Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  marzo 13 Domenica calendario

Julian Barnes medita sulla morte

Niente paura, dice a proposito della morte Julian Barnes in un libro che ha proprio quel titolo (Einaudi, pagg. 246, euro 19,50, traduzione di Daniela Fargione). Parla per te, vien voglia di rispondergli, facendo anche i debiti scongiuri, non fosse che da quella paura Barnes è attanagliato da sempre e quindi, più che un invito a non preoccuparsi, il suo è nient’altro che un esorcismo, come i riti apotropaici di cui sopra. Il fatto è che, irrazionalmente, tutti quanti non vorremmo morire e altrettanto irrazionalmente sempre ci illudiamo che non sia ancora suonata la nostra ora. Viene alla mente quel racconto millenario del servitore di un mercante di Baghdad il quale, inviato al bazar per fare compere, scopre la Morte nel volto della donna che lo ha urtato nella folla. Spaventato, il servitore monta a cavallo e fugge a Samarra dove, pensa, la Morte non lo raggiungerà. Il mercante, avvertito della fuga, va a sua volta al bazar, incrocia la Morte e la rimprovera: «Perché hai spaventato il mio domestico?» le dice. E la Morte gli risponde: «Ma no, mi sono soltanto sorpresa di vederlo lì, visto che avevo un appuntamento con lui a Samarra, questa sera»...
Julian Barnes è uno scrittore elegante, colto, ironico, ma esorcizzare la morte, la paura della morte, è un’impresa superiore alle sue forze, e ne è perfettamente consapevole. Il libro è di una quindicina d’anni fa, quando, fresco sessantenne, e esclusa una leggera sordità, godeva di ottima salute. Il problema, per lui come per tutti quelli che navigano ormai da tempo nel mare degli anta, è che la vecchiaia più che uno stato anagrafico è un presidio medico: come diceva Alberto Moravia, «non esiste la vecchiaia, esistono le malattie della vecchiaia»... E va da sé che la criopreservazione e altre diavolerie tecnico-scientifiche lasciano il tempo che trovano. Basta rifletterci un attimo per accorgersi che l’idea di ritrovarsi con le cellule vive cinquanta o cento anni dopo che ci siamo fatti congelare trasforma la paura della morte in un incubo della vita. Quanto all’immortalità, e più in generale alla vita eterna, Barnes fa propria una riflessione di William Somerset Maugham: «Gli uomini odierni non mi sembrano affatto idonei ad affrontare l’enormità della vita eterna. Con le loro piccole passioni, le piccole virtù e i piccoli vizi sono sufficientemente adatti alla vita quotidiana; ma il concetto di immortalità è troppo vasto per essere forgiato in uno stampo tanto minuscolo».
Barnes è un agnostico, non un ateo: «Non credo in Dio, però mi manca», in sintesi. Ciò significa che l’ateismo militante lo rende sospettoso, come rendeva sospettoso Gustave Flaubert, uno dei suoi numi tutelari e protagonista di un suo bel libro, Il pappagallo di Flaubert, appunto. È proprio da quest’ultimo che gli deriva del resto l’idea che «se ogni dogma in sé mi è repellente, considero il sentimento che li ha inventati come i più naturale e il più poetico dell’umanità. Non amo i filosofi che non vi hanno visto che pagliacciate o stupidità. Io vi scopro necessità e istinto; così rispetto il negro che bacia il suo feticcio quanto il cattolico ai piedi del Sacro Cuore».
Allo stesso modo, proprio perché è un sentimento, un istinto e insieme una necessità, gli scrittori scommettono sull’immortalità letteraria, una scommessa, va da sé, di cui non solo non sanno se risulterà vincente, ma di cui comunque non ritireranno la posta in caso di vittoria. È insensata, insomma, e Barnes lo sa benissimo, però è umana, umanissima, allo stesso modo di come ci si illude di lasciare una traccia, tramandare qualcosa. Nello scorrere dei secoli, i nomi si scolorano fino a scomparire, senza dimenticare che la storia è un’invenzione occidentale, un tentativo di dare un ordine e un senso a un mondo che intanto marcia per conto proprio.
