Corriere della Sera, 13 marzo 2022
Biografia di Lunetta Savino raccontata da lei stessa
«Ero nata con una massa di capelli biondi chiarissimi, che ricordava il chiarore della Luna. Inoltre, un mese prima della mia nascita, era avvenuto il lancio dello Sputnik nello spazio e un amico-poeta dei miei genitori suggerì loro: perché non la chiamate Lunetta? Stiamo parlando del 1957 e, all’epoca, si usava sempre utilizzare nomi di santi, ma la mia era una famiglia originale nelle scelte, decisamente anticonformista...», racconta con orgoglio Lunetta Savino, la amatissima e indimenticabile Cettina di Un medico in famiglia.
Un personaggio che l’ha resa popolare al vasto pubblico televisivo. Forse, però, l’ha un po’ costretta in un ruolo?
«Sì, poi ho dovuto faticare un po’ per convincere il pubblico, e anche altri produttori, registi, che ero capace di fare cose diverse... Tanto più amato è un personaggio, tanto è più difficile uscirne, e ho dovuto imparare a giocare su più tavoli. Con questo non voglio assolutamente dire che lo rinnego: Cettina ha rappresentato una svolta nella mia carriera, un’esperienza straordinaria realizzata con dei compagni di scena eccezionali, primo fra tutti Lino Banfi. Siamo entrambi pugliesi, molto differenti, eppure tra noi c’è sempre stata un’empatia totale».
Lei ha interpretato vari tipi di madre. Come mai?
«Forse perché ho avuto una madre speciale, si chiamava Gigliola. Nonostante appartenesse a una generazione d’altri tempi, era una donna libera: indossava i pantaloni, aveva i capelli corti che non tingeva mai e non si truccava. E soprattutto era una donna colta, professoressa di Letteratura all’Università di Bari. Purtroppo, dopo i settant’anni, è stata colpita dall’Alzheimer. Non mi capacito ancora come sia possibile che una mente bella, ricca di cultura come la sua possa essere stata annientata da una malattia che colpisce proprio la mente. Con lei parlavo di tutto, libri, arte, film... e a un certo punto non l’ho potuto più fare. A volte mi capita di pensare devo dirlo alla mamma, poi mi ricordo che non c’è più, ma l’istinto c’è ancora. Ed è stata una anziana signora pugliese che, qualche tempo fa a un evento, mi ha restituito tutta la forza intellettuale di mia madre, dicendomi che era stata una sua alunna e che grazie a lei si era appassionata alla lettura».
Un’altra forza della natura è suo padre Gino, che ha da poco compiuto 100 anni.
«Accidenti se lo è! È la mia roccia, continua a combattere grintoso nonostante l’età veneranda. Fino a poco tempo fa guidava l’automobile e pretendeva di continuare a farlo per sentirsi autonomo, ma a un certo punto sono stata io a dirgli: basta, papà, non ti faccio più il rinnovo della patente, puoi essere pericoloso per te stesso e per gli altri. Tuttavia, non posso togliergli tutto e a volte mi arrendo alle sue incessanti richieste di libertà».
Tra le numerose figure materne, c’è anche Felicia Impastato, la madre di Peppino Impastato, il giornalista che pagò con la vita le sue denunce contro Cosa nostra. E mentre lavorava a Palermo sul set, ha fatto un incontro, diciamo così... in tema con l’argomento del film-tv.
«Esattamente: un giornalista scrittore da sempre impegnato sul fronte della mafia, Saverio Lodato. Ci siamo conosciuti a una cena informale a casa di amici comuni. Lui non sapeva chi fossi io, io non sapevo chi fosse lui, siamo partiti da zero e, da allora, stiamo vivendo una storia importante. Saverio non ha paura di dire e di scrivere quello che pensa, correndo grossi rischi. Grazie a lui, ho capito qualcosa in più sul problema mafia e mi ha dato anche qualche strumento in più per affrontare il mio personaggio».
Dalla divertente Cettina al dolore di Felicia che riuscì a far condannare gli assassini del figlio, il passo non è breve...
«Mi piace andare da un polo all’altro, dal comico al drammatico. Da ragazzina mi divertivo a fare le imitazioni di parenti, amici, insegnanti... ne studiavo soprattutto i tic, le smorfie, i difetti... d’altronde la recitazione fa parte dei giochi infantili. I bambini dicono: facciamo finta che io ero.... Poi ho seguito un corso specifico di formazione da clown, una figura affascinante, tragicomica, che ha aperto uno squarcio nella mia formazione, facendomi scoprire che sono capace anche di far ridere: tra le mie imitazioni più riuscite, quella di Stanlio. E una volta Federico Fellini disse che avevo occhi da tigre».
Fellini?
