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 2022  marzo 13 Domenica calendario

La Cucina politica

Notizie tratte da

Cucina politica: Il linguaggio del cibo fra pratiche sociali e rappresentazioni ideologiche
a cura di Massimo Montanari Laterza 2021

27 Agostino, De libero arbitrio, II, 7, 17: «sebbene l’oggetto sia uno solo e i nostri sensi distinti, a te il tuo e a me il mio, entrambi percepiamo un solo odore e un solo sapore. Tuttavia tu non lo percepisci col mio senso né io col tuo oppure con un altro determinato senso che sia comune ad entrambi, ma per me v’è il mio senso e per te il tuo, sebbene dall’uno e dall’altro si percepisca un solo odore o sapore. Si mostra dunque che questi sensi hanno una tale caratteristica in comune quale gli altri due nel vedere e nell’udire. Ma si differenziano per quanto attiene a ciò che stiamo per dire. Sebbene entrambi aspiriamo attraverso le narici la medesima aria e gustiamo il medesimo cibo, tuttavia io non aspiro la medesima parte d’aria che aspiri tu e non prendo la medesima parte di cibo che prendi tu, ma una io e un’altra tu. Dunque mentre respiro, di tutta una massa d’aria non ne aspiro se non quella parte che mi basta e tu ugualmente di tutta la massa ne aspiri quanto ti basta. Anche il cibo, quantunque sia il medesimo e sia consumato tutto da me e da te insieme, non può tuttavia esser preso tutto da me e tutto da te al modo che io odo tutta una parola e tu la puoi udire tutta nel medesimo tempo. Così tu puoi vedere di una determinata figura tanto quanto ne vedo io. Al contrario è necessario che del cibo e della bevanda una parte passi in me e l’altra in te».

Durante diversi decenni, le negoziazioni ebbero come quadro principale la misera cappella del villaggio in rovina di Leulinghen che offriva il vantaggio di trovarsi esattamente alla frontiera, a uguale distanza da Calais e da Boulogne-sur-Mer – permettendo ai messaggeri inglesi e francesi di arrivare contemporaneamente da due porte differenti, cosa che risolveva in anticipo qualsiasi conflitto di precedenza.

Perché il protocollo non si applicava solamente in quel momento chiave totalmente nuovo che era un’entrata imperiale a Parigi, ma anche alla scelta del colore rispettivo del cavallo del re e di quello del suo invitato, o ancora alle modalità dei pasti officiali (ce ne furono almeno tre, tenuti tre giorni di seguito).




manzo bollito alle rape, cavolo al prosciutto, capponi arrosto ma senza salsa né gelatina e, per finire, qualche frutto.

pasticci di carne di Parma o i “capponi pellegrini”, vale a dire capponi ricoperti di lampreda.


(capponi molto ingrassati, piatti alla crema, arance) che


20 Si tratta di un oggetto ornamentale d’argenteria a forma di nave in uso sulle tavole dei sovrani e dei potenti nel medioevo e in età moderna, anche come contenitore di stoviglie o altri elementi utili ai commensali.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 716

il cibo in eccesso è distribuito tra i servitori, talvolta rivenduto al mercato o magari, se scarsamente appetibile, dato in pasto ai cani.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 731

Caso eclatante è quello del festino organizzato a Roma dal cardinale Pietro Riario in onore di Eleonora d’Aragona il 7 giugno 1473: in totale, ce lo tramandano non meno di undici tra lettere, poemi, elegie, epigrammi o passaggi di cronache4. L’eco

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 738

Per le nozze di Annibale II Bentivoglio, figlio del signore di Bologna, con Lucrezia d’Este, celebrate in forma solenne nel 1487 allo scopo di rilanciare il potere bentivolesco allora in decadenza, si scomodano diversi scrittori e artisti. Probabilmente incaricato

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 750

Cherubino Ghirardacci, cronista di epoca successiva che tuttavia trae le informazioni da fonti coeve, annota che le vivande «prima che fossero presentati avanti, erano portate




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 751

con grandissimo onore intorno la piazza del palazzo per istendere con ordine li servi et anche per farne mostra al popolo, accioché egli vedesse tanta magnificenza»

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 756

«il Beroaldo fa recitare alla folla un ruolo di primo piano: senza di essa, sembra dire, senza il brulichìo, lo spingersi e l’urtarsi, l’arrampicarsi sulle colonne e lo sporgersi dalle finestre, l’ingente apparato perderebbe di senso, resterebbe una forma

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vuota»8. I cortei, le sfilate, le vivande in processione

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 763

Apprendiamo che Maestro Martino, probabilmente il cuoco più conosciuto del

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 764

Quattrocento italiano, ha preparato dei ravioli per una colazione di carnevale, offerta da Paolo II al popolo in piazza San Marco a Roma il 13 febbraio 1466, soltanto

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 778

Verso la metà del XVI secolo Cristoforo Messisbugo, funzionario alla corte Estense, scrive nella premessa al suo trattato sui banchetti: «il banchetto ch’io facevo era tutto ombra, sogno, chimera, finzione, metafora e allegoria»

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 785

«Le quali cose mentre si mangiarono, fece una musica M. Alfonso della Viuola, nella quale erano sei voci, sei viuole, una lira, un laùto, una citara, un trombone, un flauto grosso, un flauto mezzano, un flauto alla alemanna, una sordina e due stromenti da penna, un grande e un picciolo; la qual musica fu tanto bene concertata, che a ognuno pareva essere di quivi alle superne parti passato»

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 789

«quindeci figure, che furono otto mori ignudi e sette femmine ignude, pur more, di pasta di sosameli, con ghirlande di lauro in testa dorate in parte, e concie con certe verdure e diversi fiori, che coprivano le parti che naturalmente si nascondono»15.




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 796

«el Colliseo contrafacto et ornatissimo de oro et per coperta de li piatti del pesce sallato» troneggia in un banchetto romano della

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 808

Il pane giunge subito, dorato alla tavola principale e d’argento alle altre tavole.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 810

Non possono mancare gli animali cotti e poi rivestiti del loro pelo o delle loro piume, crostate, pasticci, biancomangiare... Vi si trovano persino animali travestiti da altri animali, come per esempio «un leon vestito ch’era uno vitello cocto cum la sua pelle portato dignamente nel modo che li altri animali vestiti cum alcuni spiritelli vivi cum la boca aperta piena di focho»19. Tutta la rappresentazione durò

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 816

«un castello pieno di conigli, il quale posato nella sala, uscirono fuore correndo chi qua et là con risa et piacere de’ convitati. Seguitarono poi dietro il castello pasteletti di conigli per cotal modo composti, che non parevano differenti puntino da quelli che dal detto castello erano usciti»,

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 818

«un artificioso castello ove era un grosso porco, et posto nel mezzo della sala, non potendo uscir fuori del castello, gridando drizzavasi in piedi, guardando per li merli hora uno et hora l’altro ruggendo, et

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 820

così affaticandosi et gridando per fuggirsi, apparvero li scalchi con li servi con porchette cotte intiere dorate che in bocca tenevano un pomo»20.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 822

pastello volativo, presente in quasi tutti i ricettari europei di ambito signorile. Si fa cuocere in forno un grosso coppo di pasta, cavo, poi si pratica un’apertura sul fondo, lo si riempie di uccellini vivi e si richiude l’apertura, avendo cura di creare forellini in superficie, per permettere loro di respirare. Quando sarà portato in tavola e tagliato come se si trattasse di un pasticcio edibile, gli uccellini voleranno via tra lo stupore generale. Maestro

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 830

pavoni vestiti con le loro penne a guisa che facessero la ruota, e a ciascuno de’ signori ne fu presentato uno, havendo uno scudo al collo con l’arme sua. Poi [...] lepri vestiti con la lor pelle, che stavano in piedi, come vivi, con caprioli parimente con la lor pelle. Erano cotti in guazzetto questi animali e tutti gl’animali et uccelli che




furono portati in tavola cotti, erano tanto artificiosamente fatti et addobbati con le loro penne et pelli che si mostravano vivi.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 833

Dietro a questo vennero le tortore, fagiani, che dal becco loro ne uscivano fiamme di fuoco22.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 836

ricetta di Maestro Martino «per fare pavoni vestiti con tutte le sue penne che cocto para vivo et butte foco pel becco». «In prima se vole amazare il pavone con una penna, ficcandoglila sopra al capo, o veramente cavargli il sangue sotto la gola como ad un capretto», spiega Martino. Una volta ucciso, la sua pelle deve essere incisa superficialmente, dalla gola alla coda, e staccata dal corpo integra e completa di penne e piume, avendo cura di lasciare attaccati

