Corriere della Sera, 13 marzo 2022
Intervista ad Andriy Schevchenko
Andriy Schevchenko, come stanno i suoi familiari a Kiev?
«Kyiv. In ucraino si scrive Kyiv. Kiev è la grafia russa».
Lei parla russo?
«Certo che parlo russo, me l’hanno insegnato a scuola. In Ucraina si può parlare russo liberamente. Noi non siamo indiscriminatamente contro il popolo russo; siamo contro coloro che sostengono la guerra. Sappiamo distinguere tra un popolo e un regime. So per certo che anche in Russia molti sono contrari alla guerra».
La voce di Andriy Schevchenko, l’ucraino più famoso al mondo – 111 gare e 48 gol con la Nazionale; scudetto, Champions e Pallone d’Oro con il Milan —, arriva al telefono da Londra, a tratti rotta dalla commozione.
Come stanno i suoi?
«Bene, per ora. Li sento più volte al giorno. Mia madre Lubov e mia sorella Elena sono in casa, a venticinque minuti dal centro di Kyiv. Adesso le hanno raggiunte altri parenti, tra cui mia zia Lida, che ha passato quattro giorni chiusa in cantina. Abita vicino a un aeroporto, il suo quartiere è stato bombardato».
Perché i suoi non hanno lasciato l’Ucraina?
«Perché è la loro patria, la loro terra, la loro casa. Semmai avrei preferito raggiungerli io. Perché avrebbero dovuto andarsene?».
Perché stava per scoppiare un conflitto.
«Non è un conflitto, non è un’operazione speciale, come la vogliono vendere. È un’aggressione. Un crimine contro i civili. Nessuno ci ha voluto credere, sino all’ultimo. Non potevamo immaginare che la Russia ci avrebbe fatto questo. Ci pareva impossibile».
Lei ha pensato di partire per l’Ucraina?
«Ci ho pensato tantissime volte. Ma è impossibile. Hanno chiuso subito tutto. Gli aeroporti sono stati bombardati per primi. Quindi ho deciso di difendere il mio Paese come posso. Raccontando chi siamo, quanto stiamo soffrendo. Aiutando le vittime e i rifugiati. La risposta dell’Italia è stata eccezionale».
Cosa stanno facendo gli italiani per l’Ucraina?
«Attraverso GoFoundMe abbiamo raccolto 343.764 euro per la Croce Rossa: trauma-kit, medicine, viveri. Altri fondi sono raccolti dalla Fondazione Milan, che ha messo in vendita la riproduzione delle maglie che indossavamo a Manchester quando nel 2003 vincemmo la Champions. Mi ha chiamato il mio amico Giorgio Armani, che si è mobilitato di persona. Ho parlato con il sindaco di Firenze e con il sindaco di Milano. Spero di poter annunciare presto un’iniziativa speciale...».
Quale?
«Milano e l’Italia sono la mia seconda patria. Milano è una città particolarmente generosa. Sono certo che potrà e vorrà accogliere molti ucraini che fuggono dalla guerra. Saranno quasi tutti bambini, donne e anziani, perché gli uomini tra i 18 e i 60 anni non possono lasciare il Paese».
Devono combattere?
«In prima linea vanno i soldati che hanno avuto un regolare addestramento. Poi certo tutto il Paese è compatto nella resistenza».
Come si sta comportando Zelensky?
«Con grande coraggio. Ha riunito gli ucraini attorno a lui».
In Italia qualcuno sostiene che dovreste arrendervi.
«Noi vogliamo la pace. Ma arrenderci in questo momento significherebbe perdere la libertà. Noi ci stiamo battendo e ci batteremo per la nostra libertà e i nostri diritti. Vogliamo avvicinarci all’Europa. Non abbiamo attaccato nessuno, ci stiamo solo difendendo».
È giusto quindi fornire armi all’Ucraina?
«È giusto tutto quello che serve a difendere il nostro Paese dagli aggressori. Le democrazie sono al nostro fianco, e questo è molto importante per noi. Anche le sanzioni alla Russia sono molto importanti, per fare pressione e trovare una soluzione diplomatica».
È giusto escludere la Russia dai Mondiali di calcio?
«Sì, è giusto! Finché dura la guerra, gli atleti russi non possono gareggiare. Prego ogni giorno perché la guerra finisca».
Lei crede in Dio?
«Certo che credo in Dio. In famiglia siamo tutti religiosi. Siamo ortodossi, mentre mia moglie e i nostri quattro figli sono cattolici. Ma Dio è uno solo. Ricordo la meraviglia che provai quando vidi San Pietro...».
Quando accadde?
«Era la prima volta che lasciavo casa. Era il 1989 e avevo 12 anni. Un viaggio lunghissimo: da Kyiv a Mosca, poi Roma, Napoli, Agropoli».
Agropoli?
«Dovevamo giocare un torneo. Roma è una città meravigliosa, grandiosa, ma è ad Agropoli che ho scoperto la generosità e l’affetto degli italiani. Eravamo ospiti di una famiglia che mi ha regalato il mio primo paio di jeans. E anche se abbiamo battuto in finale la squadra di casa, con 5 gol miei, mi hanno dato qualche lira con cui presi un rasoio Gillette per mio padre Nikolay e un profumo per mia mamma e mia sorella...».
