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 2022  marzo 13 Domenica calendario

Intervista alla nuotatrice Cate Cambpell

Il giro dell’Europa dopo anni passati dentro 50 metri. Cate Cambpell si prende una pausa dal nuoto, dalle vittorie che è abituata a inseguire, dai tempi entrati nella storia dei record dello sprint e dallo sport che non vuole lasciare, ma che è ora di cambiare.
Lei lo fa con una lunga vacanza fuori dall’Australia, fuori dalla piscina, dopo l’uscita di un libro, «Sister Secrets», lezioni di nuoto alternativo. In quelle pagine scritte a quattro mani con la sorella Bronte, compagna di staffette e di podi, non si parla solo di questioni di famiglia e neanche di questioni di genere, ma di sorellanza. Si chiede di smettere di pesare le atlete, di usare un approccio più sano, di contemplare l’idea che una campionessa, come un campione, abbiano bisogno di prendersi delle pause. Pure se la vita agonistica è corta, pure se i momenti di splendore sono rari e vanno sfruttati. Non sempre ogni medaglia lasciata è persa.
Campbell, a 16 anni, debutta alle Olimpiadi con due bronzi, nei 50 stile libero e nella staffetta veloce, è il 2008 l’anno in cui Federica Pellegrini vince il suo oro. Inizia la rincorsa a record e successi, una carriera di soddisfazioni fatta di titoli mondiali e olimpici che si inceppa per accumulo di stress davanti a un microonde, a cinque mesi dai Giochi Tokyo. Corto circuito. La tazza di cioccolata gira nel forno e Cate Campbell sente bruciare i suoi stessi pensieri. Piange, lotta contro l’onda di depressione che cresce, chiede aiuto e gareggia. Risale persino sul podio eppure non è tutto a posto. L’ultimo inno ascoltato le lascia una nuova consapevolezza: per rimanere nel mondo che ha ama ha bisogno di guardarlo da lontano. E di vederlo crescere.
Come ci si ritrova senza programmi dopo aver pianificato ogni ora per 15 anni?
«Stamattina ho salutato l’oceano e poi mi sono goduta il tempo. Ora immagino i miei sei mesi in Europa, Italia compresa ovviamente. Non è una crisi di rigetto, mi allungo la carriera, mi prendo cura di me e credo sia il preciso dovere di un atleta. Ai più giovani andrebbero dati strumenti diversi da quelli che ho avuto io. È insensato arrivare al punto di rottura per reagire».
Per questo ha scritto un libro quasi militante?
«Io e mia sorella sentiamo per la prima volta che c’è un desiderio sincero di migliorare la struttura del mondo in cui siamo cresciute e vogliamo partecipare, dare un contributo. Non credo nemmeno ci si fermi allo sport, è una fase unica in cui la voce delle donne si sente distintamente. Ancora tanti fanno solo finta di ascoltarla e altri si rifiutano proprio, però ormai è impossibile ignorarla. Nascono atteggiamenti nuovi, approcci contemporanei».
Il nuoto è uno sport maschilista?
«Ha la struttura della società È abituato a un punto di vista maschile il che ha portato a delle storture. Fino a qui, nelle migliori delle ipotesi, abbiamo curato i sintomi, è ora di affrontare la complessità di un sistema che così come è non funziona più».
Nel libro parlate a lungo di come le nuotatrici vengano valutate in base al loro aspetto. Essere in forma, rispettare certi canoni, non è una prerogativa dell’alto livello?
«Sì, ma in moltissimi casi sono parametri male interpretati e usati solo al femminile. Dovrebbe essere la performance a stabilire che cosa c’è e che cosa manca, invece è semplicemente il colpo d’occhio o peggio il calcolo della massa grassa o di una serie di dati superati».
Succede solo con le donne?
«Purtroppo sì. Se un uomo non rende come potrebbe gli si possono far notare eccessi di peso, magari. Per una donna il controllo scatta pure se sei appena diventata campionessa mondiale. Attenta non sei come dovresti. Si sono mai chiesti se a volte delle controprestazioni siano legate al fatto che l’atleta mangia poco invece che troppo? » .
Qualcuno le ha mai rimproverato la forma fisica?
«No, però appena sono entrata in nazionale, già da junior, ho sentito dire alle ragazze, e solo a loro, che era meglio usare dei piatti piccoli, così da essere sicure di non eccedere. Subito con una relazione malata tra cibo, sesso e rendimento. Per fortuna oggi si è capito che l’approccio non può essere lo stesso per una moltitudine di sportivi diversi».
