Corriere della Sera, 13 marzo 2022
Intervista alla pianista Hélène Grimaud
Hélène Grimaud è una pianista evocativa, «spirituale», immaginativa che si nutre di ambiente e dell’armonia della natura. Dalla dolcezza dello sguardo non trapelano l’inquietudine che ha segnato la sua adolescenza e le sue scelte mai convenzionali, come il noto amore che ha per i lupi. È una celebre «eco artista». Suona il 14 in un recital a Roma alla Galleria Colonna per Domus Artium, e il 17 con l’Orchestra della Rai a Torino: al centro dei due programmi, Schumann.
Schumann volle come prima pianista del Concerto, sua moglie Clara. Esiste un pianismo al femminile?
«No, non penso. Si parla molto di donne direttrici d’orchestra, mentre le pianiste sono sempre esistite. Il dubbio è generato dall’associazione con l’approccio visuale. Se ascolti un cd al buio è difficile fare distinzioni di genere. Martha Argerich, Yuja Wang, Beatrice Rana suonano con una vitalità incredibile, una qualità che non appartiene all’uomo o alla donna. L’unica differenza tra gli artisti è come trovare se stessi in uno spettro che non è mai stabile, dove il senso di appartenenza sembra riferirsi alla comunità più che all’individuo, ma questo riguarda ognuno di noi».
La musica come l’ha aiutata a uscire dalla sua adolescenza problematica?
«Lo ero a scuola, nel processo di apprendimento non ero interessata ai bambini della mia età, esprimevo l’insoddisfazione in atti compulsivi, ero ossessionata dalla simmetria, mi ferivo deliberatamente. Ho avuto la fortuna di genitori dalla mente aperta, volevano convogliare la mia energia, canalizzarla. Prima mi hanno indirizzato allo sport e alle arti marziali, poi è apparsa la musica (mia madre cantava). Volevo essere me stessa. Al Conservatorio a Parigi ho avuto problemi ma non nella disciplina o con i maestri, era il sistema antiquato. Se avessero saputo che ascolto rap e Radiohead…».
C’è un’associazione tra i colori e la musica?
«È un tema che riguarda l’identità emotiva. I colori li associo alla tonalità del pezzo: il do minore rimanda al nero. Si può dire che il colore di Schumann è il rosso, per il cuore che mette in ogni suo pezzo, e di Debussy direi il verde, ma lo dico in modo istintivo, non so spiegare perché. Una musica liquida, altamente suggestiva, che segue la curva della brezza marina e non solo nei titoli (La Mer, Giochi d’onde, Il dialogo del vento e del mare). È importante la riconciliazione degli opposti, che non riguarda solo la musica. Ma restando alle note, io amo Debussy e il suo opposto che è il romanticismo di Schumann, il più letterario tra i musicisti».
Cosa ha imparato dai lupi, l’altra sua passione?
«Il rispetto per tutte le altre creature; l’importanza di uno scopo nella vita, non importa se buono o cattivo; il vivere il momento e non, come fa l’uomo, pensare solo al passato o al futuro. I lupi vivono nello Stato di New York, non sono di mia proprietà anche se fanno parte della Fondazione che ho fondato. Non si tratta di strapparli alla vita selvaggia per essere messi in cattività, allora sarebbero in un altro zoo. Cosa bisogna evitare entrandovi a contatto? Dipende dal contesto, è un territorio ci sono tante possibilità. Entrare in una gabbia con dei lupi è come salire sul palco, devi lasciarti l’agitazione alle spalle e concentrarti al cento per cento, non deve esistere altro».
Reagiscono alla musica?
«Sì, in modo casuale. Quando ascoltano il Concerto per violino di Schumann, e solo quel pezzo, smettono di fare quello che stavano facendo e si avvicinano agli altoparlanti. Una reazione più curiosa l’ho vissuta in Svizzera con le mucche: stavo provando e se suonavo Bach si avvicinavano alla finestra, con Beethoven se ne andavano».
Lei da giovanissima ha conosciuto Daniel Barenboim e Martha Argerich.
«Hanno una cosa in comune, che lo reputo un dono: la disponibilità a mettersi in ascolto dei giovani, fino a farli volare con le loro ali, sulla loro verità d’artista».
Ci sono tante versioni sul diverbio avuto con Abbado.
«La verità è semplice. Avevamo punti di vista diversi sulla cadenza di Busoni per il Concerto K 488 di Mozart. È un po’ come con i genitori, che tendono a vederti sempre piccolo d’età. Si cresce, avviene il tempo della separazione. In ogni caso il legame tra me e Abbado è testimoniato da tanti progetti e cd insieme».
Ma qual è il suo obiettivo nella musica?
«Andare al di là della fragilità della performance dal vivo, compiere un viaggio emotivo, non riproducibile, con i colleghi e con il pubblico».