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 2022  marzo 13 Domenica calendario

Essere padre secondo Sandro Bonvissuto

Molti anni fa, all’epoca in cui avevo i figli alle elementari, mi ritrovavo ogni pomeriggio nel giardino della scuola con altri padri come me. Cioè non come me, perché ogni papà è una cosa a sé stante. Sembravamo gente che si era persa nel cortile dell’istituto, una specie di minoranza etnica, e un’ala del giardino diventò la nostra riserva indiana. All’interno del gruppo convivevano provenienze e destini diversi, e diventammo qualcosa tipo un sindacato, o una carboneria, mantenendo un’indipendenza di pensiero e una visione riformista del nostro compito di genitori. I nostri padri erano stati dei rigidi dispensatori di regole e punizioni, un modello che si era radicato nei secoli, e che aveva lasciato in noi gabbie psichiche collettive e archetipi ereditari, cose che non potevano essere spazzate via in un pomeriggio. Ma eravamo più vecchi dei nostri genitori, perché ora i maschi avevano preso a uscire da casa dopo; una donna che si sposa tardi è un esempio progressista, un uomo che si sposa tardi è un concetto conservativo.
Quindi eravamo pure già vecchi. E i nostri eredi ci sembravano invece strafottenti e maleducati, non abituati a confrontarsi con il peso formativo del rifiuto, ignari del concetto di limite, disertori di ogni sacrificio. Non avevano interiorizzato la nostra figura con lo scopo di superarla, ne facevano direttamente a meno. E in uno di quei pomeriggi fu deciso di dare una lezione di vita, un’imparata de creanza, a quegli stronzetti presuntuosi e arroganti dei nostri figli.
Organizzammo una partita a pallone grandi contro piccoli, da disputarsi nel campetto della parrocchia attigua. In quell’occasione avremmo ridimensionato le ambizioni dei nani malefici con i sistemi tradizionali. Nella squadra dei padri giocava pure un tedesco, che diede il nome a quella nostra iniziativa, battezzandola strafexpedition, e cioè spedizione punitiva. E un altro di noi, che invece veniva a scuola con suo padre, avrebbe giocato con loro in quanto figlio, mentre suo padre avrebbe giocato con noi in quanto padre, anche se era nonno. Ma il nonnetto ci stava simpatico perché rideva sempre. La spacciammo per una partita amichevole mentre avevamo deciso di opporci fisicamente ai nostri ragazzi, di limitare la loro boria e superbia, come i nostri genitori avevano fatto con noi, imponendo il rispetto dell’autorità, dal quale scaturiva la vera funzione evolutiva del limite, concetti perduti in questo nuovo clima di amicizia fra padri e figli, che aveva finito per creare una generazione di ragazzini sempre più egocentrici e individualisti. Andammo pure a bere delle Ceres prima dell’incontro, perché adesso sono i padri a essere trasgressivi, non i figli. Invece perdemmo miseramente la partita; i puffi venivano giù dappertutto, sembravano aerei da guerra, e non c’era verso di prenderne uno. Il tedesco giocava coi sandali, un paio di altri padri in mocassini. Il nonno arruolato con noi rideva sempre perché aveva avuto un ictus due anni prima, e il figlio che avevamo mandato nell’altra squadra sembrava Rudy Völler e fece sei gol. Ma la sconfitta contro i malvagi pigmei ebbe una grande eco a scuola e si trasformò in realtà in una specie di capolavoro pedagogico; al ritorno nel plesso fummo accolti dalle maestre come eroi.
Gli omuncoli erano stati contenti di aver battuto i genitori, e le insegnanti ci spiegarono come sia giusto che il padre si costituisca nei confronti del figlio in modo da essere un ostacolo, stimolando quella tensione capace di isolare il carattere personale del bambino, ed evitare che il figlio sia divorato da una psiche narcisistica; è il padre che si oppone ad avere la funzione di orientare il soggetto verso il proprio sé, decretandone l’affermazione.
Ogni padre autoritario può e deve essere sconfitto, detiene egli stesso le modalità e le istruzioni della propria sconfitta, è nato per soccombere a differenza della madre che non soccombe mai. E quindi avevamo fatto bene a perdere per finta la partita col fine di far credere ai ragazzini di essere più bravi. Noi, con grande modestia, respingemmo i complimenti. Una coordinatrice ci chiese a quali scuole di pensiero ci sentivamo più vicini, e noi rispondemmo a quella russa. E lei ne fu felicissima. E anche a quella nord americana, «quella dell’attivismo pedagogico?» chiese lei, «e certo», rispondemmo noi, «che ce lo sta pure a chiede?».
Gli uomini non sono padri per natura, essere madre è natura, essere padre è un’altra cosa. Forse per questo si tratta di un ruolo così ambiguo, spesso sovversivo, o creativo, un compito ausiliario, ma senz’altro vitale.
Perché un mondo senza padri sarebbe come un biliardo senza sponde, caotico e insicuro, privo di limiti, senza la tutela che garantisce il confine di un rifiuto; è l’immagine paterna a governare il super-io. Ma la demolizione del maschio si è portata appresso anche la sconfitta del padre. Ed è strano perché essere padri non significa mica essere maschi.