Cattivi comportamenti. Il mito dell’allenatore severo e burbero regge ancora?
«Sempre restando nel limite di ciò che è lecito, a qualcuno l’approccio iper rigido serve, per altri è deleterio. A lungo si è creduto che chi non sopporta urli e privazioni non sia forte abbastanza. Magari il difetto è di chi allena. Anche trovarti sempre l’atleta a immagine e somiglianza è un limite enorme».
L’Australia ha applicato un codice innovativo che prevede allenatrici donne nello staff dei club vicini alla nazionale e una preparazione mirata per i tecnici.
«Un lavoro complesso che avrà bisogno una fase di transizione e un ottimo inizio. Hanno fatto dei sondaggi, raccolto problemi e poi proposto una serie di mozioni, sono passate tutte. Dobbiamo fare di più e meglio per le nuove generazioni, insistere sul fatto che il successo ha diverse definizioni, se lo avessimo fatto prima Ian Thorpe, un mito del nuoto, avrebbe vinto di più».
Perché?
«Non avrebbe smesso a 23 anni, non avrebbe provato a ricominciare tanto tardi. Avrebbe dichiarato di essere davanti a un esaurimento e si sarebbe preso il tempo di uscirne. Allora era impensabile. Il nuoto deve anche questo a Phelps: quando ha salutato, nel 2012 non era pronto a lasciare la piscina ma non ce la faceva più. Ha detto addio e poi si è ripresentato, rinvigorito senza mentire: ero a pezzi eppure non avevo ancora dato tutto. Sorpresa. Poi c’è stata Simone Biles che a Tokyo ha diminuito le gare e le aspettative e lo ha fatto lì, senza scuse. Quando i campioni aprono nuove vie cambia la percezione».
Come mai il nuoto consuma tanto?
«Si inizia da giovanissimi. Io a 9 anni ero già completamente… immersa. E poi c’è il fatto di stare in un altro elemento, sei isolato, anche fisicamente in un mondo abitato solo da te e dominato da ritmi per gli altri sconosciuti».
Lei salta la stagione, ma i colleghi e le colleghe sono nel caos, con un Mondiale extra sbucato all’improvviso che si aggiunge a quello da recuperare l’anno prossimo.
«L’atleta non è proprio al centro del progetto. Capisco che siano le conseguenze di calendari stravolti dal Covid però diventa difficile. Molti saranno obbligati a nuotare dappertutto, i fondi sono legati ai risultati».
Sarà la prima stagione senza Federica Pellegrini.
«E sarà strano non vederla. Ancora la ricordo tipo semidivinità ai Mondiali del 2009. Avevo 17 anni, lei sembrava avere una luce intorno: lì ho capito l’importanza della consapevolezza. Lei ti diceva di essere la più forte di tutte anche mentre camminava. Parliamo di un’eccezione, di una fuoriclasse con una costanza incredibile: cinque finali olimpiche nella stessa specialità. Resta un punto di riferimento».
Ora Pellegrini si è data alla politica sportiva, strada che ha preso anche lei.
«Federica ha sia l’esperienza del baby talento sia quella della protagonista matura, è un punto di vista unico e sono molto contenta che rappresenti gli atleti al Comitato olimpico. In futuro, chissà, potremmo trovarci a lavorare su dei progetti insieme».
Da australiana come ha vissuto le polemiche intorno al caso Djokovic?
«Io vorrei vedere un’Australia più aperta e più accogliente, i miei genitori vengono dal Malawi, mia madre fa l’infermiera e mio padre il contabile e non è stato semplice per loro dare le garanzie richieste. Ma non mi sta bene che problematiche così gravi siano state legate all’esperienza di Djokovic».
Giusto rimandarlo a casa?
«Qui la politica di contenimento del Covid è stata molto severa, ha condizionato vita e spostamenti e credo anche limitato i danni. Certe scelte drastiche probabilmente hanno contenuto il numero di morti. Altrove è andata peggio. Io stessa al ritorno dai Giochi ho fatto una lunghissima quarantena per cui trovo irrispettoso cercare privilegi o scorciatoie».
Restano le condizioni in cui si trovano gli immigrati, anche i rifugiati.
«Si dice che Djokovic abbia accesso dei riflettori, che si è parlato di quell’albergo limbo solo perché ci è passato lui, io temo abbia fornito delle scuse. La questione si è così tanto legata al suo nome da condizionare tutto il dibattito. Io, per esempio, faccio fatica a prendere in considerazione le sue istanze e non mi viene proprio in mente di associarle a chi vorrebbe entrare in questo Paese».