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 2022  marzo 10 Giovedì calendario

Su "Il sesso è (quasi) tutto. Evoluzione, diversità e medicina di genere" di Antonella Viola (Feltrinelli)

Oggi nessun medico si sognerebbe di curare un bambino con le stesse terapie che prescriverebbe a un adulto. È assodato, infatti, che bambini e adulti non hanno la stessa fisiologia. Ma questo vale anche per i due sessi: pur essendo soggetti alle medesime patologie, uomini e donne spesso presentano sintomi e risposte ai farmaci molto diversi tra loro. Eppure, i medici continuano a curarli nello stesso modo. La ragione è nota: la nostra prassi medica si fonda su sperimentazioni condotte quasi esclusivamente su un solo sesso, quello maschile. Il rimedio c’è e si chiama medicina di genere. Ma prevede un radicale ripensamento del processo di cura, dalla formazione dei medici a ogni fase di sviluppo dei farmaci.
L’immunologa Antonella Viola ha provato a immaginare questa medicina del futuro nel libro Il sesso è (quasi) tutto (Feltrinelli, pp.155, euro 15), a partire da un paradosso del presente: viviamo in una società rigidamente binaria, che esaspera o addirittura inventa le differenze tra i sessi, salvo ignorare quelle che contano davvero.

Più Alzheimer meno Parkinson 

Uomini e donne, per cominciare, hanno organi di dimensioni diverse, che funzionano in modo diverso, anche in risposta agli ormoni sessuali, che giocano un ruolo cruciale nelle differenze fisiologiche. Molte malattie, di conseguenza, si manifestano nei due sessi con incidenza, sintomi e decorsi differenti. Le patologie autoimmuni e l’osteoporosi, per esempio, hanno una netta prevalenza femminile (su dieci pazienti, otto sono di sesso femminile). Le donne sono più soggette a sviluppare l’Alzheimer e, nonostante si ammalino meno frequentemente di Parkinson, nel loro caso il decorso è peggiore e la mortalità più elevata. «Il fatto di aver ignorato a lungo le differenze tra i sessi» spiega Viola «ha causato un ritardo nella comprensione dei fattori decisivi per la salute delle donne, ma anche nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura delle patologie femminili. Forse l’esempio più eclatante è il cuore. Per molto tempo si è ritenuto che le patologie cardiocircolatorie fossero un problema maschile. Oggi sappiamo che rappresentano la prima causa di morte anche per le donne».

In Italia, per esempio, il 43 per cento delle morti femminili è dovuto a una patologia cardiocircolatoria, contro il 33 per cento dei decessi maschili. Eppure, le donne sono ancora sottorappresentate negli studi clinici dedicati alle nuove terapie per la cura delle patologie cardiovascolari. Non è tutto: «Fino a non molto tempo fa – e in alcuni casi ancora oggi – agli studenti di Medicina si insegnava che i principali sintomi dell’infarto sono il senso di oppressione al petto, il dolore al braccio sinistro o a entrambe le braccia, la sudorazione fredda e la nausea. Peccato che questi siano i segni che si manifestano nell’uomo, mentre riguardano solo una donna su tre, perché nel sesso femminile l’infarto si manifesta in modo molto più subdolo: affanno anche senza dolore al petto, vomito, dolore alla schiena, alla spalla, al collo o alla mascella che si protrae nel tempo».

