Tuttolibri, 12 marzo 2022
La vita onirica di Greci e Latini
Narrava Erodoto che, tra la popolazione degli Atlanti, nessuno aveva un nome proprio. Gli individui si chiamavano tutti nello stesso modo. Ma un’altra bizzarria caratterizzava questa stirpe nordafricana: gli Atlanti non sognavano mai. Che ci sia un rapporto tra le due cose? In fondo agli Atlanti sembrano mancare due tratti distintivi dell’identità personale: il nome identifica chi lo porta così come i sogni appartengono solo a chi li fa. Essi sono, per eccellenza, un’esperienza individuale e privata, non condivisibile con altri: «Quando si è svegli, viviamo in un mondo che è comune a tutti, mentre quando dormiamo ciascuno ha un suo mondo», diceva il sapiente Eraclito. Ma le cose sono davvero così semplici? In effetti, gli antichi narravano anche di sogni collettivi, come quelli dei crotoniati ai quali, tutti insieme, nella stessa notte, apparve nel sonno la dea Era. E proprio Erodoto raccontava anche come il persiano Artabano, sdraiandosi nel letto e indossando le vesti del re Serse, fosse riuscito ad avere lo stesso sogno del sovrano.Insomma, il mondo dei sogni antichi è un mondo complicato, che in parte coincide con il nostro e in parte se ne differenzia radicalmente. Lo hanno già mostrato i molti studiosi, anche italiani, da Maurizio Bettini a Carlo Brillante, che si sono occupati dell’argomento. Le differenze traspaiono fin dal lessico. Se noi diciamo «fare un sogno», gli antichi dicevano invece «vedere un sogno». Già questo minimo indizio linguistico svela che l’esperienza onirica era intesa non tanto come un prodotto della psiche del dormiente quanto come la manifestazione di una realtà oggettiva: era un messaggio che arrivava da un mondo altro, l’aprirsi di un misterioso canale di comunicazione con un remoto aldilà.Ben consapevole di questi studi, Anna Ferrari, esperta classicista, già autrice di preziosi dizionari mitologici per Utet e Rizzoli, ci guida ora con amabilità nel mondo dei sogni greci e romani. Offrendoci una sorta di storia notturna dell’antichità che parte dai dati più concreti e quotidiani. Ferrari ci racconta, per esempio, com’erano fatti i letti degli antichi, in genere più alti di quelli odierni, tanto che spesso era necessario uno sgabello per salirvi. Oppure ci spiega come facevano i nostri antenati a curare l’insonnia. Abbozzando anche una piccola storia della ninnananna: esperienza quotidiana, come ci racconta Platone, che paragonava le cantilene delle balie e il dondolio delle culle alla forza ipnotica dei riti orgiastici dionisiaci, ma ben presente anche nel mito e nella letteratura, che ci hanno trasmesso per esempio le dolci parole con cui Alcmena faceva addormentare il figlioletto Eracle.Ma il fulcro del libro è un’antologia ragionata dei sogni antichi in cui viene condensato oltre un millennio di vita onirica. Si spazia dalle visioni di Clitennestra, a cui appare nel sonno un serpente che le succhia il seno, immagine del figlio Oreste già pronto a ucciderla, fino al sogno profetico del giovane Giulio Cesare che crede di unirsi incestuosamente a sua madre. Nulla di freudiano: la madre, spiegarono gli indovini, raffigurava la terra su cui un giorno il condottiero avrebbe dominato.Ma la storia onirica della cultura occidentale inizia già con Omero. Nell’Iliade e nell’Odissea, infatti, le scene di sogno hanno un ruolo determinante. Spesso consistono nell’apparizione di una figura ultraterrena, un dio o un morto, che sta in piedi sopra la testa del dormiente e incombe su di lui. Può essere Atena che entra nel sogno di Penelope oppure il defunto Patroclo che torna a visitare l’amato Achille: sono immagini, eidola, che portano agli uomini messaggi decisivi per la loro esistenza. E decifrare correttamente questi messaggi è vitale, perché già Omero sa che i sogni possono anche essere ingannevoli: gli dei dell’Olimpo, sovente malevoli, possono inviarli agli uomini per provocare la loro rovina. Per questo erano fondamentali gli interpreti dei sogni, gli «onirocriti», e per questo, duemila anni prima di Sigmund Freud, nasce tutta una scienza dell’interpretazione dei segni onirici ben rappresentata dal manuale di Artemidoro di Daldi.Ma a volte anche gli antichi sognavano come noi e non si limitavano a ricevere passivamente la visione di un dio che portava il suo messaggio. Per esempio, all’inizio delle Nuvole di Aristofane, il giovinastro Fidippide, che sperpera i soldi del padre nelle corse dei cavalli, immagina anche nel sogno una gara dei suoi amati destrieri. Qui il sogno è già l’elaborazione di contenuti della vita diurna. Lo stesso Omero, descrivendo il momento in cui Achille insegue Ettore, dice «così, nel sogno, non riusciamo a inseguire chi fugge: chi fugge non riesce a fuggire, chi insegue non riesce a inseguire». È un sogno ricorrente di quelli che potremmo fare anche noi. E qui ogni distanza antropologica sembra quasi azzerarsi. Magari nel sonno dei contemporanei non appare più la dea Atena. Ma forse, anche noi, senza accorgercene, ritorniamo talvolta, nel sogno, a essere uomini antichi.