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 839

alla pelle stessa la testa e le zampe. Si arrostisce poi allo spiedo la carne, aggiungendo spezie ed erbe aromatiche e umettando di tanto in tanto il collo, che altrimenti potrebbe staccarsi. Raggiunto il grado desiderato di cottura, il pavone è rivestito con la pelle e “ricostruito”: per farlo stare in piedi, si nascondono al suo interno dei supporti di ferro. Ecco gli ultimi consigli di Martino:

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 849

Sempre in Maestro Martino possiamo ricordare la minestra di uova di trote che sembrano piselli, quella di lattughe che sembrano zucche, le frittelle a forma di pesce dove è una formina di legno a restituire le fattezze del pesce alla sua stessa polpa, alla quale sono aggiunte erbe e spezie, le frittelle piene di vento, che sembreranno piene e saranno vuote, e via dicendo24.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 875

non più di tre arrosti e tre lessi, i tre arrosti possono comprendere un solo tipo di selvaggina, escludendo comunque i pavoni; seguono poi i divieti per pasticci, biancomangiare, lavori di pasta e canditi; una torta, una sola, è consentita. Si vietano il pesce e le ostriche nei banchetti di sola carne. La norma si chiude con le multe e le punizioni destinate ai trasgressori, ai cuochi e ai «soprastanti agli ordini de li conviti». Cuochi e soprastanti dovranno pagare la metà rispetto a

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 878

coloro che hanno commissionato il banchetto ma, se impossibilitati a pagare, riceveranno «tre tratti di corda, da darseli publicamente in piazza»27.




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 978

Fanciullo ancora appalesò il suo genio per la scultura: contava dodeci anni quando trovandosi egli nel palazzo de’ Predazzi vicino a Possagno, abitazione de’ nobili veneti Falier, ivi solito villeggiar il Padre colla numerosa figliuolanza, ed essendo il Canova un giorno in cucina quando per un pranzo venuti essendovi molti ragguardevoli soggetti, e commensali; mancava per caso la figura, che star doveva nel mezzo del desser [sic], ed egli presosi un pezzo di butirro, e da questo con raro disegno e maestria formò un leone che collocato nella mensa con istupore si ammirò da tutti i convitati.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1207

3 Nella colazione fatta «all’ultimo di Maggio. In giorno di Venere in Trastevere», in un giardino, «era posta la Tavola, con tre tovaglie, adornata con diversi fiori, & frondi, la Bottiglieria con diversi vini dolci, & garbi, la Credenza ben fornita di varie sorti di tazze d’oro, d’argento, di maiolica, & di vetro»; il primo servizio era accompagnato da statue di zucchero, quelle di «Diana con la luna in fronte, con l’arco, & cane al laccio» e delle sue cinque ninfe; dopo aver levato la prima tovaglia, il secondo servizio prevedeva come accompagnamento – appunto – sei statue di burro, «Uno Elephante con un Castello su la Schiena, Hercole che sbranava la bocca al lione, Il gran villano di Campidoglio, Un Camello, con un Re moro sopra, Un’alicorno che habbia il corno in bocca al serpente» e «Il cignale di Meleagro con la frezza

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1328

tra i concessionari di mulini da frumento nella Città del Messico degli anni Venti del Cinquecento (la prima raccolta di grano risale al 1524, cioè a soli tre anni dalla Conquista) figura nientemeno che Hernán Cortés

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1333

Bernal Díaz ricordava, con lo stesso orgoglio con cui avrebbe potuto rammentare la sua partecipazione a un vittorioso fatto d’arme, di aver piantato per primo degli aranci in Messico.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1340

il cibo spagnolo faceva quindi gli spagnoli, non solo in termini di carattere, gusti o identità culturale e religiosa ma anche e soprattutto in senso strettamente fisiologico12. Nei territori transatlantici, tutto ciò induceva un’apprensione, una sorta di ansietà profonda che pervadeva l’esperienza coloniale: nutrirsi di cibi locali avrebbe infatti messo a rischio l’essenza stessa dei corpi europei, passibili di trasformarsi in corpi indigeni.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1379

Il paragrafo dei Primeros memoriales nel quale «si dicono i tipi di cibi e bevande dei governanti e delle stimate nobildonne» contiene, infatti, un elenco di pietanze che comprende almeno sei tipi di tortillas, tre di tamales, undici varietà di bevande




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1381

a base di cioccolato e una di octli (fermentato di agave). Segue una sezione dedicata ai cibi consumati da chi «è solo ricco» – cioè non nobile – e include un tipo di tortillas, uno di tamales e sei altri alimenti (come pesci, rane, gamberetti, ecc.); la parte finale del paragrafo dettaglia infine i cibi della gente comune, tra i quali cinque tipi di tortillas, due di tamales e una serie di alimenti “poveri” come vermi e larve18.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1406

Allo stesso modo, dei tamales detti cuatecujcujlli (lett. “con la parte superiore dipinta”) si dice che sono «bianchi e a forma di pagnotta, fatti non del tutto rotondi né ben quadrati. Hanno nella parte superiore una chiocciola dipinta dai fagioli che vi sono mischiati». In alcuni casi, la familiarità del francescano con le preparazioni indigene affiora nella forma di apprezzamenti gustativi, come nel caso in cui le tlaxcalpacholli (“tortillas piegate”) sono definite «molto buone»

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1411

un piatto di cavallette è definito «cibo molto

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1557

Tra le principali categorie di alimenti del mondo nahua ricordiamo le tortillas (tlaxcalli), una sorta di “piadine” di mais o di altri vegetali affini cotte alla piastra; i tamales (tamalli), pagnottelle di pasta di mais, ripiene degli ingredienti più vari, avvolte in brattee

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1560

di mais e cotte al vapore; gli atoles (atolli), sorta di “porridge” ottenuti disciogliendo in acqua l’impasto di mais e aggiungendovi altri ingredienti; le zuppe (tlaolli, letteralmente “grani di mais”); le salse (molli), realizzate con una grande varietà di peperoncini e altri ingredienti; tra le bevande quelle di gran lunga più comuni erano a base di cacao (cacaoatl) e il fermentato di agave oggi noto come pulque (octli).

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1585

il colore nero del pane, il sapore di terra, l’odore disgustoso, la farina nuova avariata o viziata da miscele che avrebbero potuto rendere velenoso il cibo destinato a sostenere la vita. Tutta la città era dominata da un terribile sospetto e serpeggiava una furia sorda che aspettava solo un’opportunità e un motivo preciso per scoppiare in aperta violenza4.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1599

Da parte sua, Bertier fu rimproverato dalla folla per averle fatto mangiare pane di pessima qualità e quando fu riportato a Parigi dopo il suo arresto, la folla gettò del pane nero nella sua carrozza gridando: «prendi, miserabile,




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1600

ecco il pane che ci facevi mangiare!»8.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1631

Come i vermi nella carne avariata servita ai marinai della corazzata Potëmkin, la carenza di pane del 1789 costituì la causa scatenante e il fattore legittimante della violenza popolare.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1636

il suo pieno consenso alla liberalizzazione del commercio dei cereali propugnata dai fisiocratici e attuata dal ministro Turgot nel 177417.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1644

dopo l’arrivo del re, a Parigi tornò anche l’abbondanza: «il popolo ha pane migliore e più sano e lo trova senza difficoltà»19. «Per

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1653

La questione fu sollevata al processo contro Maria Antonietta nell’ottobre 1793, dove la pubblica accusa sostenne che la regina stessa avesse provocato la penuria e il momentaneo ritorno dell’abbondanza di pane.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1657

L’ampia disponibilità di pane fu però di breve durata e ben presto le file davanti alle panetterie tornarono a crescere. Il 21 ottobre 1789, lo sfortunato fornaio François fu trascinato fuori dal suo negozio e giustiziato sommariamente da facinorosi che lo accusavano di essere un accaparratore.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1685

re inteso come «fornaio di ultima istanza»,

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1716

Solo nel 1709 vi furono ben 148 tumulti dovuti

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1766

Fra i provvedimenti stabiliti da Carlo Magno, quello che impressionò maggiormente i politici e gli storici dal secolo XVII in avanti fu l’adozione di prezzi fissi per i cereali.




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1987

Per ironia della sorte, questa espressione fu usata da Luigi XVIII durante il viaggio da Parigi a Gand dopo il ritorno di Napoleone dall’isola d’Elba. Quando gli dissero «avevamo un pâté e del vino di

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 1988

Bordeaux, ma ci siamo dimenticati di portare del pane», questa circostanza gli richiamò alla mente un aneddoto riguardante la regina Maria Teresa, moglie di Luigi XIV, e quindi rispose: «un giorno, quando il popolo si lamentò con lei per i poveri che non avevano pane da mangiare, ella affermò: “Ma, mio Dio, perché non mangiano la croûte del pâté?”».

