Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  marzo 13 Domenica calendario

Paolo Calabresi si racconta

È la storia vera di un dolore enorme, che tramortisce e cambia per sempre, e di un’ossessione che stravolge ogni cosa e porta il protagonista a perdere quasi tutto. L’attore romano Paolo Calabresi, 57 anni, moglie e quattro figli, uno dei volti più noti del cinema e della tv italiana (Smetto quando voglio, Boris, Le Iene etc), nel suo primo libro Tutti gli uomini che non sono ha messo questo ed altro. La morte, per esempio, che non è esattamente quello che ci si aspetta da uno come lui.
Che fa, con il titolo scimmiotta un po’ Emmanuel Carrère e il suo Vite che non sono la mia?
«Mi sono accorto dell’assonanza dopo averlo scelto, giuro. In realtà avevo pensato di rubare il titolo alle Vite degli altri (il film del 2006 sulle spie della Stasi, ndr) o all’Uomo che non c’era dei fratelli Coen del 2001».
Cosa ha scritto?
«Non la solita autobiografia del famosetto, l’attore che sfrutta uno straccio di popolarità per far cassa, ma la storia delle mie follie trasformiste di vent’anni fa (da Cage a Marilyn Manson, John Turturro, Mister Babu etc.), nate da tre lutti che all’epoca mi stesero».
Quali?
«Nel 1997 i miei genitori sono morti a distanza di dieci giorni uno dall’altro. Quando a mamma a 63 anni dissero che per il suo tumore non c’era altro da fare, papà che era sanissimo – non si scompose. Andò a dormire e a 69 anni non si è più svegliato. Infarto. Dieci giorni dopo, stessa sorte per mamma. E tre mesi dopo anche per Giorgio Strehler, la persona che mi ha insegnato tutto della recitazione. Dall’87 al 90 ho frequentato la sua scuola del Piccolo di Milano, e dal 90 al 97 mi ha scritturato in tutti i suoi spettacoli». 
Reazione?
«Nessuna. Ho fatto finta di niente. Zero lacrime. Anestetizzato».
Ha mai pensato all’analisi?
L’avevo appena finita. Per il mio terapeuta, scuola junghiana, ero a posto».
Perché c’era andato?
«Posso solo dire che dopo poche sedute avevo incontrato il mio inconscio e avevo ripreso a sognare dopo anni che non lo facevo».
Va bene. Poi?
«Dopo due anni è scoppiato il bubbone». 
Come?
«Con il primo travestimento, quello di Nicolas Cage del 2000. Io volevo solo andare a San Siro a vedere Milan-Roma, spacciandomi per la star americana, ma poi riuscì tutto così bene che non mi sono più fermato». 
Il segreto?
«Non avevo niente da perdere. Facevo qualsiasi cosa. Mi sentivo libero».
E quindi?
«Capii subito che era una cosa importante. In una serata avevo ritrovato l’entusiasmo perso».
Tutto vero quello che c’è nel libro?
«Sì. Tranne lo psichiatra che ha in cura Paolo C. e mia moglie che mi molla».
Non è andata così?
«Per fortuna, no. Fiamma è sempre stata al mio fianco. E non è stato facile perché ero un uomo a pezzi che con i travestimenti aveva perso completamente il controllo. Non pensavo ad altro e per i trucchi, gli spostamenti e i complici spendevo quasi tutti i soldi della gestione familiare. Nessuno mi pagava. Meno male che mia moglie, all’epoca pubblicitaria e oggi agente, lavorava. Una volta, con Mediaset, me la sono anche vista malissimo».
Che intende dire?
«Nel 2003 per il Galà della pubblicità di Canale 5 mi finsi Marilyn Manson, in Italia per promuovere un ketchup piccante, ovviamente una cazzata colossale. Mi fecero firmare una lettera in cui mi impegnavo a comprare spazi pubblicitari da Publitalia. Dopo che si scoprì il trucco volevano farmi causa. Mi avrebbero spennato, mi salvai perché si accontentarono dei filmati».
Sua moglie sempre d’accordo?
«A chi, anche in famiglia, le diceva che dovevo smetterla assolutamente, lei rispondeva: Paolo sta bene così. Sa quello che fa».
Lo sapeva?
«Insomma... Non del tutto. Diciamo che vivevo in maniera estrema l’aspetto più romantico e creativo del mio lavoro. Come nel film Tootsie ero un attore che aveva bisogno di far bene il suo lavoro e dare un senso alla sua vita, ma sfasciava tutto il resto. D’altra parte Strehler lo diceva sempre: come i bambini giocate a far finta di essere qualcun altro. Seriamente, però. Altrimenti non funziona». 
Quando ha smesso di funzionare?
«Stress, fatica e responsabilità dopo quasi otto anni mi hanno fermato. E poi entrando nel sistema è cambiato tutto».
In che senso?
«Da scheggia impazzita, che non doveva rendere conto a nessuno, con le Iene ho accettato le regole. I miei travestimenti sono stati scambiati per Scherzi a parte e tante cose che ho fatto non mi sono piaciute. Con Eva Grimaldi sono stato crudelissimo. Ripresi i panni di Nicolas Cage e le feci fare un provino in cui doveva diventare una pantera a quattro zampe. Fu penoso».
Fra le vittime chi si è arrabbiato di più?
Walter Veltroni non prese bene l’incontro con il mio Mr. Babu, l’ex capo del governo del Botswana, quando lui voleva tanto andare in Africa. John Turturro invece quando seppe che ai David di Donatello nel 2001 mi trasformai in lui, ma venni scoperto da Leo Gullotta, si mise a ridere come un pazzo. Me lo fece conoscere il produttore Domenico Procacci a casa sua. Quando bussò alla porta mi chiese di andare ad aprire e... Insomma, mi è sucesso di tutto: farò un documentario».
Sui travestimenti?
«Sì. Ho ore di girato. Mi ispiro a quello realizzato da Jim Carrey (Jim & Andy: The Great Beyond, ndr) mentre girava Man on the moon, il film di Milos Forman sul comico americano Andy Kaufman. Ma non lo dirigerò io, ci vogliono occhi esterni».
E quando debutterà come regista?
«Spero presto. Vorrei dirigere una commedia sentimentale tipo Harry ti presento Sally, con attori bravi che vanno fino in fondo». 
Finora pensa di aver raccolto il giusto?
«Ho avuto tantissimo, ma credo che avrei dovuto fare un percorso diverso. La tv mi ha fatto entrare in quell’area di mercato che da anni mi porta a essere cercato solo per fare commedie».
Poteva rifiutare.
«Ero stanco, non avevo un soldo e volevo un po’ di tranquillità. Non rinnego nulla, sia chiaro, però è andata così. Ricordo che Oliviero Beha mi disse di ascoltarmi sempre e fare solo le cose giuste per me: non l’ho ascoltato».
E adesso?
«Non mi lamento, ma con questo libro e magari con il documentario vorrei far capire che non sono solo un attore leggero, ma so fare – bene – anche altro».
Le sale torneranno a riempirsi o è finita: le piattaforme hanno cambiato tutto per sempre?
«Spero di no. Anche quello è spettacolo dal vivo. Il problema è che la gente stava sul divano anche prima del Covid. Netflix, Disney e gli altri ormai hanno preso tutto».
Mai che cosa, adesso? 
«I reality. Tutti. La realtà lì dentro non esiste. Hanno abbassato il gusto e la qualità in maniera spaventosa».
E se Maria De Filippi, per esempio, dovesse invitarla per la promozione del libro?
«Spero non lo faccia. Ci tengo davvero tanto, potrei accettare».