertite due settimane prima e visto che i tempi non sono per niente normali mi domando con un certo timore come si svolgerà. Risposta: come una passeggiata. Meno giovani di quanti mi aspettavo, nell’insieme; gruppi di famiglia, in alcuni casi; le persone fanno come se approfittassero di una fredda ma soleggiata domenica di primavera per passeggiare intorno al Cremlino. Formano un fiotto umano non troppo denso, non troppo organizzato, che filtra attraverso i bastioni delle Omon, le forze speciali di polizia, che reagiscono in modo aleatorio. Numerosissimi, numerosissimi davvero, gli agenti Omon; sono anche piuttosto nervosi, alcuni fanno cordone, altri pattugliano, ma si direbbe che nemmeno loro abbiano ricevuto ordini precisi. Chi manifesta incrocia o ne sorpassa un gruppo, e loro possono far finta di nulla, accettare che tu stia piacevolmente bighellonando; oppure possono dirti più o meno delicatamente di circolare – mi è successo diverse volte, e mi hanno fatto più paura che male – e può anche succedere che all’improvviso in tre o quattro si mettano a inseguire qualcuno, a pestarlo di brutto, a trascinarlo alle camionette. Perché quella persona in concreto e non un’altra, visto che nessuno porta striscioni o cartelli, né urla slogan? Perché, come dice un proverbio, ogni chiodo che sporge non richiama un martello? Assistiamo ogni minuto alle diverse forme di violenza, sappiamo che essere arrestati in quel modo è una faccenda molto grave, anni sottochiave in carcere, e subito dopo la manifestazione scoprirò che quasi 5.000 persone sono state arrestate, domenica, in Russia; tuttavia quest’ultima è una misura sporadica, non scatena mai una vera reazione, non si trasforma mai in uno scontro in piena regola. A più riprese ho temuto che i cosmonauti, che è come la gente chiama le Omon, caricassero o addirittura sparassero. Non è accaduto, la manifestazione si è dispersa nello stesso modo indefinito con cui si era formata. Ero venuto con un giornalista francese, con sua moglie, russa, e con la fotografa, russa anche lei. Mi piacerebbe poter scrivere i loro nomi ed esprimere così tutta la mia gratitudine, perché da solo mi sarei cagato sotto molto di più. Tutti e quattro, mentre andavamo via, abbiamo provato una specie di sfinimento, difficile da definire e persino da confessare.
Se il pericolo può galvanizzarci, ecco, non ci ha galvanizzati. Gli sguardi non si sono accesi, anzi, nemmeno s’incrociavano. Nessuna esaltazione, nessun respiro profondo, nessuno slancio. Nessuna vera convinzione di essere insieme, di uscirne vincitori, di morire magari, ma di uscirne vincitori, per i nostri figli se non per noi stessi; per un ideale, per la libertà. «Gli ucraini sono eroi, mi diceva Irina, noi russi invece viviamo nella paura». Non è vero, non tutti, e voglio tenere a mente le ragazze che escono a manifestare da sole, al freddo, con il loro cartello; e persino il piccolo nazista, se davvero esiste. Tuttavia, l’impressione che ho avuto durante quella manifestazione è stata che la gente fosse lì a camminare contro la guerra per principio, per onore, per superare la paura, ed è una cosa bella, ma che quasi tutti – e finire l’articolo in questo modo mi mette una gran voglia di piangere – sanno di essere praticamente spacciati.


(Traduzione di Monica Rita Bedana e Fabio Galimberti)


La versione originale di questo testo, che Repubblica offre in esclusiva per l’Italia, è stata pubblicata sul Nouveul Observateur nell’edizione del 10/3/2022