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2007

Nel dibattito della Convenzione nazionale fu menzionata l’affermazione «Sous un roi nous avions du pain» (1791) durante la seduta del 10 dicembre 1792.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2010

Nel 1859 il nuovo re delle Due Sicilie Francesco II iniziò a liberalizzare il commercio del grano. Il vecchio re a cui facevano riferimento i rivoltosi era il padre di Francesco, Ferdinando II, che aveva mantenuto il tradizionale controllo regio su quel mercato.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2124

l’Unesco abbia incluso nel patrimonio culturale immateriale anche qualcosa di così vago come il pranzo dei francesi:

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2128

Auguste Escoffier aveva definito la cucina francese una branca della diplomazia9. E

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2131

tutta nazionale – di prodotti come la baguette (di recente promossa da Emmanuel Macron in sede Unesco insieme al bistrot) o di pratiche e saperi come l’arte del pizzaiolo napoletano, patrocinata sempre in sede Unesco dall’Italia. Alcuni di questi aspetti sono trattati in altri

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2149

La Varenne Le vray cuisinier françois (1651), il cui titolo non evocava la corte o le tavole dei signori ma una cucina presentata come francese.




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2151

Certo però anche per il rapporto tra la nazione e la gastronomia (termine nato in Francia proprio in età rivoluzionaria) il vero momento di svolta fu proprio la rivoluzione francese. E non è forse dunque solo un caso se la leggenda collega la nascita del Camembert, vero e

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2153

proprio simbolo nazionale, a quella temperie14.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2193

Negli Stati Uniti di recente formazione il mais divenne uno strumento politico per l’autodefinizione della cucina americana in opposizione a quella britannica18.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2195

tacchino, anch’esso originario dell’America, fu il piatto d’onore del Thanksgiving cui dette forma nel 1846 Sarah Josepha Hale. Utilizzare i nuovi cibi significava implicitamente o esplicitamente prendere le distanze dalla cucina inglese,

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2207

In Europa un po’ dovunque le donne scrissero ricette e pubblicarono libri di cucina. Il fenomeno fu diffuso nella Mitteleuropa. In Boemia Magdalena Dobromila Rettigová dette forma alla cucina ceca, e a Vienna Katharina Pratoprovera (più nota come Prato) pubblicò un fortunato testo di oltre settecento pagine che celebrava la cucina austriaca. In una Danimarca che si confrontava con ingenti perdite di territorio, ricettari di famiglia richiamarono all’identità danese e promossero il consumo di prodotti nazionali: anche questi aspetti diventavano decisivi per l’educazione dei nuovi cittadini.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2218

al tradizionale pot-au-feu francese, simbolo della condivisione del cibo in famiglia e sineddoche dello stare insieme della famiglia nazionale).

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2220

in Prussia troviamo i Louisentörtchen, le paste intitolate alla regina Luisa di Prussia che era stata l’icona delle guerre di liberazione antinapoleoniche, e più tardi la bistecca alla Bismarck; in Italia la pizza Margherita; in Spagna la sobrasada che portava il nome del re Martino I di Aragona; in Gran Bretagna il filetto alla Wellington, intitolato al vincitore di Napoleone, i Victoria Sandwiches o il Prince Albert Pudding, ma anche i biscotti intitolati a Garibaldi che aveva visitato l’Inghilterranel 1854 suscitando un’immensa simpatia e che celebravano un’icona nazionale apprezzata dagli inglesi. Nell’impero asburgico, che per certi versi utilizzava pratiche discorsive simili a quelle delle nazioni, trionfava il Kaiserschmarren di cui era ghiotto Francesco Giuseppe ma la cui origine si voleva far risalire alla cucina dei pastori austriaci del Settecento.





Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2229

washoku (cucina giapponese), oggi saturo di un senso di continuità senza tempo e di autenticità dalle antiche radici19.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2248

In Europa, dopo la disfatta della duplice monarchia nel 1866, gli ungheresi nazionalizzarono il gulasch, una specialità del Sud fino a quel momento non considerata particolarmente appetibile né connessa all’identità nazionale22:

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2308

Nel 1997 il rapporto Gallup individuò nel curry il piatto preferito dagli inglesi e nel 2001 il ministro degli Esteri Robin Cook dichiarò il chicken tikka masala piatto nazionale britannico.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2327

Lione hanno tentato di mettere in piedi una marche des cochons. Hanno organizzato soupes identitaires a base di maiale e aperitivi intitolati al vino e alla salsiccia di suino chiamati appunto Apéro saucisson et pinard.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2331

couscous è un piatto presente fin dal 1891 anche nella bibbia della cucina italiana, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi. Dal

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2332

Dal canto sua la socca, quasi identica alla cecina livornese, alla farinata di Genova o alle panelle siciliane, non è altro che una preparazione a base di farina di ceci tipica proprio del Maghreb e poi diffusasi a partire dalle città di mare del Mediterraneo.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2336

L’intreccio tra islamofobia e identità - questa volta forse più regionale che nazionale - è emerso nel 2019 in Italia in occasione della festa di San Petronio, patrono di Bologna. Accanto a cinquecento chili di tortellini a base di carne di maiale erano stati serviti anche cinque chili di tortellini con il ripieno a base di pollo. Sono esplose fake news e reazioni sproporzionate sia all’evento che all’esigua quantità di tortellini offerti a chi non voleva mangiare carne di maiale, mentre oltre a vari gastronomi bolognesi è intervenuto anche Romano Prodi dalle pagine del «Messaggero». Del resto le più antiche ricette di tortellini e in particolare quella accuratamente descritta dall’Apicio moderno di Francesco Leonardi - è stato da più parti sottolineato - non prevedevano il maiale, che aveva cominciato ad esser parte integrante dei tortellini solo a partire dalla ricetta resa canonica da Artusi. Ma tant’è: una tradizione inventata e “nazionalizzata” ha offerto il destro a un movimento populista per creare un affaire ed erigersi a difesa della comunità.



Al fine di combattere le adulterazioni e le frodi alimentari, nel Regno Unito venne varato il Sale of Food and Drug Act nel 1875 e un analogo provvedimento venne preso in Germania nel 1879, il Nahrungsmittelgesetz2; essi prevedevano delle ispezioni di polizia nei luoghi di produzione e di commercio del cibo al fine di monitorarne la qualità.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2445

Vennero introdotte inoltre delle misure di regolazione e controllo della macellazione del bestiame3, tolta dalle strade e concentrata in appositi stabilimenti soggetti a controllo sanitario e collocati nelle zone periferiche delle città; analoghe disposizioni riguardarono i mercati urbani, ospitati all’interno

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2448

edifici moderni che garantivano condizioni igieniche certamente migliori rispetto al disordinato commercio di strada.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2456

FINO A QUI

alla vigilia della Prima guerra mondiale i paesi più ricchi d’Europa, il Regno Unito e la Germania, avevano una spesa pubblica pari a circa il 15% del Pil. L’impegno bellico portò questa spesa ben oltre il 50% e, nonostante il ridimensionamento avvenuto con la transizione all’economia di pace, nel periodo tra le due guerre rimase intorno al 25% nel Regno Unito e tra il 25% e il 30% in Germania4. Gli Stati spendevano di più perché si trovarono a pagare pensioni, assistenza sanitaria, istruzione e, appunto, cibo.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2469

Nei quarant’anni che precedettero la guerra, infatti, nel Regno Unito la produzione di grano calò di un terzo, quella di orzo del 20% e la produzione di patate rimase inalterata, nonostante l’impressionante incremento della popolazione prossimo al 40%. In Germania, al contrario, dove l’incremento della popolazione era stato simile, il grano era aumentato del 40%, la produzione

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2471

di segale, molto usata per la produzione del pane, era raddoppiata, l’aumento della produzione dell’orzo era prossimo al 30% e quello delle patate al 70%. In Germania era aumentato del 30% anche il numero dei bovini, più del 150% quello dei maiali, mentre nel Regno Unito erano diminuiti tra il 10 e il 15%. Al momento dello




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2484

Sul piano della produzione gli Stati intervennero fissando i prezzi per legge, ma la politica dei prezzi ebbe conseguenze molto diverse che spiegano le differenze di performance tra Germania e Gran Bretagna. La Germania, con l’intento di favorire

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2506

white loaf, la pagnotta di pane bianco, era

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2526

All’indomani della rivoluzione di ottobre, i bolscevichi considerarono l’economia di guerra come una sorta di anticamera dell’economia socialista. L’abolizione del denaro era il corollario di questa politica nella quale si fondevano misure coercitive e slancio utopico. In verità, il significato economico del denaro si era fortemente ridimensionato già nell’ultima fase dell’economia zarista, quando l’inflazione aveva rivitalizzato forme di scambio in natura11. L’abolizione del denaro avrebbe consentito di eliminare gli sprechi legati a una concezione individualistica del consumo, mentre il “salario in natura” avrebbe consentito di commisurare in modo “scientifico” le razioni alimentari alle necessità fisiologiche della prestazione lavorativa12. Il consumo alimentare smetteva così di essere

