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 2022  marzo 13 Domenica calendario

Il papa Farnese e la collezione global

Non solo l’immenso Ercole delle terme di Caracalla, l’Apollo citaredo o i magnifici ritratti di Tiziano, nel Cinquecento i fortunati visitatori di Palazzo Farnese potevano ammirare zanne di elefante africane finemente intagliate, «tazze alla giapponese», «bacili di legno d’India dorati e miniati con uccelli e fogliami di diversi colori» assieme ad altri oggetti provenienti dalle «quattro parti del mondo» allora note. Oltre l’immagine che ce ne ha restituito la storiografia ottocentesca, cioè, la raccolta organizzata da Paolo III e dai suoi nipoti, e come sostanzialmente qualsiasi altra collezione rinascimentale, non si preoccupò soltanto di accumulare capolavori del mondo antico ma di perpetuare attraverso questi documenti l’universalismo della tradizione cristiana, che includeva certo il mondo classico ma, per il passato come il per il presente, in tutta la sua estensione cosmopolita. Tra le residenze di Campo dei Fiori, Caprarola e più tardi Parma, aumentarono numerosi gli oggetti provenienti da terre lontane, quasi sempre riferiti al termine “indie” che a pochi decenni dalla scoperta delle Americhe indicavano qualsiasi terra al di là di un oceano.
Per Paolo III e per i suoi nipoti, questo riferimento al di fuori dell’Europa non fu un vezzo, una concessione all’esotismo, come ancora una volta ha fatto credere la critica ottocentesca. Per i Farnese quel riferimento fu una necessità. La prima metà del Cinquecento, infatti, aveva visto affermarsi l’impero di Carlo V, più vasto di qualunque altro conosciuto fino ad allora e su cui non tramontava mai il sole. Addirittura più grande di quello di Roma, tale da mettere in crisi lo statuto e il magistero della Chiesa. Le terre scoperte da Colombo, in effetti, non avevano smentito la lettera delle Sacre Scritture? E i popoli selvaggi che abitavano una specie di paradiso terrestre ma erano dediti alle condotte più peccaminose, non avevano fatto vacillare le certezze morali dell’Occidente? Di fronte a tanto sconvolgimento, non soltanto la propaganda iberica aveva eletto in Carlo d’Asburgo un uomo della provvidenza, ma lo avevano fatto anche gli italiani schierati sul fronte filo-imperiale. Nell’ Orlando Furioso, Ariosto aveva definito «re Carlo imperator romano», e aveva legato la conquista del nuovo mondo alla sua figura perché «sotto a questo imperatore solo un ovile sia, solo un pastore».
Possiamo immaginare l’ansia di Paolo III e della Chiesa di fronte a una tale minaccia, già resa concreta dal Sacco di Roma del 1527 a opera dei mercenari al soldo delle truppe dell’impero – i lanzichenecchi – nonché aggravata dal dilagare del protestantesimo, degli Ottomani e dell’Islam nel Mediterraneo o dallo scisma anglicano, in una congiuntura davvero da incubo. Altro che riproposizione del mondo antico e della sua perfezione formale, per il Rinascimento e tanto più per il XVI secolo, la tradizione fu un patrimonio in perenne movimento e da rigenerare, come lo indicava la formula stessa dellaRestauratio Romae. Gli umanisti attorno al pontefice risposero a Carlo V elaborando iconografie e pianificando scelte collezionistiche in cui le recenti scoperte vennero ricondotte alla tradizione per smentire la straordinarietà dell’impero spagnolo. A Carlo venne contrapposto Alessandro Magno e le conquiste recenti furono anticipate dalle spedizioni del Macedone nelle “Indie”. A Palazzo Farnese venne accumulata una collezione senza precedenti che si volle una “scuola pubblica del mondo” in cui la caleidoscopica varietà del tempo e dello spazio venisse edita nella prospettiva cristiana e teologica di Roma.
