Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  marzo 13 Domenica calendario

Samuel L. Jackson ha paura di perdere la memoria

«Ho imparato molto sulla demenza occupandomi di mio nonno e mia madre. Ho frequentato diverse associazioni che trattano pazienti come loro. Quando sono morti ho cercato in tutti i modi di raccontare questa storia». Samuel L. Jackson siamo abituati a vederlo in ruoli forti: è spesso leader e guida spirituale, come nella saga di Star Wars, in cui è il maestro Jedi Windu. O nell’Universo Marvel: è Nick Fury, agente segreto che ha unito gli Avengers. Per non parlare dei ruoli cult che gli ha dato l’amico Quentin Tarantino, da Pulp Fiction a Jackie Brown a Django Unchained. Questa volta no: produce e recita nella miniserie di Apple TV+ The Last Days of Ptolemy Grey (Gli ultimi giorni di Tolomeo Grey, in streaming da un paio di giorni), in cui è un uomo affetto da demenza senile: proprio come sua madre e suo nonno. Un uomo fragile di 93 anni che non ricorda il suo passato. Con lui una ragazzina, Robyn (Dominique Fishback), che lo aiuta a scoprire chi ha ucciso suo nipote. Per Jackson adattare il romanzo omonimo di Walter Mosley, pubblicato nel 2010, era una questione personale, ed è la prima cosa che ci tiene a dire: «Volevo far capire a chi guarderà la serie che la persona che conosci è ancora lì dentro: non puoi gettarla via. Devi occuparti di lei, come se facesse ancora parte della tua vita in modo attivo».
Lei ha 73 anni, Ptolemy ha 93 anni: la spaventa l’idea di invecchiare?
«Non mi preoccupa: mi sveglio vecchio ogni giorno! Non ho paura. Penso sia meglio dell’alternativa, no?».
Ptolemy, per indagare sull’omicidio del nipote, prende un farmaco sperimentale per ritrova-re la memoria. Nella stessa situazione lo farebbe?
«Accetterei in un secondo. Quando ero giovane avevo la brutta abitudine di prendere droghe: quindi figurati se non lo farei da vecchio».
Da attore la spaventa di più essere dimenticato o dimenticare le battute?
«Mi preoccupa di più essere dimenticato! Ho fatto diverse cose che piacciono alla gente, spero mi ricordino per quelle. Da attore la tua memoria la usi in modo molto diverso quando lavori a un film o in teatro. Quest’anno farò uno spettacolo e sto già studiando! Non so se ho la mente sveglia come una volta, ma spero di sì, perché sto imparando moltissimi dialoghi. Ogni giorno mi sveglio e li ripeto: mi aiuta a combattere la paura di diventare come mio nonno».
Non ha recitato spesso in tv: preferisce il cinema?
«Non c’è differenza per me tra un film e una miniserie come questa: semplicemente il processo è più lungo. Questa storia non si poteva raccontare in due ore: ce ne volevano sei per mostrare l’effetto che hanno avuto sulla vita di Ptolemy tutti i personaggi che vediamo. Così si capisce meglio qual è il grande mistero della sua vita, che lui stesso ha dimenticato. Per capire il vero significato della sua missione dobbiamo fare il viaggio con lui».
Non l’abbiamo vista quasi mai così fragile: è stata una sfida?
«È interessante interpretare un personaggio non onnipotente, uno dei classici uomini forti che ho fatto in passato. Qui ho esplorato le varie sfumature della paura, del sentirsi persi. L’ho visto succedere a mia madre e mio nonno: a volte facevo delle domande di cui conoscevano le risposte ma non riuscivano a ricordarle. Ho visto cosa fa questo a un essere umano: la frustrazione, la rabbia. Conosco bene la frustrazione anche di chi si trova dall’altra parte e non sa come comportarsi. Ho cercato di portare quel sentimento sullo schermo nel modo giusto. Per me era molto importante».
Perché fa così poco questo tipo di ruoli?
«Tendo a fare film-popcorn, quei film che volevo vedere da bambino. Mi rendono felice. Penso che la gente vada al cinema soprattutto per quella sensazione di entusiasmo. Ma penso sia molto importante raccontare anche storie come questa. Semplicemente non lo faccio spesso. Lo facevo quando lavoravo tutto il tempo in teatro. Non è che non sono in grado: ho fatto una scelta. La serie merita di essere vista perché il personaggio che si vede nel primo episodio non è lo stesso dell’ultimo. Non parliamo solo di demenza, ma del percorso di un essere umano».
È interessante come per conoscere il presente Ptolemy debba prima ricordare il passato. Quanto è importante conoscere la propria storia?
«Si dice che se non si ricorda il passato siamo destinati a ripeterlo nel futuro. Sapere cosa ti ha portato su una strada sbagliata ti permette di evitare quelle trappole, di cercare un modo per aggirarle e aiutare altre persone che stanno affrontando la stessa cosa. Il passato ci può dare delle lezioni di vita: possiamo ascoltare il nostro intuito oppure no. L’importante è non ripetere gli stessi errori».
Lei è un veterano del cinema: pensa che oggi per i giovani attori afroamericani sia più facile rispetto a quando ha cominciato?
«Sì. Oggi è molto più facile rispetto a quando ho cominciato io. Ci sono più storie da raccontare: c’è bisogno di più contenuti. Il pubblico stesso è cambiato. Le persone che scrivono film e serie sono cambiate. La società è cambiata: le persone oggi sono abituate a vedere medici di colore, il rapporto tra uomini e donne è cambiato. È cambiato tutto. Girare un film non è più una cosa misteriosa: la gente fa i film con il cellulare alla scuola elementare. È una professione più accessibile».
Anche nella serie c’è il confronto tra vecchie e nuove generazioni.
«L’esperienza di una persona anziana e il punto di vista di una giovane insieme possono creare una prospettiva nuova sul mondo. Ptolemy e Robyn vogliono che l’altro riconosca il proprio valore. Riconoscendosi diventano entrambi persone migliori».