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2563

come quelle sulla raccolta dei noccioli di frutta finalizzata alla produzione di olio; oppure adottava un’iconografia vagamente Jugendstil che emulava

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2574

il tempio moscovita dei consumi degli anni Venti, i magazzini Mossel’prom, vi sono

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2617

pane nero, che nell’ultima parte della guerra venne prodotto mescolando fecola di patate, segale, ghiande, un

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 2628

La propaganda promosse anche una specifica ritualità collettiva, come ad esempio la Eintopfsonntag (fig. 2). A tutti i tedeschi veniva chiesto di rinunciare al pranzo domenicale sostituendolo con una zuppa che spesso veniva consumata collettivamente nelle piazze di paese o in edifici municipali, dove alti gerarchi si facevano fotografare mentre la mangiavano assieme alla gente comune; anche i ristoranti venivano invitati a servirla. I militanti del partito giravano poi per le case a raccogliere




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50 centesimi per famiglia che corrispondevano al risparmio privato ottenuto grazie alla rinuncia al pranzo domenicale. Era una campagna che si svolgeva tra ottobre e marzo e andava a finanziare il Winterhilfswerk, una organizzazione caritatevole istituita già nel 1931, ma che fu valorizzata soprattutto durante il periodo nazista. La zuppa vegetale con qualche pezzetto di carne era una pietanza piuttosto diffusa in Germania fin dall’epoca pre- industriale. Progressivamente era divenuta tuttavia il simbolo del cibo misero, utilizzata nelle mense dei poveri nel periodo guglielmino e durante la guerra mondiale, quando era diventata un piatto che raccoglieva il poco che si riusciva a mettere assieme. Durante l’alta congiuntura weimariana questa pietanza era scomparsa dalla scena per ritornarvi prepotentemente dal 1930, quando quote crescenti della popolazione dovettero rivolgersi alle mense popolari perché ridotte in povertà o disoccupate.

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la riduzione del consumo di carne considerato antipatriottico. La

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piano Beveridge del 1942, la cornice delle politiche

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Le distruzioni della guerra proiettarono una crisi alimentare gravissima nel 1946-1947, a causa della quasi estinzione del bestiame da allevamento, della carenza dei fertilizzanti e della disgregazione del tessuto produttivo.

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Egli osservò che fra il 108 a.C. e il 1911 «ci furono 1.828 carestie da qualche parte in Cina», quasi una ogni

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residenti in campagna dovevano arrangiarsi portando con sé un sacchetto di cereali, di qualsiasi tipo, utilizzandolo come moneta di scambio per acquistare

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La dieta di ogni giorno per le persone comuni, che abitassero in campagna o in città, era molto semplice all’epoca maoista. Essa includeva alcuni

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alimenti cucinati: cereali se possibile, come riso di cattiva qualità oppure pane di grano scuro cotto al vapore, o per le persone più povere altri cereali come il mais, il sorgo o il miglio che poteva essere cotto in polenta e




mescolato con patate o patate dolci, ritenute grossolane. Questi alimenti erano generalmente serviti con qualche verdura cotta e/o con vari sottaceti o peperoncini piccanti secondo i gusti e i costumi della regione. Una zuppa molto magra fatta di qualche foglia di vegetali e qualche volta con ossa di porco, o soltanto il brodo di cottura della pasta erano serviti alla fine del pasto. Gli spaghetti erano considerati un buon piatto, persino lussuoso, e i ravioli erano una pietanza di festa, preparata per la vigilia dell’anno nuovo nella Cina del Nord. La carne o il pesce erano generalmente riservati per i pranzi di matrimonio o per speciali meeting comunisti.

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Mao era ghiotto di alcuni piatti che gli piacevano più di tutti, come il porco cucinato in salsa rossa. Lo

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Quando dovevano mangiare in una mensa ordinaria, venivano loro serviti dei piatti speciali in luoghi separati, non visibili agli altri.

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Ricordo anche il menù che avevano per pranzo i tre o quattro lavoratori nella piccola sartoria vicino al nostro campus. Una volta li vidi seduti intorno a una stufa (durante il freddo inverno

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7 Secondo la classificazione maoista delle classi. Le “classi buone”: i dirigenti rivoluzionari, i soldati, i martiri, i lavoratori dell’industria, i contadini poveri e della classe medio-bassa. Le “classi medie”: la piccola borghesia, i contadini medi, gli intellettuali. Le “classi cattive”: i proprietari, i contadini ricchi, i capitalisti. Cfr. Frank Dikötter, The Tragedy of Liberation. A History of the Chinese Revolution 1945-1957, Bloomsbury, London 2013, p. 55.

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Sandro Pertini che si gusta i suoi ravioli «con il ripieno composto di borraggine, bieta, un

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po’ di cervella e prescinsöa», la cagliata ligure.

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Longo che intervistato da «l’Espresso» dichiarava: «Sono bravissimo in casa e soprattutto in cucina». Specialità? «Spaghetti all’amatriciana, penne alla vodka, brasato, saltimbocca alla romana...». E le ricette? Essendo la ricetta un testo didattico e




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vino Sauternes, che sviluppa i suoi aromi unici grazie alla botrite, e il formaggio Roquefort, con le sue venature blu-verdi generate dal penicillium roqueforti. La prelibatezza messicana huitlacoche è il risultato del fungo patogeno Ustilago maydis. Formaggi

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yogurt sono il risultato dell’azione di batteri, anche se diversi paesi hanno preso posizioni abbastanza rigide su prodotti a latte crudo, al di là delle innegabili qualità organolettiche. I processi di fermentazione sono centrali nella preparazione di specialità che vanno dal kimchi coreano alla kombucha e ai kiszonki, le verdure fermentate polacche. Senza poi parlare dell’azione dei lieviti del pane...

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Ognuno di noi è uno zoo a sé stante

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una colonia racchiusa in un unico corpo. Un collettivo multi-specie. Un mondo intero... Anche un singolo animale è pieno di ecosistemi. Pelle, bocca, intestino, genitali, qualsiasi organo che si collega al mondo esterno: ognuno ha la propria comunità caratteristica di microbi11.

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Se considerati da lontano, fra greci e turchi, come insegnano le rispettive cucine, c’è molta affinità, sembra mangino le stesse cose. Se visti da vicino si coglie invece il baratro che li divide, il quale sta, sempre considerando la cucina come parametro esemplare, nel modo diverso in cui usano le medesime spezie, i medesimi ingredienti. Laddove i primi nascondono aglio

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e cipolla nelle carni dell’agnello prima di metterlo in forno, i secondi ne cospargono la superficie, come a donargli un nuovo vello. Ma il sapore, alla fine,

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l’uomo è naturalmente onnivoro ma culturalmente schizzinoso.

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il commestibile è la materia (come il noumeno kantiano, puramente pensabile, ideale e astratta, senza alcuna manifestazione sensibile), mentre il mangiabile è la sostanza,




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Se un musulmano mangia del maiale, o l’indù della carne di vitello, vomitano all’istante,

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se un occidentale mangia carne di cane o di scimmia sta male,

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il ristorante come istituzione moderna, ed estremamente resistente nel tempo e nello spazio, nasce a Parigi nella seconda metà del Settecento, e si diffonde in modo esponenziale dopo la rivoluzione del 1789. Così, il luogo testuale del ristorante deriva da un

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Laddove i borghesi rivoluzionari stanno nelle strade e nelle piazze a parlar di politica, diffondendo la famigerata opinione pubblica, i cuochi più o meno raffinati delle grandi famiglie aristocratiche restano senza lavoro. Ai loro padroni è stata tagliata la testa, o i più fortunati dei nobili sono riusciti a emigrare. Che fare? L’unica è usare la propria competenza culinaria altrove, in città, dando da mangiare – e bene – ai Robespierre, ai Marat e soci che, dal canto loro, tra una discussione accesa e una votazione per acclamazione, hanno bisogno e voglia di un luogo dove ristorarsi.

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ristorante (nome di un brodo, sembra, prima ancora che di un luogo)

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Nei luoghi di ristorazione sino a quel momento diffusi nel mondo – taverne, locande, osterie, stazioni di posta, ecc. – questa separazione non c’era: si cucinava nello stesso ambiente dove si mangiava, spesso tutti insieme, accomodati in lunghi tavoli d’appoggio. Chi preparava il cibo, buone o cattive che fossero le sue pietanze, era ben visibile a chi stava lì seduto a mangiare, e viceversa. Viene da chiedersi: perché l’edificazione di quel muro?

