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 2022  marzo 13 Domenica calendario

Per il Nobel Spence il default della Russia è improbabile

«Non è possibile capire quanto la Russia sia vicina al default, ma è evidente che le sanzioni finanziarie stanno dando un duro colpo alla sua già provata economia. Un fallimento vero e proprio potrebbe davvero dare una svolta alla guerra, ma è tremendamente difficile prevederlo perché interviene una serie di fattori tecnici, molti dei quali non ci sono chiari». Michael Spence, economista di Stanford (dove è stato a lungo preside della Graduate School of Business) che ha insegnato anche alla New York University e alla Bocconi, vinse il premio Nobel nel 2001 per i suoi studi sulle informazioni asimmetriche che arrivano sui mercati. E qui c’è un perfetto caso di studio: «Non sappiamo neanche, perché bisogna vedere i singoli contratti, fino a che punto è legittimo che Putin rimborsi in rubli i debiti esteri».

Ci sono economisti che dicono che già questo è un default chiamato con un altro nome.
«Non ne sarei sicuro. Di certo è un pessimo affare per i creditori. Il default russo potrebbe essere una pietra miliare per la soluzione di questa tragica vicenda, anche se non è detto che finisca così. Ci sono Paesi che resistono anche in condizioni durissime e non vanno in bancarotta».
La Russia è già fallita una volta, nel 1998, e anche allora il colpo finale glielo dettero le spese per una guerra, quella in Cecenia.
«Sono situazioni diverse. Quello fu un default tecnico su una serie di debiti, causato anche da fattori esterni come la crisi delle “tigri” asiatiche che a sua volta privò la Russia di importanti risorse. Ci fu poi un intervento dell’Fmi e della Banca Mondiale, così aiutata dai prezzi del petrolio che risalirono la Russia si riprese con velocità arrivando a diventare la star dei Bric. Stavolta è una crisi più profonda e grave, la reazione europea e americana è più incisiva.
Se si arriverà al fallimento della Russia, questo sarà più difficile e penoso da superare. L’isolamento internazionale ora è più forte anche se c’è l’importante incognita della Cina che si dimostra quantomeno prudente».
Pechino brilla per il suo equilibrismo: si è offerta di entrare nel club dei mediatori, ma manca una condanna esplicita e soprattutto l’adesione alle sanzioni. Arriveranno?
«Questo è il nodo. La Cina, senza prendere una posizione precisa anche se, va detto, in un crescendo di condanna all’azione militare di cui teme i contraccolpi, ha offerto in alternativa allo Swift il suo sistema dei pagamenti che però è più arcaico e meno efficiente e riguarda una minima parte delle transazioni. Di fatto così rende meno efficace l’effetto delle sanzioni».
Altro nodo è il ricatto energetico.
«Non si deve mai cedere ai ricatti, e mettersi nella condizione di farsi ricattare. Ora non può esserci altro che una corsa contro il tempo per diversificare le fonti. Un esempio è il Giappone, dipendente come l’Europa dalle importazioni di energia: compra petrolio da un gran numero di Paesi, e gas liquefatto da Australia, Malesia, Qatar, la stessa Russia e così via. Non dipende da nessuno. Se si fosse intrapresa un’iniziativa del genere in Europa le sorti del conflitto sarebbero altre».
Ora la diversificazione è avviata.
Il ministro Cingolani parla di due-tre anni per smarcarsi dalle forniture russe, dicono dieci anni. Secondo lei?
«Una via di mezzo, diciamo cinque anni. Alla luce della ritrovata coesione transatlantica, tra l’altro suggerisco di affidarsi alle forniture via nave statunitensi valorizzando la rete dei rigassificatori. Né sottovaluterei che, a parte l’energia, ci sono ancora spazi per rendere più stringenti le sanzioni anchecontando sulla collaborazione delle aziende private esportatrici».
Ognuna di queste misure ha anche un costo per chi impone le sanzioni.
«Tutto ha un costo, ma la tragedia che stiamo vivendo ci indica che i costi della diversificazione energetica e in generale delle sanzioni sono niente in confronto ai costi delle distruzioni che stiamo già soffrendo e che con ogni probabilità cresceranno ancora».