Specchio, 13 marzo 2022
Biografia di Cristina D’Avena raccontata da lei stessa
Due anni fa, all’inizio della seconda ondata, quando ancora ci stupivamo di esserci sbagliati sul covid e su quanto ci avesse peggiorati o migliorati, Cristina D’Avena posò per la copertina di Vanity Fair vestita da pin up burlesque. Veniva fuori da una tenda di velluto rosso, indossava un corpetto nero scollatissimo e aveva al collo il ciondolo di una tigre. Sembrava Dita Von Teese e Biancaneve insieme. È quello che le hanno detto lungo tutta la sua carriera (lunghissima, praticamente tutta la vita: ha cominciato a cantare a tre anni, allo Zecchino d’oro): sei metà fiaba e metà calendario, metà bambina e metà donna, metà dolcezza e metà provocazione. Lei ha sempre detto, più semplicemente: preferisco viverlo, il destino, anziché cambiarlo. Ha accettato i ruoli, ha giocato a fonderli: fata e tata, sorella per amica, sogno erotico. Quella copertina, quindi, non era una cesura: non significava che s’era stancata di essere associata a Mila&Shiro e a tutti i cartoni animati di cui ha cantato le sigle (tutti o quasi tutti anime giapponesi, spesso corretti ed edulcorati) e voleva fare tutt’altro, animare altri immaginari. E infatti è appena tornata alle fiabe: ne ha scritte dieci, sono tutte pubblicate nel suo libro appena uscito per Salani, Il bosco delle fiabe, che è bello leggere, in controluce, come una sua biografia. È un libro per bambini di quelli antichi, archetipici: dalla copertina, alle storie, alle illustrazioni, ai protagonisti (bambini che fanno erbari, scrivono lettere al mare, parlano con le api), niente porta il segno del tempo presente. Cristina D’Avena, del resto, è l’icona dell’infanzia dei trenta/quarantenni di oggi: gli ultimi nostalgici, gli unici che della loro infanzia hanno fatto un vanto e un fattore identitario, talvolta persino un monito. Erano gli anni Novanta quando Cristina D’Avena raggiunse il picco della celebrità e venne scolpita la sua figura pubblica: la cantante delle storie sulla Tele per i figli del reflusso, nipoti dell’Occidente smagliante e spensierato fino all’irresponsabilità, eredi del capitalismo vincente. Bambini dai quali non ci si aspettava molto di più di questo: che stessero sul divano a mangiare merendine, cantare Lady Oscar, senza l’ambizione e nemmeno la speranza che diventassero ribelli. Nessuno immaginava che quei pomeriggi, a quella generazione, si sarebbero ritorti contro, che sarebbero stati l’ultima avventura prima del tonfo.
La carriera post ed extra Mediaset di Cristina D’Avena ha beneficiato del feticcio che quegli anni sono diventati e lei ha girato l’Italia (e continua a farlo) suonando quelle sigle, sempre accolta con l’affetto che si porta ai ricordi di quando si è stati felici, sempre uguale, con la stessa voce, lo stesso incanto commerciale, la stessa felicità fuori dal tempo, la stessa immunità allo spirito del tempo. Ecco una cosa del tutto assente dalle sue fiabe: lo spirito del tempo. E neppure una riga di incitamento all’eroismo, alla consapevolezza, all’orgoglio della propria unicità e tutta quella serie di rieducazioni morbide alle quali sottoponiamo i bambini in questi anni, sperando così di renderli migliori di noi – cosa che sono già di default ma se lo ammettessimo, dovremmo accettare di essere residuali, e figurarsi se siamo capaci.
A quali bambini ha pensato scrivendo le sue fiabe?
«Ho pensato all’infanzia, che è qualcosa di molto di più di un’età: è una riserva di leggerezza e purezza che tutti abbiamo dentro di noi. Forse, per vintage che possa sembrare, la parola che dovrei usare non è infanzia, ma fanciullezza».
Lei è sicura che tutti, ma proprio tutti abbiamo quella riserva?
«Certo che sì. Averla non significa necessariamente usarla».
Lei lo fa?
«Così mi sembra. Di certo, faccio di tutto per tutelare quella degli altri, invitarli a riscoprirla e proteggerla come un bene raro e prezioso. In fondo, il mio libro vuole servire a fare questo. Ed è la ragione per cui, forse, ho pensato all’infanzia degli adulti di oggi, più ancora che a quella dei bambini».
Come sono i bambini di oggi?
«Fantastici. E veloci. Mi colpisce la fame che hanno di soluzioni, la loro pragmaticità. Da piccola io ero più contemplativa, e non mi ponevo certo il problema di risolvere qualcosa. Non so se fosse meglio o peggio, ma tutte le volte che i ragazzini e i bambini piccoli, adesso, mi impressionano e mi sembrano perfino troppo cresciuti, maturi, direi adulti, mi sforzo di non dare giudizi, di non fare confronti. È un errore stupido paragonare le generazioni. E poi a me piace l’idea che, almeno i bambini, evolvano sempre. Il punto è se noi grandi facciamo abbastanza per agevolare la loro evoluzione».
E come si fa ad agevolarla?