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 4116

il muro serviva a tenere in ombra delle persone che, sino a poco tempo prima, avevano avuto a che fare con le famiglie nobili, anzi sostanzialmente ne facevano parte. Persone che avevano a dir poco paura di fare la stessa fine dei loro padroni, dunque si guardavano bene dal mostrarsi in pubblico, di rivelarsi ai loro commensali più abituali, ossia proprio a quelli che avevano tagliato la testa a principi e marchesi,

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Si ripensi ancora al celebre Babette’s Feast, racconto e film: si ricorderà che la vicenda si svolge all’epoca della Comune di Parigi. Babette è la sublime cuoca del Café Anglais, che dal chiuso della sua cucina offre i propri




manicaretti al Generale Galliffet, ovvero proprio a colui che ne ha messo a morte il marito e il figlio. Il Generale ha distrutto la sua famiglia, ma lei lo ingabbia – seducendolo ad arte – con brodo di tartaruga e cailles en sarcophage. Cambiati i tempi e gli attori, ma non gli spazi, l’isotopia politica di fondo è la medesima

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 4170

senza grassi, senza zuccheri aggiunti, senza uova, senza carne, senza carboidrati, senza solfiti, senza olio di palma, senza glutine... Mangiano

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la parola “dieta” deriva dal greco antico dìaita che significa “modo di vivere”, “abitudini quotidiane”. La dietetica antica comprendeva non solo la regolazione del cibo, ma anche di tutte le attività giornaliere che riguardano in vario modo il corpo: dormire, mangiare, bere, fare esercizi fisici, i bagni, il sesso, e persino gli effetti somatici degli stati d’animo. Per

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Giacomo I Stuart, ad esempio, avvertiva il figlio che la vera natura di un re si coglie dalla sua condotta a tavola: un sovrano deve essere in grado di esibire autocontrollo5.

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Diversa, nelle sostanze ma non nelle forme, la storia dei coloni inglesi che si chiedevano se fosse il caso di mangiare il cibo degli indigeni, senza correre il rischio di mutare la propria natura e trasformarsi nei popoli sottomessi6: la

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dieta del Paleolitico

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Per molto tempo, l’eccesso alimentare è stato il segno di una posizione sociale privilegiata, mentre la magrezza lo è stata di povertà, deprivazione e anche malattia. Nelle corti medievali, il cavaliere doveva essere vigoroso, possente, grasso ma non troppo. Il peso non veniva stigmatizzato di per sé, a meno che non si fosse in presenza di un “troppo grasso”, di un’abnormità talmente evidente da sconfinare nel mostruoso e nell’inadatto: ad esempio, il peso non doveva essere tale da rendere impossibile salire a cavallo e combattere11. Con il Rinascimento, le cose iniziano a cambiare, perché se la magrezza è ancora stigmatizzata come espressione di malattia e povertà, la grassezza lo diventa di pigrizia, lentezza: quello, del resto, è il periodo della celebrazione della vita attiva, dell’uomo laborioso, veloce. Tra il Sei e il Settecento si diffondono pratiche e strumenti di compressione delle morbidezze sotto gli abiti femminili: corsetti, busti, cinture, lacci e apparecchi di modellamento e snellimento visivo. È in particolare sul corpo femminile che inizia a mutare il giudizio sul grasso: se quello maschile può essere ingombrante, quello femminile, già dai tempi delle corti medievali, è




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bene che sia gracile e leggero. È solo nell’Ottocento che anche i fisici maschili si devono modellare con cinture, gilet e abiti che stringono la vita. Il corpo molle e pingue va tonificato, rinvigorito perché segno di inefficienza, inattività. Saponi, pastiglie, bagni freddi e perfino l’elettricità servono a tonificare, stimolare i muscoli e riattivare la nervatura. E così le pance grasse dei borghesi, degli intellettuali, dei politici diventano oggetto di caricature e vignette satiriche. Il grasso si fa stigma sociale e oggetto di scherno politico.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 4435

Alla fine dell’Ottocento, un chimico e agronomo, Wilbur Atwater, inventò una macchina per misurare le calorie prodotte dall’uomo dopo i pasti e divulgò l’idea dei “macronutrienti” (carboidrati, proteine, grassi, ecc.). Iniziarono a diffondersi manuali di dietetica e consigli igienico-alimentari fondati

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(si pensi proprio all’invenzione della caloria come unità di misura da parte di Lavoisier)

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«La morale è sempre quella, fai merenda con Girella!» È la fine degli anni Settanta, e con questo celebre slogan l’azienda Motta decide di promuovere il rotolino di pan di Spagna farcito con crema al cacao che aveva lanciato nel 1973 e che avrebbe fatto la storia delle merendine per bambini. Si trattava dell’ultima innovazione in un mercato che questa stessa azienda aveva praticamente inventato nel 1950 creando il Mottino, versione miniaturizzata del tradizionale panettone milanese, capace di

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il Buondì, che invece risale al 1953.

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Niente Nutella: verrà inventata solo nel 1964. Quello

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(il latino mereo significa “meritarsi”),

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bliss point, il punto di beatitudine




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 4617

La pubblicità del Mottino disegnata da Mario Rossi è un’opera di una modernità straordinaria con il suo preponderante visual e il logo dell’azienda nascosto tra le pieghe del cappello di carta del bambino (fig. 1). Lo slogan dice: «ogni giorno a tutte le ore». Il messaggio è chiaro e semplice: il Mottino non è una merenda come le altre, una di quelle che si può mangiare solo a scuola.

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D’altronde, che l’obiettivo fosse scalzare il pane e latte lo dice già il nome del prodotto.

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9 Va precisato che la Girella nasce in effetti come componente di una linea di merendine chiamate tutte Buondì Motta e di cui facevano parte anche Olandesina, Tortina e Rollino, come si vede da un’altra pubblicità, sempre del 1973, che non riportiamo. A quel tempo non si parlava ancora di eroine indiane e golosastri, tuttavia deve essere subito apparso evidente che in questo modo l’identità del Buondì si sarebbe sbiadita, stemperandosi in una molteplicità di forme e dunque si è subito corretto il tiro dando tanto al Buondì quanto alla Girella un carattere specifico che, come abbiamo visto, riguarda tanto le storie in cui si inserisce quanto i target cui si rivolgono. 10 Sull’idea che il testo sia il

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Uno degli elementi che contraddistingue la nascita dei ristoranti in Francia nel Settecento è la separazione tra i tavoli, per la prima volta assegnati a gruppi predefiniti di commensali. La proposta della neonata istituzione ristorativa è cioè quella di recarsi in un luogo in cui condividere l’esperienza gastronomica con un gruppo di conoscenti definito a priori e solo con quelli. I nuovi ristoranti si differenziano da preesistenti taverne e osterie, caratterizzate invece da ambienti quanto mai caotici, in cui, tra l’altro, ci si accomodava al tavolo come casualmente capitava, anche vicino a sconosciuti.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5270

Nei ristoranti tradizionali, infatti, cucina e sala sono stati a lungo separati, per poi tornare a riunirsi con sempre maggiore frequenza, almeno a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso13. Un’innovazione che Ribbat14 fa risalire a un gesto innovatore di Alice Waters, la rivoluzionaria proprietaria di Chez Panisse a Berkeley, la quale coglie come opportunità l’incendio che nel 1982 colpisce il locale e, influenzata dalle idee di un architetto e urbanista – Christopher Alexander –, decide di non ricostruire la parete incendiata che divideva sala e cucina consentendo ai clienti di entrare nel retroscena e dandolo a vedere senza imbarazzo. Analogamente,

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5287

L’allontanamento di cucina e zona pranzo rievoca, rinnovandola, l’epoca dell’ancien régime, dove nelle case nobiliari la servitù doveva compiere lunghi, veloci e faticosi percorsi per far arrivare nelle tavole padronali i cibi ancora caldi dalla lontana cucina.




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5465

Giorgio Agamben ha definito il gusto «piacere che conosce, sapere che gode»6

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5468

Come afferma Brillat-Savarin, la facoltà di apprezzamento di determinate pietanze è appannaggio del solo uomo «di classe», l’unico che sa mangiare7. Questa consapevolezza emerge così nei secoli

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5477

Ogni identità si forma sulla base di ciò che esclude e,

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zucchero sia un dispositivo di potere.

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«si dice infatti che non v’è cibo a cui lo zucchero non si sposi»

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la prescrizione di Tommaso d’Aquino per il digiuno quaresimale che non teneva in considerazione lo zucchero, considerato spezia medicinale17

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La storia dell’utilizzo dello zucchero ha inizio con la sua comparsa quale medicinale nel XIV secolo, poi come spezia e come ingrediente nel XV secolo, quindi come decorazione e conservante, fino al suo definitivo posto in qualità di dolcificante ed elemento base dei dessert verso la metà dell’Ottocento. Ma è l’abbinamento con tè, caffè e cioccolato, bevande “moderne” per eccellenza, ad aver fatto esplodere il mercato dello zucchero, divenuto quasi l’unico dolcificante utilizzato18. Esso è protagonista indiscusso della rivoluzione industriale: sostanza che potenzia e stimola, coerentemente con i nuovi princìpi di efficienza e velocità.