A venticinque anni dall’ultima iniziativa sui Farnese, il Palazzo della Pilotta, sede delle collezioni di famiglia dalla metà del Seicento al 1734, data del loro trasloco a Napoli, tornerà a esporre dal 18 marzo al 31 luglio molti di quei capolavori in una grande mostra: I Farnese, Architettura, Arte, Potere. Grazie alla generosità del Museo di Capodimonte, del Museo Archeologico di Napoli, dell’Archivio di Stato di Parma, verranno riuniti assieme capolavori come la Tazza Farnese, il più grande cameo al mondo datato al III secolo a.C., la Danae e alcuni degli inquieti ritratti della casata dipinti da Tiziano, il capolavoro di oreficeria noto con il nome di Cassetta Farnese, dipinti di El Greco, Correggio, Sebastiano del Piombo, Raffaello, e ovviamente alcune delle opere più spettacolari appartenenti alle collezioni extraeuropee: l’Olifante del Museo Pigorini, coppe cinesi in corno di rinoceronte, i rarissimi pezzi mesoamericani sopravvissuti all’epurazione di tutto ciò che non rientrasse nelle categorie dell’antiquaria settecentesca. In sinergia con l’Università di Parma, verrà approfondita per la prima volta la committenza architettonica grazie all’esposizione di disegni progettuali di Vignola, Sangallo, Batistelli, Moschino perché quest’arte, strumento per la rigenerazione cattolica dell’idea imperiale, fu indispensabile al pontefice per ristabilire l’autorità di Roma sull’Europa cristiana e, da Campo dei Fiori al ducato di Parma e Piacenza, dare forma allo spazio sociale che assicurasse un futuro dinastico di figli e nipoti.
Icona, che fa di questa mostra un avvenimento storico, è il generoso prestito accordato dal Musée des Amériques di Auch che permette alla Pilotta di portare per la prima volta in Italia un capolavoro realizzato per il Papa ma mai giunto a destinazione, probabilmente trafugato da pirati francesi. Si tratta della celebre Messa di San Gregorio realizzata in piume d’uccello nel 1537 dalle maestranze azteche di Tenochtitlán, l’odierna Città del Messico, in ringraziamento per la bolla Sublimis Deus in cui Paolo III, accogliendo le denunce di uomini di chiesa come Bartolomé de las Casas, aveva riconosciuto l’umanità dei nativi americani e condannato la loro riduzione in schiavitù. Esposta all’inizio del percorso nei locali dell’antica galleria ducale, faccia a faccia all’originale della Bolla, concessa in prestito dall’Archivo General de Indias di Siviglia, questo autentico capolavoro introduce i temi del collezionismo farnesiano in maniera opposta a quanto si sarebbe fatto in passato: non un oggetto esotico a fine percorso, ma immagine saliente dello sconvolgimento storico da cui nacquero le strategie culturali e collezionistiche del pontefice e della sua famiglia. La mostra della Pilotta, quindi, che ha ottenuto la Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica è il prodotto di anni di studi e di un’ampia collaborazione tra soggetti istituzionali diversi, tra cui la Fondazione Toscanini per una sala tutta dedicata alla produzione musicale, e tenta per la prima volta un approccio scientifico “globale” alla materia del collezionismo rinascimentale. Prova a introdurre in questa delicata materia quel decentramento dello sguardo prodotto a partire dagli anni Settanta con la nascita dei post-colonial studies e la necessità di guardare al passato in maniera dinamica e plurale, senza dimenticare il ruolo imprescindibile svolto dall’altro nella definizione del sé.
Nell’operare questo tentativo, fa ricorso nelle pubblicazioni di mostra a specialisti come David Abulafia, Kathleen Christian, Serge Gruzinski o Salvatore Settis e, volendo contribuire dal nostro paese al dibattito sull’etica della storia che sta dilaniando gli Stati Uniti e l’Europa, finisce per trovarsi confrontata a uno dei tipici paradossi del mondo globale: Paolo III, nepotista e uomo di potere senza scrupoli rappresentò e rappresenta ancora per un’altra metà del mondo un simbolo dei diritti umani e della pace.
(L’autore è direttore del Complesso della Pilotta di Parma)