Analgesici: rivedere le dosi

Un discorso a parte riguarda la farmacologia. Uomini e donne hanno un sistema immunitario e uno stato ormonale diversi e, soprattutto, assorbono, reagiscono ed eliminano i farmaci in modo diverso. Ciononostante, le donne vengono ancora curate con protocolli e farmaci creati per gli uomini. Ecco perché soffrono molto più spesso di effetti collaterali severi (il 60 per cento di ricoveri per tossicità da farmaco riguarda le donne). Ma anche di una ridotta efficacia del trattamento. È il caso delle terapie del dolore: diversi studi hanno dimostrato che la risposta agli oppioidi è nettamente inferiore nelle donne, al punto da suggerire che, per ottenere lo stesso effetto analgesico, dovrebbero assumere una dose superiore del 30 per cento rispetto a quella utilizzata negli uomini. Al contrario, spesso le donne che soffrono di dolore cronico vengono trattate con dosi di analgesici addirittura inferiori.
«Fin qui» prosegue Viola, «abbiamo parlato di differenze legate al sesso biologico. Il concetto di genere, invece, ha un’accezione identitaria e culturale che va oltre la biologia. A tal proposito, mi è stato fatto notare che sarebbe più appropriato parlare di medicina sesso-specifica, più che di medicina di genere. È un’obiezione sensata. In realtà, però, anche il genere influisce sulla salute: lo fa in termini di disparità socio-economiche e culturali». Un esempio è la carenza cronica di vitamina D di cui soffrono le donne dei Paesi islamici a causa dell’abbigliamento coprente che non permette alla loro pelle di assorbire i raggi solari.

Anche il Covid fornisce un buon esempio, e a vari livelli. Partiamo dalla biologia: com’è noto, gli uomini hanno un rischio maggiore di sviluppare sintomi severi e di morire a causa del virus, mentre gli effetti collaterali della vaccinazione sono più frequenti nelle donne. «Eppure, anche in questo caso non si è prestata molta attenzione al sesso. Soprattutto nella sperimentazione di nuove terapie» spiega l’immunologa. Come emerge da un rapporto pubblicato a luglio del 2021, tra gli studi in corso solo il quattro per cento aveva incluso un piano per analizzare il sesso come variabile. Mentre tra quelli pubblicati su riviste scientifiche, solo il 17,8 per cento aveva effettuato delle analisi dei dati distinte per sesso.

«Quest’ultimo è un punto particolarmente importante» dice Viola. «Infatti, se oggi la maggior parte degli studi clinici include le donne, le successive analisi di efficacia e tossicità non vengono ancora gestite in modo separato per i due sessi. Una mancanza gravissima. Soprattutto nel caso del Covid, che mostra chiarissime differenze di gravità tra uomini e donne».

Discriminazioni da pandemia

I dati mondiali relativi alla pandemia, però, ci parlano anche di differenze strettamente legate al genere, più che al sesso biologico. Nella crisi che ha investito il nostro Paese nel 2020, il 70 per cento delle persone che hanno perso il lavoro sono donne. Ci sarebbero poi i dati sull’aumento delle violenze domestiche. O sull’impatto della chiusura delle scuole sulle madri lavoratrici. «È ovvio che anche questo ha un impatto sulla salute: ecco perché preferisco parlare di medicina di genere. Continuare a non vedere lo squilibrio tra i sessi significa rinunciare alla cura, a quella medicina di precisione tanto sbandierata quanto falsa se si cura con precisione solo il 50 per cento della popolazione». A questo si aggiunge un effetto collaterale più sottile: se da un lato, infatti, abbiamo trascurato le differenze tra i sessi, dall’altro ci ostiniamo a esasperarle in modo artificioso. Per spiegarlo Viola cita il caso eclatante degli interventi di “normalizzazione” sulle persone intersessuali. «Ormai è appurato che esistono numerose varianti ai due corredi cromosomici xx (maschio) e xy (femmina). Per esempio, a un codice genetico femminile si può associare una morfologia maschile, e viceversa. Oppure, i genitali possono essere ambigui. Queste varianti spesso si manifestano in persone sane, che non hanno alcun bisogno di cure mediche. Eppure, altrettanto spesso i bambini che hanno caratteri maschili e femminili intermedi sono sottoposti a trattamenti chirurgici e medici che hanno lo scopo di “normalizzare” la loro condizione. Si assegna loro un sesso alla nascita (di solito quello femminile, perché creare chirurgicamente un pene è molto più difficile), senza attendere che siano loro a decidere in quale genere si riconoscono, con gravi conseguenze per il loro benessere psico-fisico e sessuale».

Secondo Viola, questa è l’altra faccia della medaglia: il paradosso di «una medicina dei maschi bianchi fatta per i maschi bianchi, che usa le differenze in modo strumentale, per tenere rigidamente separati i due sessi, e adattarli a una visione binaria del mondo che non corrisponde alla realtà».