«Sì proprio lui. Avevo trent’anni, il grande regista aveva visto una mia foto, che probabilmente gli era stata inviata dal mio agente, e mi volle incontrare per un ruolo, se non ricordo male, in Amarcord. In realtà, in quel periodo ero diventata mamma da poco, avevo mio figlio Antonio piccolo e quindi mi ero un po’ distaccata dal lavoro frenetico. Ma a Fellini, voi capite, non potevo dire di no. Vado nel suo studio: una stanza enorme, una scrivania grandissima e lui che mi osservava, mi studiava. Quando terminò la nostra conversazione e ci siamo salutati, ricordo la sua voce gentile, suadente dietro le mie spalle».
Cosa diceva?
«Ammirava la mia andatura, il mio incedere lungo il corridoio. Ero talmente incantata, che mi son detta: pure se non mi prende nel film, voglio tornare da lui almeno una volta al mese...».
E poi l’ha scritturata?
«No, ma non ci sono rimasta male. Quell’incontro è stato comunque sorprendente, direi miracoloso, i suoi complimenti sono stati meglio che andare dallo psicanalista e sono bastati a inorgoglire il mio ego».
Niente Fellini, però è stata scritturata da Nanni Loy, Matteo Garrone, Ferzan Özpetek, Cristina Comencini... solo per citarne alcuni.
«Ho lavorato benissimo con tutti, ma Cristina mi ha fatto innamorare del cinema, soprattutto perché veder lavorare una donna che fa la regista, essere diretta da lei, mi ha colpito molto positivamente».
E, a proposito di donne, con lei avete fondato il movimento «Se non ora, quando?».
«Un gruppetto che si mette insieme, scende in piazza nel 2011 con uno slogan geniale, ripreso dal celebre libro di Primo Levi, che diventa una bandiera contro la mercificazione delle donne-oggetto. A undici anni di distanza c’è ancora molto da fare, nulla è dato per scontato e dobbiamo tornare in piazza perché è ora di finirla col piangersi addosso, occorre agire in maniera più decisa».
Che intende dire con questo?
«Sa una cosa? Vorrei cancellare la data del 25 novembre, la giornata della violenza sulle donne».
Perché?
«Ovviamente è una celebrazione che mi addolora, ma basta con le lacrime, vorrei tanto poter fare un altro racconto sulle donne e, infatti, con “Se non ora, quando?”, noi tramutammo questa data nel “giorno delle leonesse”. Insomma, sono stufa di sentir parlare di noi come soggetti fragili. I femminicidi sono dovuti alla debolezza degli uomini e non delle loro mogli o compagne, e sono gli uomini che devono interrogarsi su questo e devono curarsi».
Le sarebbe piaciuta, stavolta, una presidentessa della Repubblica al Quirinale?
«Fermo restando che sono felice della riconferma del presidente Mattarella, certo non nascondo che mi sarebbe piaciuta per esempio Elisabetta Belloni, aveva un profilo professionale perfetto per questo ruolo, di tutto rispetto. Il problema è che, come al solito, la questione è stata gestita male. Innanzitutto, le donne della politica sono spesso troppo fedeli e sottomesse ai loro capi maschi, quindi non osano farsi avanti, invece sarebbe ora di sviluppare un nostro orgoglio e di essere più incisive, di pretendere i dovuti riconoscimenti. E poi finiamola con lo sbandierarci come minoranze, con l’accontentarci delle quote rosa, un contentino di cui possiamo fare a meno. Le donne sono capaci di saper fare più cose insieme, e lo abbiamo dimostrato anche nella attuale pandemia, quindi dovrebbero implorarci di essere a capo di partiti, di governi... così come avviene all’estero, dove già esistono da tempo delle leader di tutto rispetto, che svolgono egregiamente il loro lavoro. Vorrei approfittare per fare un appello alle ragazze: non tiratevi indietro, mettetevi in gioco, abbiate più fiducia in voi stesse, nelle vostre capacità, tirate fuori il coraggio, la grinta della vostra leadership. Aggiungo che mi è piaciuto tantissimo il gesto femminista, unendo gli indici e i pollici, che la cantante Emma ha sbandierato durante la sua esibizione. Un gesto antico da vetero femminista? No, un gesto forte».
A proposito di donne forti, lei sarà presto in una serie tv, dal 15 marzo su Rai 1 con la regia di Simone Spada, nei panni di un’avvocatessa battagliera di nome e di fatto...
«Sono Marina Battaglia, titolare dello studio omonimo, di cui fanno parte altre avvocatesse. Sono milanese, elegante, autorevole, temibile, spregiudicata: nei processi sono un mastino senza scrupoli, ma dotata di tanta ironia... Da tempo aspettavo un personaggio brillante e anche un po’ scorretto».
Milanese?
«Sì, certo, io sono pugliese, ma nella serie si parla innanzitutto italiano e inoltre devo dire che qualche sbavatura in dialetto meneghino mi riesce piuttosto bene».
Quale attrice rappresenta per lei un punto di riferimento e alla quale, magari, vorrebbe in qualche modo somigliare?
«Bè, non tanto somigliare perché sono quella che sono, ma un mio mito è ovviamente Monica Vitti: un’attrice a 360 gradi, dal drammatico al comico... Come potrebbe essere altrimenti?».