Suo padre era un militare.
«Fu di stanza in Germania per 12 anni, poi in Kazakistan».
Nel bel libro scritto con Alessandro Alciato, «Forza gentile», lei racconta che degli amici della sua giovinezza soltanto uno è ancora vivo.
«Purtroppo è così. Gli altri li hanno uccisi il crimine, la droga, l’alcol. Sono stati anni terribili, quelli della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tanti cercavano scorciatoie che non li hanno portati da nessuna parte. Una volta anch’io fui coinvolto in una rissa, tornai a casa tutto pesto. Da allora ho orrore della violenza».
Lei aveva 9 anni quando esplose il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl.
«Portai a casa il mio pallone tutto accartocciato, quasi sciolto: era radioattivo, mia madre lo bruciò nella bacinella. Arrivarono pullman da tutta l’Urss per portare via i bambini. Io finii sul Mare d’Azov, a 1.500 chilometri da casa. In un campo estivo dove dormivamo in 7 per stanza».
Non è stata un’infanzia facile.
«Però a Kyiv giocavo a calcio tutti i giorni. D’inverno, sci di fondo e hockey sul lago ghiacciato; d’estate, nuoto e catamarano. E poi lotta libera, tennis, basket, ginnastica: la sbarra. Sarei comunque diventato un atleta».
Il 24 agosto 1991 l’Ucraina divenne indipendente.
«Ero a Mosca per un torneo. Viaggiammo in treno tutta la notte. Arrivammo il mattino in una Kyiv piena di bandiere gialle e azzurre».
Com’erano i vostri rapporti con i russi?
«Eravamo un unico Paese. Ora questa guerra sta cancellando tutto un passato comune: nella cultura, e anche nello sport. I grandi calciatori sovietici erano ucraini: Oleg Blochin, Oleksandr Zavarov, Oleksij Mychajlycenko, Ihor Belanov... Anche Bubka è ucraino, è il presidente del nostro Comitato olimpico».
Pure Borzov. E il mitico Lobanovskij, detto il Colonnello, che fu suo allenatore alla Dinamo Kyiv.
«Era stato nell’Armata Rossa. Ma noi lo chiamavamo con il patronimico, in segno di rispetto: Valerij Vasil’evic. Impostò un programma militare: sveglia alle 6 e 45, alle 7 corsa all’aperto anche con dieci gradi sottozero, poi palestra con varie stazioni di lavoro, tipo Via Crucis. Alle 10 colazione, quindi primo allenamento di calcio, doccia, riposino fino alle 16, poi altre due ore di allenamento. Fu il primo a studiare le partite al computer, ma considerava il dribbling fondamentale, organizzava di continuo duelli uno contro uno. La formazione era decisa dalla salita della morte».
Cos’era?
«Un tracciato con il 16% di pendenza: correvamo su e giù fino a quando qualcuno non cominciava a vomitare. Giocava chi non aveva vomitato, o comunque vomitato di meno».
Lei giocò due partite con l’Ucraina contro la Russia.
«La prima volta vincemmo 3 a 2 in casa, la seconda pareggiammo a Mosca 1 a 1, con un mio gol su punizione all’ultimo minuto. Era il 1999 e il clima era già tesissimo. La sera prima avevamo dormito in ambasciata, per la nostra sicurezza».
Quell’anno arrivò al Milan.
«Conoscevo già Milano perché ci ero stato da ragazzo, con le giovanili. Ci portarono a visitare il Castello, il Duomo, poi a pranzo in Galleria, infine a San Siro. Da allora ho sognato di tornare in quello stadio fantastico».
Prima lei aveva giocato contro Maldini...
«... Che non mi fece toccare palla».
E con Costacurta, che la provocava.
«Mi diceva strane cose in inglese che capivo poco, tipo “Ti meniamo...”. Diventammo molto amici. Anche con Albertini e Ambrosini, che era il mio compagno di stanza».
Con Berlusconi non avete mai parlato di Putin?
«Mai. Il presidente con me è sempre stato delizioso. Non dimentico che mandò un aereo a prendere mio padre a Kyiv per farlo operare al cuore in Italia».
Poi arrivò il rigore decisivo nella finale di Champions, e il Pallone d’Oro.
«Una storia straordinaria, ma in questo momento ho la testa da un’altra parte. Tutti i miei pensieri sono per il mio Paese. Chiedo all’Italia di fare di tutto per accogliere chi fugge, e per trovare una soluzione che metta fine al massacro. Prego per questo».
Come immagina l’aldilà?
«Non so cosa ci sia dopo la morte. So che l’importante è che, quando te ne vai, la gente sia dispiaciuta per te. Spero di avere una buona vita, e che mia moglie e i miei figli – perché voglio andarmene per primo – siano dispiaciuti per me. Ma ora le mie preghiere sono per la salvezza di mia madre, dei miei cari, e del popolo ucraino. Che proprio non si merita la tragedia che sta subendo. Oggi tocca a noi; ma non escludo che, se Putin non sarà fermato, domani possa toccare ad altri Paesi europei».