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saccaromania” dilagante del XVI secolo, quando lo zucchero è ancora scarso e in pochi possono permetterselo.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5575

Le subtleties che decorano le tavole della nobiltà rappresentano immagini del potere e veicoli di comunicazione sociale: se all’inizio sono solo delle belle figure riprodotte in zucchero o marzapane (ma non solo), un po’ alla volta iniziano a essere usate per comunicare richiami politici, simboli religiosi o altri messaggi specifici.




Nell’Italia rinascimentale, non a caso, prendono il nome di trionfi, a ricordare la vittoria dei raffinati Romani sui barbari volgari. Mangiando questi simboli del potere regale e nobile, gli ospiti convalidano il messaggio in essi racchiuso: le magnificenti coreografie zuccherine diventano strategie per confermare la propria forza a chi rimane sopraffatto di fronte a

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5590

l’associazione tra dolce e rito funebre aiuta dunque a lenire il turbamento dovuto

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5594

Destinate a una vita di silenzio entro le mura del monastero, le monache, tramite forme, sapori e nomi che danno ai dolci – le Minne di Sant’Agata o i Sospiri di monaca – riescono a interagire e ad instaurare relazioni con gli altri.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5642

Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 189-190.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5643

dove in realtà si chiamano andrèia, sono a carico dell’erario pubblico; per il sissizio spartano i partecipanti sono invece tenuti a versare un contributo. Su questo si veda Tommaso d’Aquino, Commento alla Politica di Aristotele, cit., p. 328.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5656

«Gli animali si pascono, l’uomo mangia, solo l’uomo di spirito sa mangiare»: Jean-Anthelme Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto o Meditazioni di gastronomia trascendente (1825), Slow Food, Bra 2014, p. 31.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5684

Cfr. Sidney Mintz, Storia dello zucchero, Einaudi, Torino 1990, p. 103 [ed. or. 1985].

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5706

Kant considerava l’olfatto il senso meno libero perché indipendente dal controllo razionale: se il carattere conviviale di un pasto permette di scegliere cosa e quanto gustare, le sensazioni olfattive non possono invece né essere dosate a piacere né evitate, giacché avvengono quando le molecole odorose sono già state inalate. L’olfatto è dunque pervasivo e indiscreto, causa di immediate e fugaci reazioni tanto di piacere quanto di disgusto. Sempre secondo Kant, mentre le prime sono occasionali, le seconde sono più frequenti, giacché gli elementi maleodoranti prevalgono in natura su quelli gradevoli




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5718

Nietzsche, per fare solo un esempio, attribuisce all’olfatto la capacità di percepire verità superiori a quelle concesse agli altri sensi: «Il mio genio è nelle mie narici» sostiene in Ecce Homo4

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5724

Come ha mostrato in modo insuperabile Proust, l’olfatto è mezzo attraverso il quale fiorisce la memoria involontaria, ossia l’inaspettato riaffiorare di ricordi lontani al ripresentarsi dello stesso aroma. Esso è però anche centrale

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5728

l’odorato sarebbe il risultato dell’evoluzione della prima forma di comunicazione chimica sviluppata dagli organismi acquatici per conservarsi e riprodursi e, nello stesso tempo, esso rintraccia le fonti celate di cibo prevenendone l’ingestione in caso di tossicità. Secondo alcuni psicologi, ciò comporterebbe il suo carattere neofobico; in altri termini, la diffidenza verso odori sconosciuti dipenderebbe dal potenziale pericolo insito nel provare qualcosa di nuovo

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5736

Simmel: «La questione sociale non è soltanto questione etica ma anche una questione di naso»6. L’olfatto è dunque bifronte, come

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5744

nei suoi Saggi Montaigne, citando Plauto, scrive che il più incantevole profumo di una donna è quello che non la fa odorar di nulla7.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5751

Nell’antichità, imperatori e regnanti erano soliti profumarsi in modo invadente proprio al fine di dominare più spazio rispetto a quello occupato dal corpo, usando l’odore come estensione della propria autorità. L’odore può dunque essere verosimilmente interpretato come segno e rivendicazione di

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5772

Lavaggi e profumazioni agiscono tanto sul piano fisico quanto su quello spirituale, come mostrano chiaramente battesimi, abluzioni e l’uso di incensi nei luoghi di culto o nei riti di passaggio.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5774

Consustanziale al respiro, l’olfatto è sempre attivo ma, per evitare un’inutile o dannosa saturazione, esso mantiene alcuni stimoli sotto la soglia di percezione cosciente. Ecco perché, abituati a un odore, si finisce per




non avvertirlo più: quello della propria casa colpisce quando vi si rientra, ma poi sbiadisce; l’odore della “propria terra” diventa saliente nel ricordo dell’esiliato, dell’emigrato o di chi vi fa ritorno. Lo stesso vale per il proprio odore: non si percepisce ciò che emana dalla propria pelle11. Queste considerazioni aprono allora al tema politico perché, se nessuna comunità può dirsi pienamente consapevole della propria identità olfattiva, questa può però evincersi dalla rappresentazione che ne fa un’altra, con conseguenze ambivalenti e tutt’altro che innocue. Negli Stati

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5781

Uniti, per esempio, “garlics” era epiteto comune per gli italiani emigrati che, nelle popolose “Little Italy”, avevano importato il tradizionale largo uso di aglio in cucina. Intrecciandosi alla diffidenza verso un’etnia particolarmente chiusa, il sentore agliaceo assunse valenza derisoria, contribuendo ad atti di discriminazione. In Polonia, lo stesso odore veniva attribuito, in chiave antisemita, agli ebrei. Le associazioni tra odori alimentari e odio razziale sono cospicue. I giapponesi riservano il termine bata kusai, “puzza di burro”, agli occidentali; molte popolazioni vegetariane attribuiscono a chi consuma carne un odore rancido; alle popolazioni medio- orientali è comunemente accordato un odore acre dovuto alle spezie12. Tali osservazioni giocarono un ruolo di spicco negli studi del

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5787

cosiddetto “razzismo scientifico”. Nel 1915 il medico e nazionalista francese Bérillon, per esempio, cercò di dimostrare l’inferiorità della “razza germanica” adducendo come prova anche la sua presunta
“bromidrosi” (sudorazione fetida) causata, tra le altre cose, dalla dieta ricca di grassi animali e cavoli13. E il nazista, come ha scritto Ernst Bloch, puzzerebbe non solo di urina e aria stantia, ma anche di sangue e delle atrocità che ha commesso; esalerebbe, in breve, la sua stessa ideologia14. Si è addirittura ipotizzato che il nesso tra orientamento politico e odorato abbia una base biologico-ereditaria: tendenze conservatrici sarebbero riconducibili all’innata propensione alla repulsione olfattiva. E l’olfatto assolve la sua funzione conservativa – in casi estremi, xenofoba – agendo come una sorta di «gusto a distanza» (Kant): l’olfatto pregusta, pregiudicando

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5799

Nel Manifesto della cucina futurista del 1930, Marinetti e Fillìa riepilogano i punti programmatici di tale rivoluzione artistico-gastronomica dove, in effetti, gli odori ricoprono un ruolo notevole. Non soltanto perché, se ben abbinati, favorirebbero l’apprezzamento

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5801

estetico del pasto, ma anche in quanto fungerebbero da vero e proprio nutrimento fisico e mentale, alimentando fantasia e creatività. Nel “pranzo oltranzista”, per esempio, non si serve cibo ma solo profumi di cui i convitati, digiuni da due giorni, si sazieranno15. Degli odori fu anche largamente sfruttata la potenza evocativa: nel “pranzo eroico invernale” è prevista l’effusione di profumi tipicamente decadenti (rosa, gelsomino, caprifoglio e gaggia) da cui i commensali, combattenti dallo spirito bellicoso e, appunto, “eroico”, dovranno difendersi con una maschera antigas16.




Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5810

sociale risponde a una metafora spaziale – l’alto e il basso – che ha relazione con l’olfatto. Nei quadrupedi, la prossimità del naso al suolo è stata spiegata, dalle teorie evoluzionistiche, in rapporto alle funzioni esercitate. In questo quadro, la graduale atrofizzazione olfattiva nell’uomo è stata associata all’acquisizione della stazione eretta, essenziale al suo divenire razionale e dotato di logos. Ecco, allora, un altro motivo di sottovalutazione dell’odorato: ciò che sta in basso sarebbe animale e istintuale, pura natura, ciò che sta in alto sarebbe umano e razionale, sociale e culturale. I ceti bassi simboleggiano così la materialità e l’immanenza della vita; quelli alti, il distaccamento dalla necessità e lo sviluppo di scienza, arte e cultura. Dove la materia subisce processi di degradazione, lo spirito ne è immune; la prima putrefà ed emana fetore, il secondo resta sempre fresco e profuma.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5820

In La strada di Wigan Pier George Orwell, fedelissimo alla causa socialista ma di origine borghese, imputa all’educazione impartita dal e al ceto medio la radicata convinzione, anche da parte dei bambini, che il proletariato puzzasse

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5832

In un’osteria frequentata da «uomini di fatica», il protagonista assiste a un dialogo tra ubriachi: un vecchio secondino alcolista racconta di una ragazza benestante che settimanalmente va a visitare un detenuto. Essa, finito l’incontro, «esce col puzzo della galera sulle sue vesti eleganti»20, mentre i cenci del galeotto profumano. «E io», conclude la guardia, «resto con l’odore di birra. La vita non è altro che uno scambiarsi d’odori»21. Anche la morte odora, puntualizza un becchino: «Io con l’odore di birra cerco di togliermi di dosso l’odore di morto. E solo l’odore di morto ti toglierà di dosso l’odore

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5842

Ricordiamo che Maria di Betania unse Cristo con un’intera libbra di preziosissimo olio di nardo, prefigurandone la morte24

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Oppure che, nella cremazione rituale induista (antyesti), alla sfera olfattiva si intrecciano istanze spirituali e sociali, frutto di un millenario e ancora latente “sistema delle caste”: profumo di sandalo per le pire dei ceti alti, di sostanze meno aromatiche per quelli bassi. Ogni effluvio è funzionale, come testimoniano i roghi votivi, a propiziare le divinità. Incensare, da “bruciare resine” e, per traslato, resti sacrificali, ha per questo assunto anche il significato di “far lode, adulare”: il beneficio ottenuto sarà proporzionale all’intensità della lusinga.

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cipolla, centrale in molte diete povere tra cui quella partenopea descritta da Matilde Serao nel Ventre di Napoli, o ancora di cavolo, dal cui offensivo odore Anna Frank racconta di proteggersi con un fazzoletto imbevuto di profumo




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Del resto, gli alimenti stessi, per tutto il Medioevo, hanno subìto discriminazioni in base alla loro posizione nell’ambiente: quelli alti (frutta e volatili) per classi egemoni; quelli terreni (tuberi e ortaggi) per i subalterni26. Eccezione alla regola, il tartufo: etimologicamente “callosità della terra”, il suo intenso odore ha contraddistinto fin dall’antichità la tavola del ricco. Lo status del tartufo è in realtà intrinsecamente ambiguo: in Petronio un insulto e poi sinonimo di “simulatore, ipocrita” (Tartuffe ou l’Imposteur

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Nel primo atto di Il giardino dei ciliegi di Čechov, l’aristocratico Gaev nota sprezzante che l’arricchito Lopachin odora volgarmente di patchouli. Ma l’archetipo letterario del parvenu è, naturalmente, il liberto Trimalcione. Benché

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nel Satyricon non se ne diano dirette descrizioni olfattive, egli è ostentatamente assorbito dai profumi dei cibi e balsami più lussuosi. Quando, durante il banchetto, gli viene chiesto come mai ogni commensale abbia un tavolo tutto per sé, egli, disprezzando la sua stessa estrazione sociale, chiama in causa l’odore di classe: a causa dei servi putidissimi28. Nella storia, il nuovo arricchito mantiene grossomodo gli stessi connotati. La vignetta «Charity tubes»29 di Thomas McLean, satira della Londra nel pieno della prima rivoluzione industriale, raffigura degli operai che aspirano, sorvegliati da un uomo con livrea, il fumo che esce da dei tubi. Si tratterebbe, come si legge in calce, di un atto di beneficenza: i filantropi arricchitisi grazie ai macchinari “donano” l’odore delle loro ricche tavole.

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Emerge dunque, in modo quasi paradossale, persino un certo egualitarismo dell’odore: dove il gusto del cibo è esclusivo (per mangiarlo bisogna possederlo), il suo aroma, spandendosi, è invece esperito da tutti. Il profumo stesso ha il primario scopo di essere sentito da altri rispetto a chi lo indossa. L’odore è perciò un efficace marcatore sociale, elitario ma non abbastanza da impedire che il suo linguaggio sia comprensibile a tutti.

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rapporti tra cibo, odori e status sociale partecipano delle strutture e dei cambiamenti politici ed economici di un determinato contesto. Gli esempi da portare potrebbero essere molti. Caffè e cacao, per esempio, beni coloniali e di lusso ai rispettivi albori dell’importazione europea, si sono trasformati in prodotti di massa grazie all’intensificazione e alla globalizzazione della produzione e dei trasporti. A seguito degli sviluppi scientifico- tecnologici dell’industria tra XIX e XX secolo, gli aromi di caffè e cacao, sintetizzati artificialmente, sono stati massivamente associati a luoghi e merci simbolo del consumismo;

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un cambio di paradigma che esplose col fordismo nel XX secolo. Anche l’aroma di tartufo ha in parte cambiato il suo valore. Le sue varianti sintetiche ne hanno di certo volgarizzato lo status, pur sempre nobilitando ciò a cui




sono associate: i prodotti “tartufati”, dove la quantità di effettivo tartufo è risibile, si vendono a un prezzo anche decuplicato rispetto alla versione non aromatizzata.

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L’industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, prediligendo specie vegetali e animali resistenti a produzioni intensive, ha avuto non poche conseguenze sul profilo aromatico dei cibi. A ciò si aggiungano la diffusione di cibi ultra-processati e preconfezionati e la loro stessa commercializzazione su rete globale, con periodi di stoccaggio e trasporto più lunghi che hanno sull’aroma effetti deleteri. In questo senso, emerge il ruolo

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fondamentale dell’industria chimica che, sviluppatasi dal XIX secolo, ha elaborato sistemi di sintesi capaci di riprodurre un determinato aroma in laboratorio sfruttando composti convenienti30. Già durante il proibizionismo, in America si addizionava l’alcol industriale con aromi che mimavano, per esempio, il gin o il rum. Dagli anni Cinquanta del secolo scorso l’industria alimentare ha iniziato a fare largo uso di miscele aromatizzanti non solo per intensificare il profilo sensoriale del cibo, ma anche per conferirgli

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l’aroma caratteristico di un ingrediente di fatto assente: un caso estremo è quello dei condimenti vegani “al bacon”. Sembrerebbe quindi smentita l’ipotesi di Nietzsche che avevamo ricordato all’inizio di queste pagine: l’olfatto, lungi da essere il senso della verità intuitiva e della profondità (una posizione che ritroviamo anche in Lucrezio, il quale sostiene che l’odore proviene dall’intimo delle sostanze31), sarebbe uno dei domini privilegiati dell’inautenticità, vittima inconsapevole della confusione identitaria se non dell’inganno. Molte delle compagnie che commercializzano cibi aromatizzati ma soprattutto beni non edibili vantano l’accuratezza della similarità tra cibo e il “suo” aroma ammonendo, tra il serio e il faceto, di non mangiarle. È evidente che l’omologazione gioca qui su più piani: la massificazione del cibo comporta un’uniformazione dei suoi odori, poi caricaturizzati a livello industriale. Il punto importante, qui, è che l’emanazione – giacché di fatto circonda un elemento – è manipolabile. Se in un supermercato aleggia odore di pane, si penserà che esso, per verosimiglianza, provenga dal pane stesso. È precisamente su questo qui pro quo che si basa il “marketing olfattivo”, l’insieme di strategie di promozione attraverso

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aromi propagati nello spazio o addizionati alla merce32. L’utilizzo degli odori nel marketing presenta infatti non pochi vantaggi. Tra i tanti, gli aromi, soprattutto quelli artificiali, sono economicamente accessibili, e il loro potere mnestico ed emotivo agisce profondamente sul comportamento di consumo. Alcune ricerche evidenziano che, se usati correttamente, gli aromi aumentano la qualità percepita della merce e perciò il prezzo che si è disposti a pagare e anche, in generale,

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le vendite. Allo stesso tempo, però, l’odore presenta anche alcuni svantaggi. Infatti, a differenza delle immagini o dei suoni che possono susseguirsi senza soluzione di continuità, esso occupa chimicamente, in modo più o meno persistente, un certo volume d’aria, rispondendo perciò a un andamento temporale diverso.




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che ci invita a un’ulteriore, finale riflessione: la percezione del tempo nell’epoca, la nostra, dell’immediatezza e dell’“usa e getta”.

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Nel calendario medievale, per esempio, i giorni, più che essere “contati”, erano inscritti in un arco temporale omogeneo ritmato dalle festività,

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Il trend iniziò nel 2012 quando Pizza Hut lanciò un profumo all’impasto appena sfornato. Seguirono diversi casi tra cui, a partire

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dal 2016, quello del colosso americano KFC con la promozione di candele, cosmetici (dalle creme solari agli smalti per unghie) e addirittura scarpe all’iconico aroma di pollo speziato.

