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 2022  marzo 13 Domenica calendario

I mercenari, le sporche brigate di Putin

Una nuova vena sta per essere aperta per irrorare il moloch della guerra ucraina. L’annuncio di Putin che autorizza l’arruolamento di «volontari in Medio oriente» significa che il conflitto è arrivato a un altro più cruento passaggio. Se gli ucraini pensano che sia un segno di debolezza, che l’esercito russo descritto come affievolito da diserzioni, scarsa combattività, e abbia bisogno disperato di nuove reclute, temo che si sbaglino. È semmai l’annuncio di una nuova pena. I siriani, perché questi saranno i mercenari, vengono schierati per interpretare l’ultimo capitolo del programma dell’invasione: dopo i bombardamenti, le città assediate, le puntate a Nord e a Sud delle colonne corazzate, è il momento della conquista strada per strada delle città. A questo servono i siriani: non mercenari all’ingrosso, carne da macello per rimpolpare divisioni esauste. Ma professionisti esperti della mischia urbana, operai della espugnazione delle macerie. Bisogna vuotare le città come un corpo si dissangua.
Dalla Siria infatti arrivano conferme: i reclutatori russi con la collaborazione degli uomini dei Servizi e dell’esercito di Bashar al-Assad, alleato riconoscente, non ingaggiano chiunque. Solo veterani della venticinquesima divisione dell’armata siriana, quella riorganizzata e riaddestrata da ufficiali russi proprio per completare la riconquista di Aleppo nel 2016. Accanto a loro ci sono i «volontari» reclutati nel Sud, a Deraa, gli smobilitati del quinto corpo di assalto. Lo componevano milizie locali fedeli a Bashar, manovalanza della guerra senza regole, prigionieri o pietismi; e anche ex ribelli amnistiati dal regime e che hanno dimostrato sul campo di voler cancellare la colpa di avere combattuto al fianco della rivoluzione. Alcuni di loro sono reduci dalla missione in Libia sempre a fianco dei russi. Sette mesi di missione per l’operazione speciale: settemila dollari.
È possibile che una parte di loro sia già nel Donbass «liberato». Ma finora erano stati impiegati per allestire fortificazioni e per irrobustire la resistenza degli insorti filorussi.
Finora li avevano tenuti nelle retrovie. Inutili in una guerra di divisioni corazzate e aviazione. Non gli appartiene, non ne hanno l’alfabeto. Ma per prendere Kiev, Mariupol, Kharkiv, l’atto finale, occorrono i fanti specializzati nella guerra più insidiosa del ventunesimo secolo, quella che ha come teatro e vittima la città, la città moderna, gigantesca con le periferie labirintiche, i palazzi di cemento spesso come quello delle fortezze, le strade che diventano trincee di macerie, trappole popolate di cecchini. Ora artiglieria e carri che in città sono vulnerabili anche al gesto di un uomo ben armato, passeranno in retrovia. È la volta degli uomini, delle bombe a mano, del lanciagranate, del coltello. Occorre tecnica e ferocia per violentarla, la città, strada dopo strada, quartiere dopo quartiere. È una guerra a parte, la morte ogni giorno e ogni notte diventa così presente, così pesante come piombo sui sensi. È fatta da pattuglie vagabonde che seguono itinerari di sopravvivenza e di morte scritti solo nella loro esperienza, si tendono agguati, si cercano a tentoni nel silenzio della città uccisa.
Ci vogliono uomini senza pietà, già morti e risorti mille volte, combattenti per cui la vittoria finale è una parola senza significato. La loro vittoria è impossessarsi dei piani devastati di un edificio distrutto, sgozzare un cecchino che ha ucciso qualche compagno. La guerra è la tua pattuglia di assassini, il tempo non ha più senso, lo scala la pazienza con cui sai aspettare la mossa falsa dell’altro o la velocità con cui scavalchi il frammento di cemento che ti sta davanti. I siriani e i ceceni ne son diventati maestri.
La strada. Il lavoro di uccidere, l’orrore e il sangue. Li ho visti in azione questi uomini. Quando ti immergi nelle immense trincee urbane, il tuo orizzonte diventa una città ormai orizzontale, ti sembra che la guerra sia universale, che ovunque tutti ammazzino tutti. Che il mondo e la vita si siano ridotti a questo. Non può essere diversamente, altrimenti impazziresti. Il soldato normale ha momenti di quiete, gli danno il cambio, c’è la retrovia con altra gente normale. Uccidere è un lavoro a tempo, afferri le armi e poi se sei ancora vivo li riponi fino al prossimo turno.
Gli assassini della guerra urbana no, non possono avere ondeggiamenti di irresolutezza.
Ad Aleppo ho incrociato questi piccoli gruppi saturi di morte tornare all’alba portandosi dietro i cadaveri dei compagni uccisi nelle loro fosche epopee. Anche gli altri combattenti si ritraevano in silenzio. Sembravano appena usciti da una bara, tremavi se quegli occhi ti sfioravano. In quella guerra di imboscate erano uomini tornati a istinti oscuri diabolicamente ingegnosi, come se li avessero incontrati in una foresta selvaggia non fitta di alberi, ma di macerie, di relitti dell’uomo.
In azione non parlano, solo cenni. L’aria si riempie ogni tanto di rumori metallici. La fucileria da qualche parte brucia rapidamente come una stoppia. Sembrano nati con le rovine stesse e legati lì. Gli stamburamenti del cannone sembrano loro inutilmente rabbiosi, ormai servono solo a far sobbalzare i cadaveri degli edifici: la questione ormai è nostra, ci appartiene, la sfida è tra noi e quelli nascosti dall’altra parte nel reciproco panico degli agguati. Perché non ci sono fronti. Il fronte è dove in quel momento sei tu e i compagni. Per combattere in città bisogna che sotto i tuoi scarponi la terra diventi sensibile come una membrana, ti trasmetta i rumori anche i più vaghi e lontani. Diventi un predatore, i tuoi sensi si affinano in quell’odore di pietra e di fumo. Ti devi abituare all’instancabile lezzo della carne imputridita sotto i palazzi crollati.
La cosa più spaventosa degli uomini che combattono questa guerra è proprio il loro feroce coraggio. Non si possono abbattere gli uomini come le bestie al mattatoio. Bisogna affaticarsi a ucciderli.