Corriere della Sera, 13 marzo 2022
Il piano B degli oligarchi: tutti a Dubai
Qualche giorno trascorso all’Expo di Dubai e Abu Dhabi offre una prospettiva particolare sulla guerra in Ucraina. La «sofferenza» degli oligarchi russi, l’impoverimento di Mosca, l’isolamento di Putin, appaiono sotto una luce diversa in Medio Oriente. Gli hotel extralusso di Dubai registrano il tutto esaurito grazie agli oligarchi russi. Vengono espropriati di beni a Saint Tropez e in Costa Smeralda, cacciati dalle banche inglesi e svizzere, ma negli Emirati trovano un paradiso fiscale e bancario accogliente, almeno per adesso, dove attutire la morsa delle nostre sanzioni. Nel Golfo e in generale nel mondo arabo la Russia è meno ostracizzata di quanto sembra a noi: raccoglie i frutti del suo espansionismo in Siria e altrove, è rispettata per il suo ruolo militare in quest’area. Decisiva è la partita del petrolio. Finché il barile di greggio resta sopra i 110 dollari Putin continua a incassare abbastanza da finanziare la sua aggressione. La Russia ha costruito negli anni un rapporto eccellente con l’Opec al punto che il cartello è stato ribattezzato Opec+ (più Mosca, appunto). Emirati e Arabia saudita potrebbero creare grosse difficoltà a Putin, se soltanto volessero aumentare la produzione e quindi far calare i prezzi. Sono le uniche due nazioni che hanno un’ampia capacità produttiva inutilizzata. Gli Emirati sono oggetto di una formidabile pressione da parte di Biden e sembrano disponibili a fare questo favore all’America; negli ultimi giorni si sono smarcati dai loro cugini sauditi e si sono espressi a favore di un aumento dell’estrazione di greggio. Questo sarebbe un duro colpo per la Russia, ben più significativo del simbolico embargo americano (gli Stati Uniti importano pochissimo petrolio da Mosca). Ma non è detto che i sauditi e altri membri del cartello vogliano sabotare così apertamente il loro «membro esterno». Il braccio di ferro in seno all’Opec indica che Putin è stato abile nel tessere le fila delle sue alleanze internazionali.
Il «tutto esaurito» nei sontuosi hotel a sette stelle di Dubai, dove si sente parlare il russo molto più dell’arabo, e dove vanno a ruba suite da cinquemila euro a notte, ci rivela che molti oligarchi probabilmente avevano un piano B pronto da tempo, per fronteggiare i sequestri di beni. La compattezza fin qui mostrata dall’Occidente potrebbe non bastare. L’Occidente non è tutto. Per quanto la forza delle nostre sanzioni sia senza precedenti, ci sono aree del mondo dove gli straricchi trovano sempre un’accoglienza discreta e servizievole. Il denaro crea indulgenze ad ogni livello. Quando gli artisti italiani Roberto Bolle e Mahmood hanno avuto gesti di solidarietà con l’Ucraina all’Expo di Dubai, le autorità locali hanno espresso irritazione.
Non è solo il capitale russo che fa gola; è anche la geopolitica di Putin ad aver conquistato rispetto in quest’area del mondo. Molto prima che Joe Biden affermasse il suo rifiuto categorico di un conflitto diretto Nato-Russia in Ucraina, un altro gesto rimase impresso nella memoria dei leader arabi: fu quando Barack Obama annunciò una «linea rossa» da non oltrepassare in Siria, cioè l’uso di armi chimiche contro la popolazione civile; Assad ignorò l’ultimatum e non accadde nulla. Da allora la Siria è diventata un protettorato militare della Russia e il potere di Assad è saldo. Perfino Israele negozia con i militari russi quando vuole lanciare raid contro i terroristi filo-iraniani basati in Siria; è una delle ragioni per cui Tel Aviv ha avuto delle ambiguità sull’Ucraina. I muscoli militari che Putin ha esibito in Medio Oriente o in Africa, la stessa aggressività che suscita orrore tra noi europei pacifisti, altrove incute un timore che sconfina facilmente nell’ammirazione.
La geopolitica «non è una cena di gala», per parafrasare Mao Zedong, e il leader russo nel suo cinismo applica regole del gioco che altri condividono. La ritirata di Biden da Kabul aveva una razionalità profonda: dopo vent’anni di guerra era inutile illudersi di esportare democrazia e diritti; l’America ha bisogno di concentrarsi sulla sfida prioritaria con la Cina anziché disperdersi in conflitti periferici. Tuttavia l’uscita dall’Afghanistan ha seminato dubbi tra diversi leader del mondo arabo, che si chiedono se lo Zio Sam vorrà ancora esercitare un’influenza decisiva nelle loro aree. Ciò accade mentre russi e turchi offrono servizi mercenari in diversi conflitti locali, e i cinesi progettano nuove basi militari in queste zone. La sensibilità umanitaria ha indotto Washington e le capitali europee a limitare le forniture militari ai sauditi e agli Emirati nel conflitto dello Yemen dove agiscono milizie sciite filo-iraniane; il risultato è che i sunniti cercano armi a Mosca e Pechino. L’Iran non smette di spaventare i vicini, anche se Biden ora cerca di ricucire con tutti i nemici di ieri (Venezuela incluso).
Il vento dell’ambientalismo radicale che soffia a Washington e nelle capitali europee genera a sua volta contraddizioni stridenti. Fino all’altro ieri parlavamo di un mondo carbon-free quasi fosse dietro l’angolo. Ora i telefoni di Riad e Abu Dhabi squillano perché i leader occidentali chiedono più energie fossili, e a prezzi ragionevoli. Subito, per favore.