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Nel 2020 McDonald’s ha creato un set di sei candele che ripropongono gli ingredienti di un famoso panino, il “Mc Royal Deluxe”: pane al sesamo, carne di manzo, formaggio, cipolla, cetriolini e ketchup. Con una durata massima di venticinque ore,

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 5930

l’avvertenza è quella di bruciarle insieme per raggiungere l’apice del piacere. Anche qui, dove il cibo e il suo consumo è “fast” per eccellenza, l’odore opera strategicamente un rallentamento volto alla fissazione nella sfera del ricordo.

Evidenziazione (Giallo) | Posizione 6030

la parola viene coniata a metà del XVIII secolo da un filosofo tedesco, Baumgarten, per indicare “la scienza della conoscenza sensibile”. Non vi è, perciò, un riferimento esclusivo né primario alla vista e alla bellezza visiva – come si è perlopiù consolidato successivamente nel linguaggio comune – ma, piuttosto, a tutto il campo dell’esperienza percettiva sensibile, cioè di ciò che non è riducibile alla conoscenza

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«Non vi è situazione in cui sensibilità e intelletto si accordano in un godimento che possa essere protratto tanto a lungo, e ripetuto tanto spesso con piacere, come un buon pranzo condiviso con una buona compagnia»1




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La convivialità che favorisce l’accordo di sensibilità e intelletto è un aspetto che Kant riprende poco dopo, suggerendo addirittura che, nel costante tentativo di praticare l’unificazione tra bene fisico e bene morale, l’umanità può trovare nella condivisione del pasto un momento fondamentale: «la forma di benessere che sembra ancor sempre accordarsi al meglio con l’umanità è un buon pranzo in buona compagnia (e, se possibile, anche varia)»

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Tra il 1896 e il 1903 John Dewey, fresco di nomina all’Università di Chicago, progettò e diresse una scuola secondo i suoi princìpi educativi e pedagogici. Fu un formidabile esperimento di filosofia pratica. In questo progetto, centrato sull’idea dell’apprendimento con l’esperienza (“learning by doing”), un ruolo rilevante lo aveva la cucina, la preparazione dei pasti da parte degli alunni. Secondo Dewey, imparare a cucinare non costituiva soltanto l’acquisizione di tecniche ed expertise specifiche ma doveva innanzitutto contribuire alla consapevolezza della interconnessione del sapere, oggi diremmo della interdisciplinarità: dalla necessità di trattare il cibo con proprietà e cura, si giungeva alla chimica e alla

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distinzione tra attività elevate e basse. Lo si legge, per esempio, in questo passo tratto dal suo capolavoro di estetica, Arte come esperienza (1934), in cui il filosofo americano, a differenza della tradizione risalente a Kant e Hegel, considera il gusto come un senso estetico a patto che il gastronomo/buongustaio (figura per cui egli usa l’eponimo “epicure”) lo usi come una sonda, capace di collegare il sapore ai processi che giungono fino alla produzione del cibo: Persino i piaceri del palato sono di qualità differente per un buongustaio piuttosto che in colui a cui semplicemente “piace” il cibo che mangia. La differenza non è solo di intensità. Il buongustaio è consapevole di molte cose in più oltre al sapore del cibo. Nel sapore entrano infatti qualità di cui si fa direttamente esperienza che sono correlate alla sua fonte e alla maniera in cui lo si produce tenendo conto di criteri d’eccellenza. Come la produzione deve assorbire in se stessa qualità del prodotto in quanto percepite, ed essere regolata da esse, così, sull’altro versante, vedere, ascoltare, gustare diventano estetici quando a

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qualificare ciò che si percepisce è la relazione con un’attività di tipo particolare5.

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ci sono innumerevoli varianti di vegetarianismo antico (si pensi a Pitagora o a Plutarco) che

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Platone. Il filosofo greco paragona, in questo senso, la cucina alla retorica, mentre la dietetica – come ambito della giusta nutrizione, perché bisogna pur mangiare – alla politica: il bene del corpo (ma anche dello spirito che dal corpo, in qualche misura, è influenzato) tanto individuale che sociale postula un’adesione a modelli di un




certo tipo, da cui conseguono determinati stili di vita. Come già si intuisce, la posta in gioco è molto alta ed è tutt’altro che superata.

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In un celebre testo di Dōgen – monaco giapponese del XIII secolo, fondatore della scuola buddista Zen Sōtō – dedicato alla cucina e tradotto in italiano con il titolo Istruzioni a un cuoco zen, la pratica culinaria in un monastero rappresenta una possibile via al raggiungimento dell’illuminazione.

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Ogni giorno, il cuoco (tenzo) sceglierà il riso, le verdure e gli altri ingredienti e li dovrà «maneggiare con cura come se fossero i suoi stessi occhi»10. Il tenzo opera con cura e attenzione,

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Nel taoismo, infatti, non c’è differenza tra gesti ordinari e gesti artistici, perché l’arte consiste innanzitutto in un auto-perfezionamento incessante a partire dal quale, poi, ricadono come esiti finali le opere realizzate, fossero anche un semplice piatto di riso e verdure. Dōgen precisa anche che l’ordinario può essere

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quando preparate il cibo, non considerate mai gli ingredienti da una certa prospettiva ordinaria, né pensate a essi solo con le vostre emozioni. Mantenete un atteggiamento che cerca di costruire grandi templi con verdure ordinarie, che espone il buddhadharma con l’attività più insignificante. Quando fate una minestra con verdure ordinarie, non lasciatevi trasportare da sentimenti d’avversione per esse né stimatele poco; ancora, non saltate dalla gioia soltanto perché vi hanno dato ingredienti di qualità superiore per fare un piatto speciale12.

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Beuys propose di estendere l’arte a ogni sfera della vita quotidiana – da qui

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sua idea di arte come “scultura sociale” – con obiettivi di rigenerazione poetica dell’umano e, a questo scopo, riformulò anche, in chiave utopistica, il motivo schilleriano dell’“educazione estetica dell’uomo”. Non stupisce che egli abbia utilizzato ampiamente il cibo, vedendo in esso uno strumento per attuare quel programma di “estetica del quotidiano” attraverso il quale promuovere un cambiamento sociale e politico. «Nell’istante in cui l’estetica coincide con l’uomo, in quell’istante ogni uomo è un artista»:

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questa celebre frase di Beuys esprime bene il motivo estetico-politico di un’arte pubblica e ambientale che egli elaborò, in moltissimi suoi lavori, sia attraverso l’uso di prodotti alimentari (dalla spina di pesce al limone, dal




miele alla birra, agli avanzi del pasto, ecc.), sia per mezzo di interventi di ecologia urbana, come il celebre “7000 querce” iniziato in Abruzzo e poi presentato anche a Kassel nel 1982, e progetti come la “Fondazione per la rinascita dell’agricoltura”.

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Coinvolgendo le persone in quello che anche Rirkrit Tiravanija ha definito, sulla scia di Beuys, “social pudding”, l’artista tedesco mostrò che tutti possono cucinare in modo gratificante, utilizzando il cibo quotidiano per recuperare una dimensione di convivialità e di benessere, sviluppando così maggiore sensibilità e attenzione per la natura comunitaria e interdipendente della vita umana15.

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Nel 1995, la celebre cuoca americana Alice Waters ha ideato e promosso le Edible Schoolyards. Alice Waters, formatrice della scuola Montessori, negli anni Sessanta riuscì a sintetizzare la sua formazione umanistica con l’attivismo politico e la passione per il cibo, anche grazie a un lungo apprendistato prima in Francia e poi in tutta Europa che la portò a cambiare prospettiva sulla cucina. Tornata a Berkeley aprì nel 1971 Chez Panisse, che divenne in pochi anni punto di riferimento per una controcultura del cibo basata su un approccio, per il tempo, del tutto nuovo: solo alimenti freschi, da agricoltura biologica, locale ed esclusivamente

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stagionale. La sua influenza, nei decenni successivi, è stata talmente grande che, durante l’amministrazione Obama, ha suggerito con successo la piantumazione di un orto biologico alla Casa Bianca.

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I progetti Edible Schoolyard e Edible Education sono nati con l’obiettivo di rafforzare l’educazione nella scuola pubblica attraverso il miglioramento della qualità del cibo a partire dalla coltivazione partecipata e dal cucinare ciò che si è coltivato in proprio16. Coltivare un orto è una pratica educativa estetico-politica perché consente di educarsi al sentire con il mondo; consente di ritmare e di accordare un agire ai ritmi e ai modi legati al tempo, alla stagione – ci fa sentire collegati, connessi, legati. Coltivare un orto al fine di una cucina comune è un’azione estetica, etica e politica perché sviluppa il senso di responsabilità: essere responsabile significa essere capace, abile a rispondere, alla terra e ai suoi frutti ma anche agli altri umani che tramite questo si nutrono e sviluppano relazioni. Ad oggi, il rapporto tra educazione e cibo è quasi