«Lasciandola libera. Cosa che genitori ed educatori fanno con fatica perché è dolorosa e rischiosa, me ne rendo conto».
Mi descriva la sua parte fanciullesca.
«Quella che è affamata di amicizia e amore, ma soprattutto di amicizia. Io di amici ne cerco ancora, sempre. Le sofferenze peggiori le ho sofferte quando sono stata tradita o delusa da un amico o da un’amica, perché io a loro do sempre il massimo e questo mi rende parecchio esigente, forse anche poco malleabile».
Un verso di Lucio Dalla, in "Felicità", dice: «anch’io sono stato tradito, ma non m’importa più».
«Lucio era un uomo eccezionale. Curioso. Disponibile. Buono. Lo incontravo spesso in un bar del centro di Bologna, e ci chiacchieravo a lungo. Una volta, non molto prima che morisse, gli confessai che desideravo fortemente che lui scrivesse una canzone per me. Mi promise che l’avrebbe fatto. Ma poi non ci siamo più ritrovati. La sua morte mi fa ancora un male cane».
Ma di quel verso su chi viene tradito che mi dice?
«Che a me importa ancora dei tradimenti che ho subito: anche se li ho perdonati, non mi hanno mai permesso di ripristinare la fiducia. Non ci riesco, forse sono rigida, ma lo sono anche nei confronti di me stessa: cerco di assicurare agli altri correttezza e sincerità pressocché totali. Durante la pandemia ho allontanato alcune persone che mi erano molto care, perché mi hanno delusa profondamente. Per radicale ed esagerato che possa essere, mi sono anche detta che è successo non soltanto per la mia inflessibilità, ma pure perché questi due anni così strani e dolorosi mi hanno cambiata e hanno cambiato anche le mie esigenze, le mie aspettative e i miei standard. Così, semplicemente, è successo che alcune vecchie compagnie non mi davano più quello che cercavo».
Capisco bene. È successo anche a me, è successo a molti altri.
«Bene! Allora non sono sola!».
Le piace così poco la solitudine?
«Io questo mito della vita per sé e con sé non l’ho mai capito. Certo che mi piacciono gli altri, la compagnia, il fracasso della gente: non potrei fare il mio lavoro, altrimenti. Io mi nutro dell’adrenalina del pubblico, dell’affetto, della condivisione. Me ne sto per fatti miei soltanto quando devo fare delle scelte. Durante il lockdown ho benedetto Instagram: ho fatto centinaia di dirette e ho sentito la vicinanza del mondo, anche se non del tutto come avrei voluto, inevitabilmente».
Non la dà mai fastidio l’invasività dei fan?
«Mai. Per me sono sempre i benvenuti. Sono fortunata ad avere la loro fiducia. E mi emoziono tutte le volte che qualcuno mi dà la mano. è così bello stringere la mano di un altro, ti fa capire tante cose. Ci prendiamo a gomitate, per salutarci, da due anni, e guardi come va tutto a rotoli, com’è tutto confuso».
Le scrivono in molti?
«Sì, ricevo persino ancora delle lettere.
E risponde?
«Tutte le volte che posso».
Non la affatica neanche questo?
«Guardi, le confesso che io non mi sono ancora abituata (penso che non lo farò mai) al fatto che non ci si telefoni più nemmeno per farsi gli auguri, e che tutto venga comunicato in qualche riga di messaggio. Quindi altro che fatica: tutte le invenzioni che hanno stringato le nostre comunicazioni mi rattristano un po’».
Cosa la spaventa?
«Gli aerei e le bugie».
Ha avuto l’infanzia bella che mi viene facile da immaginare?
«Sono stata molto amata».
Il suo primo ricordo felice?
«Le lettere di risposta che ricevevo da Babbo Natale e dalla Befana. Erano lunghe, a volta anche severe: mi spiegavano come mi ero comportata e perché non avevo ricevuto proprio il regalo che avevo chiesto. Io però impazzivo di eccitazione, andavo a scuola e dicevo: Babbo Natale mi ha scritto una lettera, guardate! E davvero la mostravo, e la leggevo ad alta voce, ed ero l’eroina di tutti: a me e soltanto a me Babbo Natale rispondeva. Cosa darei per ritrovare quelle lettere! Erano tutte su un quadernino, lo stesso sul quale scrivevo le mie».
Per amore ha fatto pazzie?
«Una volta decisi di portare la colazione al mio fidanzatino che abitava a Napoli. Mi misi d’accordo con sua madre: sarei arrivata a casa loro alle sette e mezza del mattino. Partii da Bologna la sera prima, dissi a un mio amico di accompagnarmi poco fuori città per fare una sorpresa a uno che mi piaceva. Gli dissi la verità, e cioè che saremmo dovuti arrivare a Napoli, solo quando eravamo molto lontani da casa. Si arrabbiò moltissimo. Ancora ne ridiamo. Però portammo a termine l’impresa: venne benissimo!»
Il mare, nelle sue favole, c’è spesso, quasi sempre.
«Perché è infinito. E mi piace parlarci. E quando ci vado e sono di malumore e anche lui è mosso, mi sento una dea».