Proprio perché è uno scrittore, oltre a illudersi, senza però crederci più di tanto, di sopravvivere a sé stesso tramite le sue opere, è negli scrittori che Barnes cerca la compagnia atta a esorcizzare la paura della morte. In testa, naturalmente, c’è Montaigne con il suo «essere filosofi significa imparare a morire». L’illustre francese citava in questo senso Cicerone, e viveva ancora in un’epoca in cui morire di vecchiaia era un lusso, ovvero un avvenimento raro, mentre oggi viene considerato un diritto. Secondo Philippe Ariès, l’autore di La morte e l’Occidente, mai si è cominciato a temere la morte come da quando si è cessato di parlarne. La longevità ha reso l’argomento tabù, mentre un tempo non solo, guerre permettendo, si moriva in casa, ma si moriva giovani. Più in generale, e questo è un insegnamento della romanità, più che della classicità greca, maggiormente portata alla speculazione metafisica, era la qualità della vita che contava, non la sua durata. È sempre di Montaigne il racconto di quel comandante romano al quale un vecchio e decrepito soldato chiede il permesso di liberarsi del peso dell’esistenza. Il comandante lo guarda con attenzione e poi gli domanda: «Cosa ti fa pensare che quella che vivi sia vita?».
È la «morte della giovinezza», chiosa Barnes, nel riassumere questo racconto, a essere la più dura e la più inosservata: «Ciò a cui di solito ci riferiamo quando parliamo di morte non è che la fine della vecchiaia. Il balzo dall’attenuata sopravvivenza della senescenza alla non-esistenza è molto più facile dell’insidiosa transizione dalla spensierata giovinezza all’età dei mugugni e dei rimpianti». Credo però che Montaigne volesse dire qualcos’altro, ovvero che l’invecchiare inaridisce la nostra capacità di sentire, ci rende meno disponibili al fluire della vita, più egoisti perché più provati. È ciò che Maugham, altro spirito-guida di Barnes, riassume efficacemente in una frase: «La grande tragedia umana non è perire, ma cessare di amare».
Non potendo vincere la morte, pensava Montaigne, il modo migliore per contrattaccare era averla sempre in testa: insegnare a qualcuno a morire significava insegnargli a vivere, detto in breve. A Barnes una simile filosofia non piace, anche perché non è detto che la prima parte di questa affermazione contempli la seconda. Di per sé, pensare sempre alla morte non necessariamente aiuta a vivere meglio, è un sofisma, più che una consolazione... Soprattutto, visto che è proprio quell’ossessione a turbare il sonno di Barnes, è chiaro che almeno per lui non funziona, ha un effetto paralizzante, non rasserenante. Non gli piace nemmeno però, cosa che invece soddisfa il piccolo ego di chi sta scrivendo queste righe, il non pensarci mai e che può riassumersi nel luogo comune «sappiamo di dover morire, tuttavia ci crediamo immortali»... Vale la pensa sottolineare che per quanto sia un luogo comune, è anche una fonte di normalità, come del resto pensava Sigmund Freud: «Il nostro inconscio non crede alla propria morte, si comporta come fosse immortale»...
In quest’ottica, si può persino ammettere che si possa non aver paura della morte, ma aver paura di morire. In Dialogo con la morte, Arthur Koestler racconta il curioso scambio di opinioni con il pilota franchista che lo sta portando in volo sul luogo dove quest’ultimo riabbraccerà la moglie prigioniera dei repubblicani e lui, grazie a questo scambio, sarà liberato e scamperà così alla fucilazione. «Per me è esattamente il contrario» gli dice il pilota quando Koestler gli espone la sua filosofica accettazione della morte: «Prima di essere vivi in questo mondo, eravamo tutti morti»... Lui teme proprio di morire, non teme la morte in quanto tale. Barnes però resta perplesso: «Manca una ragione logica perché l’una cosa escluda l’altra; non c’è ragione per cui la mente, con un po’ di allenamento, non possa espandersi fino a comprenderle entrambe». E dunque, per quello che lo riguarda, gli fa paura sia la morte, sia il morire...
Torniamo un momento, e per finire, al dilemma fra il pensarci sempre e il non pensarci mai. Barnes esamina l’ipotesi che ci possa essere una posizione intermedia, razionale, adulta, scientifica, liberale. Moriamo perché il mondo possa continuare a esistere, perché il nostro tempo è limitato, per perpetuare il trionfo della vita, perché siamo parte di un ciclo vitale... Sono tutte risposte razionali, che non funzionano però di fronte all’irrazionalità che vorrebbero risolvere. Come lo stesso Barnes conclude ironicamente: «Se mai un medico mi dicesse, quando sarò sdraiato in un letto d’ospedale, che la mia morte non solo aiuterà qualcun altro a vivere ma sarà sintomatica del trionfo dell’umanità, lo terrò ben d’occhi quando verrà a controllare la flebo».